SEMPLIFICAZIONE E LIBERALIZZAZIONE: ALCUNE PRECISAZIONI
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Desidero sapere se nei Comuni della Regione Siciliana è necessario aspettare il recepimento della normativa nazionale in materia di semplificazione prima di adottare gli atti d'indirizzo .
riferimento id:8511
Desidero sapere se nei Comuni della Regione Siciliana è necessario aspettare il recepimento della normativa nazionale in materia di semplificazione prima di adottare gli atti d'indirizzo .
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NON è necessario. Le disposizioni sono direttamente applicabili in virtù della norma di chiusura che ti riporto.
D.L. 13-8-2011 n. 138
Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo.
Pubblicato nella Gazz. Uff. 13 agosto 2011, n. 188.
Art. 19-bis. Disposizioni finali concernenti le regioni a statuto speciale e le province autonome (159)
In vigore dal 17 settembre 2011
1. L'attuazione delle disposizioni del presente decreto nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano avviene nel rispetto dei loro statuti e delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42.
(159) Articolo inserito dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148.
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L. 5-5-2009 n. 42
Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione.
Pubblicata nella Gazz. Uff. 6 maggio 2009, n. 103.
Capo IX
OBIETTIVI DI PEREQUAZIONE E DI SOLIDARIETA' PER LE REGIONI A STATUTO SPECIALE E PER LE PROVINCE AUTONOME DI TRENTO E DI BOLZANO
Art. 27. (Coordinamento della finanza delle regioni a statuto speciale e delle province autonome) (50)
In vigore dal 6 dicembre 2011
1. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano, nel rispetto degli statuti speciali, concorrono al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ed all’esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti, nonché al patto di stabilità interno e all’assolvimento degli obblighi posti dall’ordinamento comunitario, secondo criteri e modalità stabiliti da norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi, e secondo il principio del graduale superamento del criterio della spesa storica di cui all’ articolo 2, comma 2, lettera m). (47)
2. Le norme di attuazione di cui al comma 1 tengono conto della dimensione della finanza delle predette regioni e province autonome rispetto alla finanza pubblica complessiva, delle funzioni da esse effettivamente esercitate e dei relativi oneri, anche in considerazione degli svantaggi strutturali permanenti, ove ricorrano, dei costi dell’insularità e dei livelli di reddito pro capite che caratterizzano i rispettivi territori o parte di essi, rispetto a quelli corrispondentemente sostenuti per le medesime funzioni dallo Stato, dal complesso delle regioni e, per le regioni e province autonome che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, dagli enti locali. Le medesime norme di attuazione disciplinano altresì le specifiche modalità attraverso le quali lo Stato assicura il conseguimento degli obiettivi costituzionali di perequazione e di solidarietà per le regioni a statuto speciale i cui livelli di reddito pro capite siano inferiori alla media nazionale, ferma restando la copertura del fabbisogno standard per il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui all’ articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, conformemente a quanto previsto dall’ articolo 8, comma 1, lettera b), della presente legge.
3. Le disposizioni di cui al comma 1 sono attuate, nella misura stabilita dalle norme di attuazione degli statuti speciali e alle condizioni stabilite dalle stesse norme in applicazione dei criteri di cui al comma 2, anche mediante l’assunzione di oneri derivanti dal trasferimento o dalla delega di funzioni statali alle medesime regioni a statuto speciale e province autonome ovvero da altre misure finalizzate al conseguimento di risparmi per il bilancio dello Stato, nonché con altre modalità stabilite dalle norme di attuazione degli statuti speciali. Inoltre, le predette norme, per la parte di propria competenza:
a) disciplinano il coordinamento tra le leggi statali in materia di finanza pubblica e le corrispondenti leggi regionali e provinciali in materia, rispettivamente, di finanza regionale e provinciale, nonché di finanza locale nei casi in cui questa rientri nella competenza della regione a statuto speciale o provincia autonoma;
b) definiscono i princìpi fondamentali di coordinamento del sistema tributario con riferimento alla potestà legislativa attribuita dai rispettivi statuti alle regioni a statuto speciale e alle province autonome in materia di tributi regionali, provinciali e locali;
c) individuano forme di fiscalità di sviluppo, ai sensi dell’ articolo 2, comma 2, lettera mm), e alle condizioni di cui all’ articolo 16, comma 1, lettera d).
4. A fronte dell’assegnazione di ulteriori nuove funzioni alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano, così come alle regioni a statuto ordinario, nei casi diversi dal concorso al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ai sensi del comma 2, rispettivamente le norme di attuazione e i decreti legislativi di cui all’ articolo 2 definiranno le corrispondenti modalità di finanziamento aggiuntivo attraverso forme di compartecipazione a tributi erariali e alle accise, fatto salvo quanto previsto dalle leggi costituzionali in vigore.
5. Alle riunioni del Consiglio dei ministri per l’esame degli schemi concernenti le norme di attuazione di cui al presente articolo sono invitati a partecipare, in conformità ai rispettivi statuti, i Presidenti delle regioni e delle province autonome interessate.
6. La Commissione di cui all’ articolo 4 svolge anche attività meramente ricognitiva delle disposizioni vigenti concernenti l’ordinamento finanziario delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano e della relativa applicazione. Nell’esercizio di tale funzione la Commissione è integrata da un rappresentante tecnico della singola regione o provincia interessata.
7. Al fine di assicurare il rispetto delle norme fondamentali della presente legge e dei princìpi che da essa derivano, nel rispetto delle peculiarità di ciascuna regione a statuto speciale e di ciascuna provincia autonoma, è istituito presso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, in attuazione del principio di leale collaborazione, un tavolo di confronto tra il Governo e ciascuna regione a statuto speciale e ciascuna provincia autonoma, costituito dai Ministri per i rapporti con le regioni, per le riforme per il federalismo, per la semplificazione normativa, dell’economia e delle finanze e per le politiche europee nonché dai Presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome. Il tavolo individua linee guida, indirizzi e strumenti per assicurare il concorso delle regioni a statuto speciale e delle province autonome agli obiettivi di perequazione e di solidarietà e per valutare la congruità delle attribuzioni finanziarie ulteriori intervenute successivamente all’entrata in vigore degli statuti, verificandone la coerenza con i princìpi di cui alla presente legge e con i nuovi assetti della finanza pubblica. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, è assicurata l’organizzazione del tavolo. (48) (49)
(47) Comma così modificato dall'art. 1, comma 1, lett. g), L. 8 giugno 2011, n. 85, a decorrere dal 18 giugno 2011, ai sensi di quanto disposto dall'art. 1, comma 3 della medesima L. 85/2011 e, successivamente, dall'art. 28, comma 4, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214.
(48) La Corte costituzionale, con sentenza 7 - 10 giugno 2010, n. 201 (Gazz. Uff. 16 giugno 2010, n. 24, 1ª Serie speciale), ha dichiarato, fra l’altro, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, comma 7, della legge 5 maggio 2009, n. 42, promossa dalla Regione Siciliana, in riferimento all'art. 43 dello statuto della Regione Siciliana.
(49) In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il D.P.C.M. 6 agosto 2009.
(50) Vedi, anche, gli artt. 13, comma 17, 14, comma 13-bis, e 28, comma 3, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214.
Desidero sapere se nei Comuni della Regione Siciliana è necessario aspettare il recepimento della normativa nazionale in materia di semplificazione prima di adottare gli atti d'indirizzo .
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A Conferma di ciò va citata la sentenza della Corte Costituzionale, Sentenza n. 200/2012, In tema di obbligo per gli enti locali di adeguare i rispettivi ordinamenti al principio c.d. della liberalizzazione delle attività economiche. Il ricorso fu presentato anche dalla Regione Sicilia e la Corte Costituzionale ha ritenuto legittimo il provvedimento statale di liberalizzazione.
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SENTENZA N. 200
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 3 del decreto-legge 13 agosto 2011,
n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, promossi con
ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria,
Calabria e della Regione autonoma Sardegna, notificati il 12 ottobre, il 14-18, il 14-16,
il 15, il 17 e il 15 novembre 2011, depositati in cancelleria il 21 ottobre, il 17, il 18, il 23
ed il 24 novembre 2011 e rispettivamente iscritti ai nn. 124, 133, 134, 144, 145, 147,
158 e 160 del registro ricorsi 2011.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 giugno 2012 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Franco Mastragostino per le Regioni 2
Emilia-Romagna e Umbria, Massimo Luciani per la Regione autonoma Sardegna,
Renato Marini per la Regione Lazio, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Luigi
Manzi per la Regione Veneto, Graziano Pungì per la Regione Calabria, Ugo Mattei ed
Alberto Lucarelli per la Regione Puglia e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. — Le Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e
Calabria, e la Regione autonoma Sardegna hanno impugnato l’articolo 3, oltre ad altre
disposizioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), come convertito dalla legge 14 settembre
2011, n. 148, con ricorsi notificati rispettivamente il 12 ottobre, il 14-18, il 14-16, il 15,
il 17 e il 15 novembre 2011, depositati in cancelleria il 21 ottobre, il 17, il 18, il 23 ed il
24 novembre 2011 e iscritti ai nn. 124, 133, 134, 144, 145, 147, 158 e 160 del registro
ricorsi 2011.
2. — L’articolo 3 impugnato, come risultante dalla legge di conversione, al
comma 1 stabilisce il «principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata
sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge»,
imponendo allo Stato e all’intero sistema delle autonomie di adeguarvisi entro un
termine prestabilito, inizialmente fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge di
conversione. Tale termine è stato successivamente individuato nel 30 settembre 2012, in
base all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni
urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito,
con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Dopo aver enunciato il principio
summenzionato, il medesimo art. 3, comma 1, impugnato elenca una serie di principi,
beni e ambiti che possono giustificare eccezioni al principio stesso: limitazioni
all’iniziativa e all’attività economica possono essere giustificate per garantire il rispetto
dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» e
dei «principi fondamentali della Costituzione»; per assicurare che l’attività economica
non arrechi «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» e non si svolga in
«contrasto con l’utilità sociale»; per garantire «la protezione della salute umana, la
conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del
patrimonio culturale»; e dare applicazione alle «disposizioni relative alle attività di
racconta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza
pubblica». 3
Il comma 2, del medesimo art. 3, qualifica tale intervento quale «principio
fondamentale per lo sviluppo economico» e attuazione della «piena tutela della
concorrenza tra le imprese».
Il comma 3 prevede che siano «in ogni caso soppresse, alla scadenza del termine
di cui al comma 1, le disposizioni normative statali incompatibili con quanto disposto
nel medesimo comma, con conseguente diretta applicazione degli istituti della
segnalazione di inizio di attività e dell’autocertificazione con controlli successivi», e
consente al Governo, nelle more della decorrenza di detto termine, di adottare strumenti
di semplificazione normativa attraverso norme di natura regolamentare. A questo scopo
«Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare uno o più regolamenti
ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con i quali
vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di quanto disposto nel presente
comma ed è definita la disciplina regolamentare della materia ai fini dell’adeguamento
al principio di cui al comma 1».
Il successivo comma 4 stabilisce che «L’adeguamento di Comuni, Province e
Regioni all’obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento di valutazione della
virtuosità dei predetti enti ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111». Tale comma 4 è stato
successivamente abrogato dall’articolo 30, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n.
183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
Legge di stabilità 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2012.
I successivi commi dell’art. 3 implementano la liberalizzazione dell’esercizio
delle professioni ed eliminano una serie di restrizioni all’accesso alle medesime.
I commi 10 e 11, infine, rispettivamente consentono la revoca di ulteriori
restrizioni all’esercizio delle attività economiche e all’accesso alle medesime, attraverso
norme regolamentari e permettono, invece, di mantenere le restrizioni per singole
attività, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in presenza di ragioni di
interesse generale, rispetto alle quali le restrizioni costituiscono una misura
indispensabile, proporzionata, idonea e non discriminatoria sotto il profilo della
concorrenza. Più specificamente l’esclusione di un’attività economica dall’abrogazione
delle restrizioni è giustificata qualora: «a) la limitazione sia funzionale a ragioni di
interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana;
b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del
grado di interferenza nella libertà economica, ragionevolmente proporzionato 4
all’interesse pubblico cui è destinata; c) la restrizione non introduca una discriminazione
diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, nel caso di società, sulla sede legale
dell’impresa».
3. — La Regione Puglia, con il ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’intero
art. 3 del decreto-legge sopra citato, per violazione degli articoli 41, 42, 43, 114,
secondo comma, e 117 Cost.
La ricorrente ritiene che tale articolo – stabilendo che le Regioni e gli enti locali
debbano adeguare i propri ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività
economica private sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato
dalla legge, e apponendo un elenco tassativo di ipotesi in cui il legislatore, statale o
regionale, può espressamente limitare l’esercizio dell’attività economica – contrasti con
l’art. 41 della Costituzione. In base alla disposizione impugnata gli enti territoriali
dovrebbero, dunque, adeguarsi ad una disciplina che sovvertirebbe il quadro
costituzionale dell’iniziativa e dell’attività economica, introducendo «un assetto
decisamente sbilanciato a favore dell’iniziativa privata».
Inoltre, l’obbligo diffuso di adeguamento all’art. 3 censurato, equiparando
Regioni ed enti locali, rappresenterebbe una forzatura del disegno costituzionale, in
quanto, a differenza degli enti locali, le Regioni detengono una potestà legislativa
autonoma garantita ex art. 117 Cost., che dunque non potrebbe soffrire l’inserimento,
per via di legge statale ordinaria, di un nuovo principio che ne limiti la “sovranità
legislativa”.
4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione e
memoria difensiva relativamente alle doglianze della Regione Puglia, il 21 novembre
2011.
Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che l’art. 3 del decreto-legge
impugnato sia una norma finalizzata a ridurre gli oneri amministrativi e procedimentali
a limitazione della libertà d’impresa e per favorire la ripresa economica. Per tale
ragione, la disposizione sarebbe coerente con l’art. 41 Cost. e con il suo orientamento a
favore della libera iniziativa economica, delimitata dal rispetto dei principi
fondamentali. Essa sarebbe stata adottata dal legislatore con l’obiettivo di sviluppare la
competitività delle imprese sul piano internazionale, in base alla competenza legislativa
statale in materia di concorrenza. 5
5. — La Regione Puglia ha depositato, il 23 maggio 2012, memoria a sostegno
delle proprie doglianze, tuttavia senza aggiungere ulteriori argomenti con riferimento
all’art. 3 impugnato.
6. — La Regione Toscana, con ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3,
comma 4, per violazione degli articoli 117, commi terzo e quarto, e 119 Cost. La
ricorrente sostiene che la legislazione statale, stabilendo il principio secondo cui, in
ambito economico, è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato e prevedendo
che l’adeguamento a tale principio sia considerato elemento di valutazione della
virtuosità delle Regioni ai fini del patto di stabilità, costituirebbe un intervento
normativo «del tutto estraneo alle finalità di coordinamento della finanza pubblica»,
esorbitando dunque dai limiti che il legislatore statale incontra in tale materia. La
virtuosità, criterio sorto nell’ambito del contenimento e razionalizzazione della spesa
pubblica, diverrebbe quindi uno strumento capace di coartare la «volontà delle Regioni»
nella disciplina dell’attività economica, travalicando così le sue originarie finalità:
tramite le disposizioni impugnate verrebbe, infatti, vincolata la potestà legislativa
regionale per fini estranei all’obiettivo del contenimento della spesa.
7. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria avverso
l’impugnazione della Regione Toscana il giorno 27 dicembre 2011, sostenendo che la
doglianza sia stata superata a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 30, comma 6, della
legge n. 183 del 2011, che ha abrogato il comma 4 dell’art. 3 del decreto-legge n. 138
del 2011, oggetto di censura. Pertanto, Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
richiesto che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere.
8. — La Regione Toscana ha, con memoria depositata il 29 maggio 2012,
evidenziato che la previsione abrogata sarebbe stata «integralmente riproposta» dall’art.
1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la
concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con
modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e ugualmente impugnato dalla Regione
Toscana.
9. — La Regione Lazio, con ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3,
comma 1, in combinato disposto con il comma 4 dello stesso articolo 3 del decretolegge più volte richiamato.
La disposizione contenuta nel comma 1, secondo la ricorrente, interverrebbe in un
ambito prevalentemente attinente alla disciplina del commercio e delle attività
produttive, materie che la Corte avrebbe costantemente ritenuto riconducibili alla 6
competenza residuale regionale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. La
legislazione impugnata, in violazione del riparto di competenze stabilito dall’art. 117
Cost. introdurrebbe una disciplina che impone alla Regione di regolare tali settori
secondo i principi dettati dal legislatore statale, per di più prevedendo un meccanismo
sanzionatorio in caso di mancato adeguamento, che penalizzerebbe la Regione in
relazione al patto di stabilità interno.
A detta della ricorrente Regione Lazio, non sarebbe conferente la qualificazione
dell’intervento normativo quale strumento di “tutela della concorrenza”, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera e). Infatti, anche alla luce della giurisprudenza
costituzionale, un intervento normativo regionale, che limitasse l’iniziativa economica
privata per ragioni non coincidenti con quelle indicate dalla norma impugnata, efficaci
erga omnes e fondate su presupposti ragionevoli, non confliggerebbe con la libera
concorrenza, purché non privilegi alcun operatore economico, né alteri la competizione
tra essi. La disposizione impugnata, dunque, introdurrebbe costrizioni al legislatore
regionale non giustificate sulla base delle esigenze della tutela della concorrenza.
Infine, anche qualora si ritenesse di qualificare il comma 1 – e, per relationem, il
comma 4 – quale misura a tutela della concorrenza, la disciplina statale, a detta della
Regione Lazio, risulterebbe in ogni caso costituzionalmente illegittima e lesiva delle
competenze regionali, in quanto non rispettosa del principio di leale collaborazione.
Infatti, nelle disposizioni impugnate, i profili della tutela della concorrenza
s’intreccerebbero inevitabilmente con altri aspetti riconducibili alle materie delle
“attività produttive” e del “commercio”, di competenza regionale. Pertanto, si
verificherebbe un’ipotesi di intreccio di competenze statali e regionali, che esige il
ricorso a forme di leale collaborazione, coinvolgendo le Regioni nella produzione della
legislazione statale – forme che tuttavia la legislazione statale censurata non prevede.
10. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato, il 27 dicembre 2012,
atto di costituzione e memoria.
Con riferimento alla censura relativa all’art. 3, comma 1, la difesa erariale sostiene
che la disposizione si ponga all’interno della competenza esclusiva statale in tema di
tutela della concorrenza, poiché le limitazioni diverse da quelle consentite dal comma
impugnato comprimerebbero il carattere concorrenziale dei mercati.
Viceversa, gli interventi legislativi regionali in materia di commercio e attività
produttive sarebbero in ogni caso possibili a seguito dell’introduzione della legislazione
impugnata, con l’ovvio limite del principio di proporzionalità ex art. 3 Cost. 7
11. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria, con i ricorsi indicati in epigrafe,
hanno impugnato per identiche ragioni, anche nelle enunciazioni, l’art. 3, commi 2, 3, 4,
10 e 11.
11.1. — Entrambe le Regioni muovono dal presupposto che il comma 1
dell’articolo 3 stabilisce un «ovvio principio di libertà», imponendo eccezioni dai
caratteri ampi e determinati, evocativi di un principio di ragionevolezza, per cui si
potrebbe «affermare senza paura di sbagliare che tutti i divieti oggi esistenti potrebbero
giustificarsi in base ad una o più delle categorie enunciate». Tuttavia, proprio per questa
ragione, quell’enunciazione di principio non sarebbe né in grado di fungere da norma
parametro per l’abrogazione di regimi amministrativi eventualmente incompatibili, né di
indicare quali percorsi normativi si possano attivare per il suo recepimento.
11.2. — In particolare, l’art. 3, comma 2, qualificando il comma 1 quale principio
fondamentale per lo sviluppo economico e la tutela della concorrenza, violerebbe la
competenza legislativa regionale, considerato che lo sviluppo economico rientrerebbe
tra le materie residuali regionali. Del resto, a detta delle ricorrenti, il medesimo comma
1 sembrerebbe escludere l’invasione delle competenze regionali, poiché, dal momento
che impone loro di adeguarsi al principio enunciato, ne riconosce le competenze in tale
ambito.
11.3. — Il nucleo centrale dell’impugnazione, per espressa affermazione delle
ricorrenti, si individuerebbe nell’art. 3, comma 3, il quale stabilisce che, alla scadenza
del termine di un anno, le disposizioni di normative statali incompatibili sono
«soppresse», con conseguente diretta applicazione degli istituti di segnalazione d’inizio
di attività e autocertificazione, con le eccezioni a protezione dei principi fondamentali
stabiliti all’art. 3, comma 1. Tale previsione risulterebbe generica e inapplicabile e
pertanto irragionevole, in base all’art. 3 Cost., oltre che contraria al buon andamento
della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., e infine in conflitto con il principio di
certezza del diritto, a causa dell’incertezza sulla disciplina vigente che ne deriverebbe.
Il secondo e terzo periodo del medesimo art. 3, comma 3, prevedono che, nelle
more della decorrenza del termine annuale, l’adeguamento al principio di
liberalizzazione possa avvenire anche attraverso la semplificazione normativa e che il
Governo, entro il 31 gennaio 2012, possa adottare uno o più regolamenti con i quali
individuare le disposizioni abrogate e definire la disciplina regolamentare applicabile.
Secondo le ricorrenti, questi strumenti rappresenterebbero la chiave di volta del sistema,
dal momento che l’abrogazione implicita imposta dal primo periodo dell’art. 3, comma 8
3, sarebbe di impossibile applicazione per la vaghezza dei principi invocati. Tuttavia, la
previsione di strumenti di delegificazione e semplificazione sarebbe costituzionalmente
illegittima, secondo le due ricorrenti, innanzitutto per violazione del principio di legalità
sostanziale. Infatti, i regolamenti di delegificazione interverrebbero in mancanza di una
“cornice legislativa” all’interno della quale dovrebbero esplicarsi. Pertanto, la disciplina
regolamentare finirebbe per essere «meramente potestativa da parte del potere
esecutivo». In secondo luogo, l’assenza di qualunque delimitazione di materia
estenderebbe il potere regolamentare del Governo anche alle materie di competenza
legislativa regionale, sia concorrente che residuale, e pertanto sarebbe in violazione
dell’art. 117, sesto comma, Cost. Infine, qualora, a detta delle ricorrenti, l’intervento
statale fosse inquadrabile in termini di sussidiarietà, e dovesse ammettersi l’attribuzione
della potestà regolamentare in capo allo Stato, la disciplina permarrebbe illegittima per
mancata previsione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni per i profili di
competenza regionale.
11.4. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria censurano inoltre l’art. 3, comma
4, ritenendolo illegittimo per due ordini di ragioni. In primo luogo, esso esprimerebbe
un dovere di adeguamento indefinito e generico da parte delle Regioni nei confronti
della disposizione di principio statale, mancando di individuare i parametri di giudizio
attraverso i quali accertare l’adeguamento. Ciò configurerebbe complessivamente un
tratto d’incertezza e di irrazionalità della disciplina, sottoponendo la potestà legislativa
regionale a limiti diversi da quelli costituzionalmente previsti.
Inoltre, anche qualora i criteri ai quali adeguarsi fossero definiti, non sussisterebbe
un nesso razionale tra il principio di liberalizzazione e gli effetti sulla finanza regionale
che il comma censurato ricollega al suo inadempimento, sicché sarebbe incongruo
penalizzare finanziariamente le Regioni per «presunti mancati adeguamenti ai principi
statali».
11.5. — L’art. 3, comma 10, viene impugnato dalle Regioni Emilia-Romagna e
Umbria poiché la previsione che un regolamento dell’esecutivo possa eliminare
eventuali restrizioni all’esercizio delle attività economiche violerebbe ugualmente il
principio di legalità sostanziale, per assenza di qualunque criterio idoneo a circoscrivere
l’esercizio del potere regolamentare. La medesima disposizione confliggerebbe inoltre
con l’art. 117, sesto comma, Cost., ove si ritenesse che il regolamento ivi previsto può
estendersi ad oggetti ed ambiti di competenza regionale. Infine, essa sarebbe illegittima
per violazione del principio di leale collaborazione, poiché non prevede la conclusione 9
di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, laddove i regolamenti governativi
dovessero interferire con materie di competenza regionale.
11.6. — L’art. 3, comma 11, dispone che singole attività economiche possano
essere escluse dall’abrogazione delle restrizioni con decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri, attraverso una procedura che deve coinvolgere il ministro competente per
materia, il Ministro dell’economia e delle finanze e l’Autorità garante della concorrenza
e del mercato, entro quattro mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del
decreto-legge, purché a) si sia in presenza di ragioni di interesse pubblico, in particolare
di quelle legate alla salute umana, b) tale limitazione alla libertà economica sia
indispensabile, idonea e proporzionata, c) e tale restrizione non generi una
discriminazione diretta o indiretta.
Tale disposizione, secondo l’impugnativa delle Regioni Emilia-Romagna e
Umbria, sarebbe illegittima, in quanto consentirebbe soltanto allo Stato e non alle
Regioni di far valere ragioni di interesse pubblico per consentire limitazioni alle attività
economiche. Inoltre, anche qualora ragioni di uniformità e sussidiarietà consentissero
l’attrazione di tali competenze in capo allo Stato, gli interessi regionali dovrebbero
trovare spazio attraverso il modello dell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, che
la disposizione non prevede. Per tale ragione, verrebbe pertanto violato anche il canone
della leale collaborazione.
12. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato il 27 dicembre 2011
due distinti atti d’intervento e memoria d’identico contenuto, nei confronti delle
doglianze delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria, chiarendo, con riferimento all’art.
3, comma 1, che si tratta di una «disposizione programmatica», come tale inidonea a
recare lesione alle competenze legislative regionali e che il medesimo art. 3, commi 3,
10 e 11, si riferisce alle sole disposizioni statali; quindi tali commi, così interpretati,
sono insuscettibili di impingere nelle competenze regionali. In ogni caso, il legislatore
statale avrebbe agito in base all’art. 41 Cost., che gli attribuirebbe, in tesi, il potere di
attuare gli interventi opportuni per il coordinamento dell’attività economica; il suo
intervento si situerebbe, inoltre, nel quadro della sua competenza esclusiva statale a
tutela della concorrenza. Conseguentemente, la normativa non sarebbe neppure viziata
d’irragionevolezza.
13. — La Regione Emilia-Romagna e la Regione Umbria, con memorie distinte,
ma di identico contenuto, depositate entrambe il 29 maggio 2012, hanno evidenziato, da
un lato, che l’abrogazione dell’art. 3, comma 4, effettuata dall’art. 30, comma 6, della 10
legge n. 183 del 2011, ha determinato la cessazione della materia del contendere, in
quanto l’effetto abrogativo si sarebbe realizzato prima dello scadere del termine previsto
per l’adeguamento regionale; dall’altro, che i commi 3, 10 e 11, invece, non recano
contenuti meramente programmatici, ma potrebbero incidere su competenze legislative
regionali. Inoltre, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa erariale ad esclusione
della illegittimità della normativa censurata, l’art. 41 Cost. non attribuirebbe una
competenza esclusiva allo Stato nel campo della regolazione delle attività economiche,
sicché gli interventi normativi di attuazione di tale principio costituzionale si
distribuirebbero invece tra Stato e Regioni, sulla base dell’ordine delle competenze
determinate dall’art. 117 Cost.
14. — La Regione Veneto, con il ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3,
comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, con riferimento agli articoli 5, 117 e 120
Cost., e al principio di leale collaborazione.
14.1. — La ricorrente muove anzitutto dalla ricostruzione della materia “sviluppo
economico”, che dovrebbe rientrare tra le competenze esclusive regionali o, comunque,
strutturarsi quale “materia trasversale” e pertanto investire tutti gli ambiti, anche di
competenza regionale. La Corte, con sentenza n. 165 del 2007, avrebbe già precisato i
limiti delle attribuzioni statali in tema di sviluppo economico, anche con riferimento alle
pressanti esigenze di natura finanziaria, riconoscendo che tali attribuzioni interferiscono
con quelle regionali.
Tuttavia, la Corte medesima, con sentenza n. 64 del 2007, avrebbe già
riconosciuto la competenza del legislatore regionale a fissare limiti alla libera
concorrenza e all’accesso al mercato, purché non irragionevoli e giustificati al fine di
ridurre gli effetti negativi che si possano produrre nel tessuto economico preesistente.
14.2. — L’obbligo di adeguamento, imposto in modo indifferenziato e corredato
di sanzione ai sensi dell’art. 3, comma 4, interferirebbe, dunque, con ambiti di
attribuzione regionale, vulnerando il riparto di competenze ex art. 117 Cost. Inoltre,
anche a voler ammettere la necessità di rispondere a preminenti esigenze di solidarietà
nazionale, tali da giustificare l’esercizio unitario di una funzione statale in materia di
liberalizzazione delle attività economiche in deroga al normale riparto sancito dall’art.
117 Cost., risulterebbe comunque necessario rispettare il principio di leale
collaborazione.
La sanzione prevista dall’art. 3, comma 4, infine, risulterebbe sproporzionata in
relazione alla condotta eventualmente difforme dal precetto. Il sistema individuato dal 11
legislatore nel decreto-legge n. 138 del 2011, all’art. 3, richiamerebbe per alcuni aspetti
quanto previsto dalla legge 10 febbraio 1953, n. 62 (Costituzione e funzionamento degli
organi regionali), all’art. 10, primo comma, il quale stabiliva che i principi della
legislazione statale innovativi abrogassero le norme regionali con essi contrastanti, ma,
a differenza dalle disposizioni oggi in discussione, mantenevano intatta la facoltà delle
Regioni di continuare ad esercitare le proprie competenze legislative, adeguandosi alle
nuove normative statali di principio. Del resto, un’ulteriore alternativa ad uno strumento
tanto pervasivo quale un principio generale corredato di una sanzione di natura
finanziaria si ritroverebbe nell’art. 117, quinto comma, Cost., già attuato dall’art. 84 del
decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE
relativa ai servizi nel mercato interno), che disciplina la cedevolezza delle normative
incompatibili, prevedendo che le disposizioni del medesimo decreto si applichino anche
in materie legislative regionali sino all’entrata in vigore delle disposizioni regionali
attuative della normativa.
Per tali ragioni, il comma 4 dell’articolo impugnato prevedrebbe,
conclusivamente, uno strumento sanzionatorio eccessivo e lesivo delle prerogative di
autonomia garantite all’art. 5 Cost.
15. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione il
27 dicembre 2012, sostenendo che la doglianza relativa all’art. 3, comma 4, risulta
inammissibile per sopravvenuta carenza d’interesse, a seguito dell’abrogazione
intervenuta con la legge n. 183 del 2011 (art. 30, comma 6).
16. — La Regione Calabria, con il ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3,
commi 1, 2 e 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, più volte menzionato, in riferimento
alle competenze regionali in tema di tutela della salute.
L’attuazione di tali disposizioni del decreto-legge in discussione, secondo la
ricorrente, determinerebbe una significativa innovazione nel sistema sanitario. Infatti, in
base a giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, le
prestazioni mediche rientrerebbero nell’ambito di applicazione delle disposizioni
relative alla libera prestazione dei servizi e pertanto sarebbero interessate dall’intervento
normativo. La ricorrente evidenzia l’impatto della normativa sul sistema sanitario
calabrese, alla luce del fatto che, con legge regionale 18 luglio del 2008, n. 24 (Norme
in materia di autorizzazione, accreditamento, accordi contrattuali e controlli delle
strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche e private), la Regione Calabria ha
disciplinato il sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie, prevedendo 12
l’autorizzazione sanitaria, quale provvedimento con cui si consente l’esercizio
dell’attività sanitaria o socio-sanitaria, da parte di strutture pubbliche, private o di
professionisti (art. 3, comma 1), mentre ha consentito alle strutture pubbliche e private
ed ai professionisti già autorizzati di erogare prestazioni sanitarie o socio-sanitarie per
conto del sistema sanitario nazionale tramite accreditamento (art. 11, comma 1),
stabilendo altresì che quest’ultimo possa essere concesso in relazione alle necessità
della Regione, evidenziate nel Piano Sanitario Regionale (art. 11, comma 4). Questa
sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie seguiva del resto gli articoli 8-ter e 8-
quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in
materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).
La Regione Calabria, oggetto di commissariamento per deficit sanitario (delibera
del Consiglio dei ministri del 30 luglio 2010), ha adottato un apposito piano di rientro
(delibera della Giunta regionale n. 845/09), approvato con accordo Stato-Regione
stipulato il 17 dicembre 2009 e a sua volta oggetto di delibera regionale n. 908 del 2009.
Tale piano di rientro prevede, tramite un cronoprogramma, di riorganizzare la rete di
ospedali e strutture pubbliche e private, mediante analisi della domanda e dell’offerta. Il
sistema sanitario regionale, così sommamente delineato, troverebbe un supporto nella
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, e in particolare nella
sentenza 10 marzo 2009, in causa C-169/07, Hartlauer, che ha ritenuto non
incompatibili con il diritto comunitario le restrizioni allo svolgimento di attività,
giustificate da ragioni di sanità pubblica, purché non discriminino gli operatori in base
alla nazionalità e, qualora la limitazione sia volta alla realizzazione di un livello elevato
di tutela della salute, contemperando tale obiettivo con la necessità di prevenire il
rischio di una grave alterazione dell’equilibrio finanziario.
Le norme impugnate, secondo la ricorrente, violerebbero pertanto gli articoli 41,
terzo comma, e 97 Cost., invadendo inoltre la competenza concorrente regionale in
materia di tutela della salute, prevista dall’art. 117 Cost., dal momento che la normativa
sembrerebbe imporre di accogliere «senza alcun filtro tutte le istanze di autorizzazione
ed accreditamento», in contrasto con il sistema introdotto dalla Regione.
Inoltre, l’art. 3, commi 1 e 2, violerebbe gli artt. 41, terzo comma, e 97 Cost.,
anche con riferimento ad altri tipi di attività (ad esempio, vendita al pubblico dei
farmaci da banco o di automedicazione, aperture di strutture di grande e media
distribuzione), pregiudicando l’ordinato funzionamento dell’ordinamento regionale.
Esso, inoltre, invaderebbe la competenza concorrente ex art. 117 Cost. in materia di 13
governo del territorio, di tutela della salute, di commercio, vietando sostanzialmente –
ad esempio – «di subordinare il rilascio delle autorizzazioni alla determinazione di
requisiti quali la superficie minima che deve avere l’apposito reparto destinato allo
svolgimento della riferita attività», o alla «idonea pianificazione territoriale degli
insediamenti delle attività commerciali», o di condizionare «l’apertura di grandi
strutture di vendita in base alla dimensione demografica del territorio comunale di
insediamento».
L’art. 3, commi 1, 2 e 4, porrebbe la Regione Calabria nell’alternativa di
ottemperare a tali norme liberalizzanti, in violazione del piano di rientro, oppure di
mantenere il proprio ordinamento, rischiando di non essere valutata come ente virtuoso,
ex art. 3, comma 4. Tali commi sarebbero pertanto complessivamente viziati da
illegittimità costituzionale, per violazione del principio di ragionevolezza, ex art. 3
Cost., e del principio di leale collaborazione.
È anche dedotta – pur senza specifica motivazione – la violazione degli artt. 70 e
77 Cost. in riferimento all’intero art. 3 del menzionato decreto-legge.
17. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione il
27 dicembre 2012, sviluppando argomentazioni identiche a quelle svolte nei confronti
delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria, di cui al punto 12, alle quali pertanto si rinvia.
18. — La Regione Calabria ha depositato ulteriore memoria il 23 maggio 2012,
ribadendo le conclusioni avanzate nel ricorso.
19. — La Regione autonoma Sardegna, con il ricorso citato in epigrafe, ha
impugnato l’art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, con riferimento agli
articoli 3, 4 e 7 dello statuto di autonomia (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3)
e agli articoli 3, 117 e 119 della Costituzione.
19.1. — L’art. 3, comma 4, del decreto impugnato trasformerebbe, secondo la
ricorrente, in vincoli di finanza pubblica degli adempimenti di carattere sostanziale privi
di rilevanza finanziaria. Ci si troverebbe dunque di fronte ad «un caso paradigmatico di
eccesso di potere legislativo e, comunque, di violazione del principio di
ragionevolezza», in contrasto con l’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli articoli
117 e 119 Cost., che, del resto, non contemplerebbero una tale competenza statale.
19.2. — Più precisamente, l’art. 3, comma 4, attribuendo allo Stato il potere di
valutare il livello di attuazione regionale a fini di determinazioni di carattere finanziario,
gli consentirebbe di condizionare le scelte del legislatore regionale al di fuori del riparto
di competenze stabilito dall’art. 117, secondo e terzo comma, Cost. In particolare, con 14
tale disposizione lo Stato vincolerebbe nei fatti le Regioni nelle materie di competenza
legislativa concorrente pur senza dettarne i principi fondamentali ex art. 117, comma
terzo, Cost.
19.3. — L’articolo 3, comma 4, viene inoltre impugnato dalla Regione autonoma
Sardegna per contrasto con gli artt. 3, 4 e 7 dello statuto di autonomia, in quanto la
disposizione limita indebitamente l’autonomia regionale sia nelle materie di competenza
esclusiva che in quelle di competenza concorrente, sia, infine, in materia di bilancio.
Infatti, la regolamentazione dell’iniziativa economica privata interessa, oltre ad ambiti
materiali indicati all’art. 117, terzo comma, Cost., anche quelli elencati agli articoli 3 e
4 dello statuto, ed in particolare all’art. 3, primo comma, lettere d) (agricoltura e foreste)
f) (edilizia e urbanistica), g) (trasporti su linee automobilistiche e tramviarie), o)
(artigianato), p) (turismo, industria alberghiera) e all’art. 4, primo comma, lettere a)
(industria, commercio ed esercizio industriale delle miniere, cave e saline), b)
(istituzione ed ordinamento degli enti di credito fondiario ed agrario, delle casse di
risparmio), e) (produzione e distribuzione dell’energia elettrica), f) (linee marittime ed
aeree di cabotaggio fra i porti e gli scali della Regione), m) (pubblici spettacoli), che
allocano diverse competenze alla Regione. L’art. 7 dello statuto, infine, sarebbe violato
in quanto assegna alla Regione un’ampia autonomia finanziaria.
20. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione il
23 dicembre 2011, sostenendo che le doglianze relative all’art. 3, comma 4, siano state
superate dall’abrogazione della norma impugnata dalla Regione autonoma Sardegna,
effettuata con l’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011
21. — Con ulteriore memoria depositata il 29 maggio 2012, la Regione autonoma
Sardegna riconosce che l’abrogazione dell’art. 3, comma 4, determina l’inutilizzabilità
del criterio dell’adeguamento regionale al principio della liberalizzazione delle attività
economiche al fine di valutare la virtuosità dell’ente, rimettendosi alle conseguenze
processuali che riterrà la Corte.
22. — Con memoria depositata il 29 maggio 2012, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha ulteriormente replicato in riferimento alle diverse doglianze presentate dalle
Regioni ricorrenti avverso l’art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011.
22.1. — A detta della parte resistente, le Regioni concentrano l’impugnazione
sostanzialmente sul principio di liberalizzazione, che, eccedendo dal limite della
competenza statale esclusiva in tema di tutela della concorrenza, interferirebbe con le
competenze regionali a disciplinare il commercio e le attività produttive. 15
Tuttavia, secondo il resistente, la tesi non sarebbe correttamente impostata. Si
tratterebbe invece di individuare i presupposti costituzionali sostanziali della
legislazione regionale in materia economica, stabiliti dall’art. 41 Cost., il quale
enuncerebbe la libertà d’iniziativa economica innanzitutto come libertà “negativa”,
«opponibile a qualsiasi intervento autoritativo».
L’art. 3 impugnato, secondo la parte resistente, si limiterebbe a ribadire il
principio di libertà d’iniziativa economica di cui all’art. 41, primo comma, Cost.,
precisando le situazioni nelle quali a questa libertà si possano apporre limiti. Questa
interpretazione dell’articolo 3 si evincerebbe dalla lettura dei casi d’eccezione alla
libertà di esercizio delle attività economiche – lettere da a) ad e) del comma 1 dell’art. 3
del decreto-legge n. 138 del 2011 – che ricalcano in gran parte le limitazioni già previste
dall’art. 41, secondo e terzo comma, Cost. ampliandole e precisandole. Pertanto, il
legislatore regionale non subirebbe alcuna limitazione delle sue prerogative in forza
dell’art. 3 del decreto-legge impugnato.
22.2. — Così inquadrato, dell’intervento del legislatore statale andrebbe valutato
lo scopo normativo di “tutela della concorrenza”, esplicitamente statuito dall’art. 3,
comma 2, del decreto-legge impugnato. Secondo la sentenza di questa Corte n. 430 del
2007, che ha puntualizzato i criteri per identificare un legittimo intervento normativo
statale in tale ambito, l’art. 3 avrebbe i caratteri richiesti, poiché, come previsto dalla
sentenza citata, perseguirebbe fini promozionali della concorrenza, attraverso
l’eliminazione di vincoli all’esercizio dell’attività economica.
L’art. 3, comma 3, del decreto-legge impugnato, prevedendo l’abrogazione
implicita delle disposizioni di normative statali che contengono restrizioni alla libera
iniziativa economica non giustificate dai principi elencati all’art. 3, comma 1,
costituirebbe pertanto una declinazione del principio pro-concorrenziale di
liberalizzazione. La disposizione impugnata si risolverebbe nel pretendere che le
limitazioni all’attività economica si conformino ai principi della tutela della
concorrenza, secondo l’impostazione data dall’Unione europea, e rispettino i canoni di
proporzionalità ed effettiva necessità. Pertanto, l’eventuale incidenza della legislazione
statale sugli ambiti di competenza regionale risulterebbe, conclusivamente, legittima.
Considerato in diritto
1. — Le Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e
Calabria, e la Regione autonoma Sardegna, con i ricorsi indicati in epigrafe, hanno
impugnato numerose disposizioni del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori 16
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), come convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
2. — Riservate a separate decisioni le questioni sulle altre disposizioni del
decreto-legge n. 138 del 2011, la Corte delimita l’oggetto del presente giudizio alle
censure relative all’articolo 3 del decreto-legge citato, come risultante dalla legge di
conversione, che detta principi in tema di regolazione delle attività economiche.
I giudizi, così separati e delimitati, in considerazione della loro connessione
oggettiva, devono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.
3. — L’art. 3 impugnato, nel testo modificato dalla legge di conversione, al
comma 1 stabilisce il «principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata
sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge»,
imponendo allo Stato e all’intero sistema delle autonomie di adeguarvisi entro un
termine prestabilito, inizialmente fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge di
conversione. Tale termine è stato successivamente procrastinato fino al 30 settembre
2012, in base all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1
(Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Dopo
aver enunciato il principio summenzionato, il medesimo art. 3, comma 1, elenca una
serie di principi, beni e ambiti che possono giustificare eccezioni al principio stesso: ai
sensi di tali proposizioni, limiti all’iniziativa e all’attività economica possono essere
giustificati per garantire il rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali» e dei «principi fondamentali della Costituzione»; per
assicurare che l’attività economica non arrechi «danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana» e non si svolga in «contrasto con l’utilità sociale»; per garantire «la
protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali,
dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale»; e dare applicazione alle
«disposizioni relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque
comportano effetti sulla finanza pubblica».
Il successivo comma 2 del medesimo art. 3 qualifica le precedenti disposizioni
come «principio fondamentale per lo sviluppo economico» e attuazione della «piena
tutela della concorrenza tra le imprese».
L’art. 3, comma 3, prevede che siano «in ogni caso soppresse, alla scadenza del
termine di cui al comma 1, le disposizioni normative statali incompatibili con quanto
disposto nel medesimo comma, con conseguente diretta applicazione degli istituti della 17
segnalazione di inizio di attività e dell’autocertificazione con controlli successivi», e
consente al Governo, nelle more della decorrenza di detto termine, di adottare strumenti
di semplificazione normativa attraverso provvedimenti di natura regolamentare. A
questo scopo «Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare uno o più
regolamenti ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con i
quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di quanto disposto nel
presente comma ed è definita la disciplina regolamentare della materia ai fini
dell’adeguamento al principio di cui al comma 1».
Il comma 4 dell’articolo impugnato stabilisce che «L’adeguamento di Comuni,
Province e Regioni all’obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento di valutazione
della virtuosità dei predetti enti ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111». Tale comma 4 è stato poi
successivamente abrogato dall’articolo 30, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n.
183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
Legge di stabilità 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2012.
I successivi commi dell’art. 3 implementano la liberalizzazione dell’esercizio
delle professioni ed eliminano una serie di restrizioni all’accesso alle medesime.
I commi 10 e 11, infine, rispettivamente consentono la revoca di ulteriori
restrizioni all’esercizio delle attività economiche e all’accesso alle medesime attraverso
norme regolamentari e permettono, invece, di mantenere le restrizioni per singole
attività, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in presenza di ragioni di
interesse generale, rispetto alle quali le restrizioni costituiscono una misura
indispensabile, proporzionata, idonea e non discriminatoria sotto il profilo della
concorrenza. Più specificamente, l’esclusione di un’attività economica dall’abrogazione
delle restrizioni è giustificata qualora: «a) la limitazione sia funzionale a ragioni di
interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana;
b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del
grado di interferenza nella libertà economica, ragionevolmente proporzionato
all’interesse pubblico cui è destinata; c) la restrizione non introduca una discriminazione
diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, nel caso di società, sulla sede legale
dell’impresa».
4. — Occorre preliminarmente esaminare le numerose questioni relative all’art. 3,
comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, in quanto l’Avvocatura dello Stato chiede
che sia dichiarata cessata la materia del contendere, alla luce della sopravvenuta 18
abrogazione della norma impugnata, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 30, comma
6, della legge n. 183 del 2011.
4.1. — In effetti, tutte le Regioni ricorrenti – con l’eccezione della Regione Puglia
che, come si dirà tra breve, ha rivolto le proprie doglianze all’intero art. 3,
complessivamente inteso e senza ulteriori precisazioni – hanno evidenziato specifici
profili di illegittimità costituzionale del comma 4, in quanto esso ricollega conseguenze
di ordine finanziario al tempestivo adeguamento, da parte delle Regioni e degli enti
locali, al principio della liberalizzazione delle attività economiche, opportunamente
bilanciato con le altre esigenze enunciate al precedente comma 1: l’ottemperanza di tali
principi, ai sensi della disposizione qui in esame, «costituisce elemento di valutazione
della virtuosità dei predetti enti», ai fini del riparto delle risorse finanziarie determinate
annualmente con il Patto di stabilità interno, ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto-
legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria,
convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111). In altri termini, la
disposizione impugnata, piuttosto che sanzionare le Regioni e gli enti locali
inadempienti, prevede forme di incentivazione finanziaria per gli enti virtuosi, che
modifichino la propria legislazione, in osservanza ai principi stabiliti dal legislatore
statale e nei termini previsti.
La disposizione contenuta nell’art. 3, comma 4, è stata censurata in relazione agli
artt. 3, 5, 117, 119 e 120 Cost., al principio di leale collaborazione e, da parte della
Regione autonoma Sardegna, agli artt. 3, primo comma, lettere d), f), g), o) e p), 4,
primo comma, lettere a), b), e), f) ed m), e 7 dello statuto di autonomia (Legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3).
4.2. — In ordine all’art. 3, comma 4, del decreto-legge impugnato deve essere
dichiarata la cessazione della materia del contendere.
In effetti, come è stato sottolineato dall’Avvocatura dello Stato e da alcune
Regioni ricorrenti, la norma in esame è stata abrogata dall’articolo 30, comma 6, della
legge n. 183 del 2011, a decorrere dal 1° gennaio 2012. L’abrogazione è, dunque,
intervenuta prima che scadesse il termine di adeguamento al principio imposto alle
Regioni, individuato nel 30 settembre 2012, e prima che la disposizione medesima
potesse esplicare effetti, previsti a partire dall’anno 2012. Ne consegue che la norma
non ha potuto ricevere alcuna applicazione durante il periodo in cui è rimasta in vigore. 19
5. — Venendo alle singole questioni residue portate all’esame della Corte, va
considerata una prima ragione di doglianza, mossa dalla Regione Calabria, che riguarda
l’intero articolo 3.
5.1. — Sono evocati a parametro gli articoli 70 e 77 Cost., in quanto il contenuto
normativo della disposizione impugnata non presenterebbe i caratteri di straordinaria
necessità e urgenza prescritti dalla Costituzione affinché il Governo possa
legittimamente adottare decreti-legge. Pertanto, secondo la ricorrente, la legge di
conversione sarebbe viziata, sia per violazione dei requisiti costituzionalmente previsti
per la decretazione d’urgenza, sia perché il Governo avrebbe indebitamente usurpato il
potere legislativo al Parlamento, attraverso il ricorso allo strumento del decreto-legge.
5.2. — Tale censura è inammissibile, per difetto di motivazione.
Infatti, a parte una mera evocazione degli articoli 70 e 77 Cost., né l’atto
introduttivo del giudizio, né la successiva memoria offrono alcun argomento a suffragio
della censura, che documenti l’asserita mancanza di presupposti per la decretazione
d’urgenza. Inoltre, deve richiamarsi il consolidato orientamento di questa Corte, in base
al quale le Regioni possono invocare, nel giudizio di costituzionalità in via principale,
parametri diversi da quelli contenuti nel Titolo V della Parte II della Costituzione a
condizione che la lamentata violazione ridondi sul riparto di competenze legislative tra
Stato e Regioni (sentenze n. 33 del 2011, n. 156, n. 52 e n. 40 del 2010, n. 341 del
2009). Nel caso di specie la ricorrente non spiega in che modo l’asserita violazione
degli artt. 70 e 77 Cost. determini una compressione delle competenze costituzionali
delle Regioni.
6. — Una seconda ragione di doglianza, avanzata dalla Regione Puglia ed avente
parimenti ad oggetto l’art. 3 nella sua interezza, evoca, quali parametri del giudizio, gli
articoli 41, 42, 43, 114, secondo comma, e 117 Cost.
6.1. — Ad avviso della ricorrente, la disposizione impugnata, stabilendo che le
Regioni e gli enti locali debbano adeguare i propri ordinamenti al principio secondo cui
l’iniziativa e l’attività economica private sono libere ed è permesso tutto ciò che non è
espressamente vietato dalla legge, e ponendo un elenco tassativo di ipotesi in cui il
legislatore, statale o regionale, può espressamente limitare l’esercizio dell’attività
economica, contrasta con l’art. 41 della Costituzione e con gli altri principi
costituzionali in materia economica. In base alla disposizione impugnata, gli enti
territoriali dovrebbero, dunque, adeguarsi ad una disciplina che sovvertirebbe il quadro
costituzionale dell’iniziativa e dell’attività economica, introducendo «un assetto 20
decisamente sbilanciato a favore dell’iniziativa privata». Inoltre, l’obbligo diffuso di
adeguamento all’art. 3 censurato, equiparando Regioni ed enti locali, rappresenterebbe
una forzatura del quadro costituzionale, in quanto, a differenza degli enti locali, le
Regioni detengono una potestà legislativa autonoma garantita ex art. 117 Cost., che
dunque non potrebbe soffrire l’inserimento, per via di legge statale ordinaria, di un
nuovo principio che ne limiti la «sovranità legislativa».
6.2. — Anche tali censure risultano inammissibili, in quanto generiche e
indeterminate.
Infatti, in primo luogo, la censura si appunta sull’intero art. 3, senza puntualizzare
ulteriormente quali disposizioni di esso intenda investire, sebbene l’art. 3 abbia un
contenuto complesso. Inoltre, il richiamo ai parametri di cui agli artt. 41, 42 e 43 Cost.
risulta generico e indeterminato. Si asserisce, senza argomentare, la sussistenza di un
conflitto tra tali previsioni costituzionali e il principio di liberalizzazione delle attività
economiche statuito nella disposizione impugnata, principio che tra l’altro non è
affermato in termini assoluti, ma deve essere modulato al fine di soddisfare una serie di
esigenze, alcune delle quali riproducono anche testualmente i contenuti dell’art. 41
Cost., e ne annoverano di ulteriori; né viene spiegato per quali ragioni le previsioni
costituzionali e quella legislativa, mirata alla liberalizzazione, non sarebbero
armonizzabili.
Per la medesima ragione attinente alla genericità e alla insufficiente motivazione
del ricorso, risultano inammissibili anche le censure basate sugli artt. 114, terzo comma,
e 117 Cost., parametri che sono evocati genericamente, senza neppure specificare quali
aspetti delle disposizioni costituzionali richiamate, che hanno un contenuto
particolarmente complesso e articolato, dovrebbero rilevare nel presente giudizio.
7. — Proseguendo l’esame delle questioni portate all’esame della Corte in
relazione ai singoli commi dell’art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011, vengono
anzitutto in rilievo le censure rivolte all’art. 3, comma 1, e al principio ivi statuito per
cui nell’ambito delle attività economiche «è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge», principio che, come si è già ricordato più volte, subisce limitazioni
a tutela di altre esigenze indicate dalla medesima disposizione oggetto di esame.
7.1. — La Regione Lazio e la Regione Calabria contestano la legittimità
costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge impugnato, per violazione del
riparto di competenze stabilito all’art. 117 Cost., perché esso interferirebbe con ambiti
di pertinenza della legislazione regionale. 21
In particolare, la Regione Lazio sottolinea l’incidenza della normativa impugnata
nelle materie del commercio e attività produttive, che sarebbero riservate alle Regioni a
titolo di competenza legislativa residuale. Inoltre, secondo la Regione, anche a voler
concedere che l’intervento del legislatore statale possa essere giustificato in ragione
delle competenze ad esso riconosciute nell’ambito della tutela della concorrenza, non si
potrebbe comunque superare il vizio della legge sotto il profilo del mancato rispetto del
principio di leale collaborazione, considerato il fitto intersecarsi di competenze statali e
regionali sul terreno delle attività economiche.
Per quanto riguarda la Regione Calabria, le censure si appuntano piuttosto sulla
violazione delle competenze regionali in materia di tutela della salute, commercio,
governo del territorio, oltre che sul mancato rispetto del principio di leale
collaborazione, richiamando, quali parametri del giudizio, gli artt. 41, 97 e 117 Cost. La
ricorrente teme che, per conformarsi al principio di liberalizzazione introdotto dal
legislatore statale, l’organizzazione del sistema sanitario regionale debba essere
radicalmente modificata, dal momento che, nell’interpretazione della ricorrente, il
suddetto principio imporrebbe di accogliere «senza alcun filtro tutte le istanze di
autorizzazione e accreditamento» presentate dagli operatori sanitari. Inoltre, sotto
l’impatto della liberalizzazione voluta dal legislatore statale, la Regione non potrebbe
continuare a regolare la vendita al pubblico di farmaci da banco o automedicazione, o
l’apertura di strutture di media o grande distribuzione, valutando l’insediamento di tali
attività in base alla distribuzione demografica o imponendo dei requisiti per il loro
svolgimento.
7.2. — L’asserita invasione delle competenze regionali da parte del legislatore
statale si evidenzierebbe più chiaramente alla luce del comma 2 del medesimo art. 3,
che qualifica il precedente comma 1 come «principio fondamentale per lo sviluppo
economico», rivolto all’attuazione della «piena tutela della concorrenza».
Le Regioni Calabria, Emilia-Romagna e Umbria, infatti, rilevano che il legislatore
statale, evocando le esigenze della «piena tutela della concorrenza», intenderebbe
giustificare l’imposizione da parte dello Stato del principio della liberalizzazione anche
in ambiti di competenza regionale; d’altra parte, la qualifica del medesimo principio
come attinente allo «sviluppo economico» appaleserebbe l’invasione delle competenze
regionali, in quanto la materia “sviluppo economico” apparterrebbe ai titoli di
competenza residuale regionale.
7.3. — Le questioni relative all’art. 3, commi 1 e 2, non sono fondate. 22
Con la normativa censurata, il legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in
materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all’interno
della cornice delineata dai principi costituzionali. Così, dopo l’affermazione di principio
secondo cui in ambito economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato
dalla legge», segue l’indicazione che il legislatore statale o regionale può e deve
mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro –
oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei
principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio
culturale e della finanza pubblica – in particolare la tutela della sicurezza, della libertà,
della dignità umana, a presidio dell’utilità sociale di ogni attività economica, come l’art.
41 Cost. richiede. La disposizione impugnata afferma il principio generale della
liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e
limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in
interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore statale ha
elencato all’art. 3, comma 1. Complessivamente considerata, essa non rivela elementi di
incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione
prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al
libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e,
dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche
non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n.
167 del 2009 e n. 388 del 1992).
7.4. — Rispetto alla pretesa invasione delle competenze regionali in materia di
commercio, attività produttive e tutela della salute, ex art. 117 Cost., occorre anzitutto
osservare che il legislatore statale ha agito nell’ambito, ad esso spettante, della tutela
della concorrenza, come correttamente specificato dall’art. 3, comma 2, del decretolegge n. 138 del 2011.
Infatti, per quanto l’autoqualificazione offerta dal legislatore non sia mai di per sé
risolutiva (ex multis, sentenze n. 164 del 2012, n. 182 del 2011 e n. 247 del 2010), in
questo caso appare corretto inquadrare il principio della liberalizzazione delle attività
economiche nell’ambito della competenza statale in tema di «tutela della concorrenza».
Quest’ultimo concetto, la concorrenza, ha un contenuto complesso in quanto
ricomprende non solo l’insieme delle misure antitrust, ma anche azioni di
liberalizzazione, che mirano ad assicurare e a promuovere la concorrenza “nel mercato”
e “per il mercato”, secondo gli sviluppi ormai consolidati nell’ordinamento europeo e 23
internazionale e più volte ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis,
sentenze n. 45 e n. 270 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007). Pertanto, la
liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli
strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il
circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di
concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di
competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la
competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale
condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche
ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela
di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009)
– genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli
operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva
reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari,
mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale
alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore
statale.
7.5. — Inquadrato, dunque, l’intervento statale censurato nel campo delle
competenze statali di portata trasversale relative alla tutela della concorrenza, occorre
ancora osservare il particolare tenore normativo della disposizione impugnata: in questo
caso il legislatore statale non si è sovrapposto ai legislatori regionali dettando una
propria compiuta disciplina delle attività economiche, destinata a sostituirsi alle leggi
regionali in vigore. L’atto impugnato, infatti, non stabilisce regole, ma piuttosto
introduce disposizioni di principio, le quali, per ottenere piena applicazione, richiedono
ulteriori sviluppi normativi, da parte sia del legislatore statale, sia di quello regionale,
ciascuno nel proprio ambito di competenza. In virtù della tecnica normativa utilizzata,
basata su principi e non su regole, il legislatore nazionale non ha occupato gli spazi
riservati a quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole Regioni
continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi stabiliti a
livello statale. L’intervento del legislatore, statale e regionale, di attuazione del principio
della liberalizzazione è tanto più necessario alla luce della considerazione che tale
principio non è stato affermato in termini assoluti, né avrebbe potuto esserlo in virtù dei
vincoli costituzionali, ma richiede di essere modulato per perseguire gli altri principi
indicati dallo stesso legislatore, in attuazione delle previsioni costituzionali. Di 24
conseguenza, per rispondere ad alcune precise osservazioni delle ricorrenti, le discipline
della vendita al pubblico di farmaci da banco o automedicazione, dell’apertura di
strutture di media e grande distribuzione, o dell’organizzazione sanitaria, non vengono
assorbite nella competenza legislativa dello Stato relativa alla concorrenza, ma
richiedono di essere regolate dal legislatore regionale, tenendo conto dei principi
indicati nel censurato art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011.
8. — Sono invece fondate le questioni aventi ad oggetto l’art. 3, comma 3, del
decreto-legge n. 138 del 2011.
8.1. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno censurato l’art. 3, comma 3,
il quale, al primo periodo, dispone che siano «soppresse», alla scadenza del termine di
un anno dall’entrata in vigore della legge di conversione – termine poi prorogato al 30
settembre 2012 –, le «normative statali incompatibili» con i principi disposti al comma
1 del medesimo art. 3, con conseguente applicazione diretta degli istituti di segnalazione
di inizio attività e dell’autocertificazione. Al secondo periodo, il comma 3 dispone che,
fino alla scadenza del termine, l’adeguamento al principio di cui al comma 1 possa
avvenire anche attraverso strumenti di semplificazione normativa; infine, al terzo
periodo, il comma 3 autorizza, a tal fine, il Governo ad adottare uno o più regolamenti
ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina
dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri),
individuando le disposizioni abrogate e definendo la disciplina regolamentare ai fini
dell’adeguamento al principio di cui al comma 1.
Le ragioni di doglianza, con riferimento all’art. 3, comma 3, primo periodo,
evocano a parametro gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto l’automatica soppressione delle
normative statali incompatibili con la disposizione di principio di cui al comma 1
genererebbe una situazione di grave incertezza normativa e sarebbe, perciò,
irragionevole e contraria al buon andamento della pubblica amministrazione. Con
riferimento al terzo periodo, si lamenta anzitutto la violazione del principio di legalità
sostanziale, dal momento che i regolamenti di delegificazione verrebbero introdotti in
assenza di una necessaria cornice legislativa; inoltre, la medesima disposizione sarebbe
in contrasto anche con l’art. 117, sesto comma, Cost., in quanto l’esercizio del potere
regolamentare sarebbe autorizzato senza delimitazioni di materia, potendo esplicarsi
anche nell’ambito di competenze concorrenti e residuali regionali, rispetto alle quali la
potestà regolamentare è attribuita alla Regione; infine, anche qualora si ritenesse che si
sia in presenza di una ipotesi di attrazione in sussidiarietà della potestà regolamentare 25
regionale, con riferimento alle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.,
la legislazione statale sarebbe egualmente costituzionalmente illegittima, in quanto non
avrebbe previsto alcuna forma d’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, che attui il
principio di leale collaborazione con riferimento alle materie concorrenti e residuali
regionali.
8.2. — L’art. 3, comma 3, è costituzionalmente illegittimo, in quanto dispone, allo
scadere di un termine prestabilito, l’automatica «soppressione», secondo la terminologia
usata dal legislatore, di tutte le normative statali incompatibili con il principio della
liberalizzazione delle attività economiche, stabilito al comma 1.
Alla luce delle precedenti considerazioni relative al tenore normativo dell’art. 3,
comma 1, che contiene disposizioni di principio, e non prescrizioni di carattere specifico
e puntuale, la soppressione generalizzata delle normative statali con esso incompatibili
appare indeterminata e potenzialmente invasiva delle competenze legislative regionali.
Infatti, sebbene la disposizione abbia ad oggetto le sole normative statali, la
«soppressione» di queste per incompatibilità con principi così ampi e generali come
quelli enunciati all’art. 3, comma 1, e che richiedono una delicata opera di
bilanciamento e ponderazione reciproca, a parte ogni considerazione sulla sua
praticabilità in concreto, non appare suscettibile di esplicare effetti confinati ai soli
ambiti di competenza statale. Altro è prevedere l’abrogazione di normative statali, altro
è asserire che gli effetti dell’abrogazione di tali normative restino circoscritti ad ambiti
di competenza statale. Vi sono normative statali che interessano direttamente o
indirettamente materie di competenza regionale, come accade nel caso delle leggi dello
Stato relative a materie di competenza concorrente, o di competenza statale di carattere
trasversale, che di necessità s’intrecciano con le competenze legislative regionali.
L’effetto della soppressione automatica e generalizzata delle normative statali contrarie
ai principi di cui all’art. 3, comma 1, oltre ad avere una portata incerta e indefinibile,
potrebbe riguardare un novero imprecisato di atti normativi statali, con possibili
ricadute sul legislatore regionale, nel caso che tali atti riguardino ambiti di competenza
concorrente o trasversali, naturalmente correlati a competenze regionali.
Inoltre, l’automaticità dell’abrogazione, unita all’indeterminatezza della sua
portata, rende impraticabile l’interpretazione conforme a Costituzione, di talché risulta
impossibile circoscrivere sul piano interpretativo gli effetti della disposizione impugnata
ai soli ambiti di competenza statale. 26
Infine, poiché la previsione censurata dispone la soppressione per incompatibilità,
senza individuare puntualmente quali normative risultino abrogate, essa pone le Regioni
in una condizione di obiettiva incertezza, nella misura in cui queste debbano adeguare le
loro normative ai mutamenti dell’ordinamento statale. Infatti, le singole Regioni, stando
alla norma censurata, dovrebbero ricostruire se le singole disposizioni statali, che
presentano profili per esse rilevanti, risultino ancora in vigore a seguito degli effetti
dell’art. 3, comma 3, primo periodo. La valutazione sulla perdurante vigenza di
normative statali incidenti su ambiti di competenza regionale spetterebbe a ciascun
legislatore regionale, e potrebbe dare esiti disomogenei, se non addirittura divergenti.
Una tale prospettiva determinerebbe ambiguità, incoerenza e opacità su quale sia la
regolazione vigente per le varie attività economiche, che potrebbe inoltre variare da
Regione a Regione, con ricadute dannose anche per gli operatori economici.
Di conseguenza, l’art. 3, comma 3, appare viziato sotto il profilo della
ragionevolezza, determinando una violazione che si ripercuote sull’autonomia
legislativa regionale garantita dall’art. 117 Cost., perché, anziché favorire la tutela della
concorrenza, finisce per ostacolarla, ingenerando grave incertezza fra i legislatori
regionali e fra gli operatori economici.
8.3. — Per le medesime ragioni, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale del
primo periodo dell’art. 3, comma 3, coinvolge anche i periodi successivi della
disposizione in esame, dato che l’ambito di intervento degli strumenti di
semplificazione, previsti dal secondo periodo, nonché quello dei regolamenti di
delegificazione di cui al terzo periodo, è determinato per relationem al primo periodo.
La stessa indeterminatezza che vizia la prima proposizione si riverbera anche sui
successivi contenuti dell’art. 3, comma 3, che deve, dunque, essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo.
9. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno poi impugnato l’art. 3, comma
10. Questo si colloca a seguito di una serie di disposizioni abrogative di restrizioni
all’esercizio di attività economiche. Il comma 10 consente l’eliminazione di ulteriori
restrizioni, attraverso «regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della
legge 23 agosto 1988, n. 400, emanato su proposta del Ministro competente entro
quattro mesi dall’entrata in vigore» del decreto oggetto di censura.
9.1. — A detta delle ricorrenti, tale comma sarebbe viziato sotto vari profili:
anzitutto non risponderebbe al principio di legalità sostanziale, in quanto l’esercizio
della potestà regolamentare da parte del Governo, sarebbe autorizzato senza 27
specificazioni e in assenza di criteri capaci di circoscriverlo; inoltre, contrasterebbe con
l’art. 117 sesto comma, Cost., nella misura in cui la potestà regolamentare cui il comma
fa riferimento venga esercitata in ambiti di competenza regionale; infine, ed in
subordine, nelle ipotesi in cui vengano in rilievo materie di competenza regionale e si
ritenga che queste siano state attratte in sussidiarietà alla competenza statale, sarebbe
del tutto assente la previsione di strumenti applicativi del principio di leale
collaborazione.
9.2. — Le questioni aventi ad oggetto l’art. 3, comma 10, non sono fondate.
A prescindere da ogni considerazione circa la conformità della disposizione
impugnata al modello di delegificazione delineato all’art. 17, comma 2, della legge n.
400 del 1988, per quanto riguarda la violazione delle competenze regionali occorre
osservare che, a differenza dell’art. 3, comma 3, precedentemente esaminato, il comma
10 ha un ambito di applicazione circoscrivibile alle sole materie di competenza statale e
pertanto legittimamente consente al Governo di esercitare la potestà regolamentare per
eliminare ulteriori – rispetto a quelle stabilite dai commi precedenti – restrizioni al
libero esercizio delle attività economiche. Questa lettura della disposizione censurata è
l’unica compatibile sia con il testo costituzionale, che vieta l’esercizio della potestà
regolamentare da parte del Governo al di fuori delle competenze esclusive statali, sia
con il contesto normativo in cui la disposizione in esame si colloca.
10. — Anche l’art. 3, comma 11, è impugnato dalle Regioni Emilia-Romagna e
Umbria. Tale comma prevede che eccezioni all’abrogazione delle restrizioni
all’esercizio delle attività economiche possano essere concesse «con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore» della legge
di conversione del decreto-legge impugnato, e in ipotesi indicate espressamente.
10.1. — Le ricorrenti lamentano che tale disposizione, da un lato, violerebbe l’art.
117 Cost., in quanto consentirebbe soltanto allo Stato, e non anche alle Regioni, di
mantenere delle limitazioni alle libertà economiche, per ragioni di pubblico interesse. In
subordine, anche qualora si ritenesse necessario, per ragioni di uniformità e
sussidiarietà, consentire l’attrazione di tale potere regolatorio in capo allo Stato,
mancherebbe la previsione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, con
conseguente violazione del principio di leale collaborazione.
10.2. — Anche le censure relative all’art. 3, comma 11, non sono fondate. 28
La disposizione qui censurata, al pari del precedente art. 3, comma 10, deve essere
intesa come dotata di un ambito di applicazione delimitato alle sole materie di
competenza statale. Consentendo di mantenere alcune eccezioni alla liberalizzazione e
pertanto giustificando alcune restrizioni all’iniziativa economica, da individuarsi con
decreto del Presidente della Repubblica, l’art. 3, comma 11, si rivolge alle sole
normative statali e, tra queste, soltanto a quelle che non interferiscono con le
competenze regionali. La disposizione censurata, non riguardando materie di
competenza legislativa regionale, è pertanto inidonea a vulnerare gli interessi regionali.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione sulle altre disposizioni impugnate su
ricorso delle Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e
Calabria e della Regione autonoma della Sardegna, con ricorsi indicati in epigrafe,
riuniti i giudizi,
1) dichiara la cessazione della materia del contendere in ordine alle questioni di
legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 4, del decreto-legge 13 agosto 2011, n.
138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, proposte,
complessivamente, dalle Regioni Calabria, Emilia-Romagna, Lazio, Sardegna, Toscana,
Umbria e Veneto, in riferimento agli articoli 3, 5, 117, 119 e 120 della Costituzione,
nonché in riferimento al principio di leale collaborazione e – dalla Regione autonoma
Sardegna – in riferimento agli articoli 3, primo comma, lettere d), f), g), o) e p), 4,
primo comma, lettere a), b), e), f) ed m), e 7 dello statuto di autonomia (Legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 3, del decretolegge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3
del medesimo decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 148 del 2011, proposta dalla Regione Calabria in riferimento agli articoli 70 e 77
Cost.;
4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3
del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del
2011, proposta dalla Regione Puglia in riferimento agli articoli 41, 42, 43, 114, secondo
comma, 117 Cost.; 29
5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3,
comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 148 del 2011, proposta dalla Regione Lazio in riferimento all’articolo 117 della
Costituzione e al principio di leale collaborazione;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3,
commi 1 e 2, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 148 del 2011, proposta dalla Regione Calabria in riferimento agli articoli 41, 97
e 117 Cost. e al principio di leale collaborazione;
7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3,
comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 148 del 2011, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna ed Umbria in riferimento
all’articolo 117 Cost.;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3,
comma 10, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 148 del 2011, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria in riferimento al
principio di legalità sostanziale, all’art. 117 Cost. e al principio di leale collaborazione;
9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3,
comma 11, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 148 del 2011, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria in riferimento
all’art. 117 Cost. e al principio di leale collaborazione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 17 luglio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI