Natura e funzioni del CERTIFICATO DI AGIBILITA' - CdS 5/7/2012
Cons. Stato Sez. V, Sent., 05-07-2012, n. 3942
1.- M.C., proprietario di un immobile destinato a bar, sito in C., via T. 30 - 36, avendo realizzato all'interno del locale un soppalco (assentito in sanatoria dal Comune, con concessione n. 1/70 del 25 settembre 1996), con separate istanze richiedeva al Comune l'autorizzazione all'ampliamento della superficie di vendita e il certificato di abitabilità.
Con Provv. del 26 marzo 2001, il Dirigente della Ripartizione Attività Produttive del Comune negava l'autorizzazione all'ampliamento della superficie di vendita, sul presupposto che l'azienda sanitaria locale aveva espresso parere non favorevole, avendo rilevato che "l'altezza del soppalco non può essere inferiore a mt. 2; l'altezza del piano inferiore al soppalco risulta essere di mt. 2,38".
Con Provv. del 17 luglio 2001, il Dirigente della Divisione edilizia privata negava il rilascio del certificato di abitabilità, con riferimento al parere sanitario che aveva rilevato l'insufficienza dell'altezza del soppalco e del piano sottostante.
Con separati ricorsi proposti al TAR Sardegna, M.C. impugnava rispettivamente il diniego di ampliamento della superficie di vendita e il diniego del certificato di abitabilità, assumendone l'illegittimità per violazione dell'art. 35 della L. n. 47 del 1985 e dell'art. 41, della L. Regione Sardegna n. 23 del 1985, che prevedono per il caso di condono delle opere abusive, il rilascio del certificato di abitabilità "anche in carenza degli ulteriori requisiti fissati da norme regolamentari" e per eccesso di potere per difetto di istruttoria, non essendo stata valutata l'effettiva consistenza strutturale del soppalco, che per essere completamente aperta e finestrata, non darebbe luogo a volume autonomo.
Il TAR Sardegna con la sentenza n. 1421 del 2002 respingeva il ricorso avverso il diniego di ampliamento della superficie di vendita e con la sentenza n. 1422 del 2002 respingeva il ricorso avverso il diniego del certificato di abitabilità.
Secondo il TAR, il rilascio del certificato di abitabilità in presenza di condono edilizio, non può avvenire in deroga alle condizioni di salubrità dell'immobile, sicché la fattispecie andrebbe ricondotta nell'ambito delle leggi sanitarie; riteneva, poi, che l'altezza media del locale, di m. 2,12 (pari alla divisione della somma delle altezze del piano terra e del piano soppalco) sarebbe, comunque, inferiore all'altezza prevista dalla normativa in vigore per locali abitabili.
2.- M.C., con l'atto di appello iscritto al n. 9010 del 2003 ha impugnato la sentenza n. 1422 del 2003 e con atto di appello iscritto al n. 9011 del 2003 ha impugnato la sentenza n. 1421 del 2003, di cui chiede l'annullamento o la riforma per error in iudicando non avendo il TAR inteso il senso delle censure dedotte in entrambi i ricorsi.
Ha, quindi, prodotto perizia giurata alla quale si è riportato per quanto riguarda gli aspetti tecnico - sanitari, rilevati dal Comune.
Il Comune di Cagliari, costituitosi in entrambi i giudizio, ha contestato le censure dell'appellante, assumendo la vincolatività dei provvedimenti adottati in presenza del parere non favorevole dell'azienda sanitaria.
Le parti hanno depositato memorie difensive e alla pubblica udienza del 14 febbraio 2012, precisate le conclusioni nei termini di cui agli atti difensivi, le cause sono state assegnate in decisione.
Motivi della decisione
1.- Va disposta la riunione degli appelli in epigrafe, ai sensi del combinato disposto dell'art. 274 c.p.c. e dell'art. 39 c.p.a., attesa la connessione soggettiva e oggettiva.
Infatti entrambi gli atti impugnati, sia il diniego all'ampliamento della superficie di vendita che il diniego del certificato di abitabilità, riguardano lo stesso immobile e sono motivati con riferimento all'insufficienza dell'altezza del soppalco e del locale sottostante; le censure dedotte dall'appellante sono identiche e così il percorso motivazionale seguito dal TAR.
2.- Entrambi gli appelli sono fondati e vanno accolti nei sensi di cui di seguito.
3.- Con l'atto di appello rubricato al n. 9010 del 2003, relativo al diniego del certificato di abitabilità, l'appellante assume che il TAR Sardegna non avrebbe compreso la portata delle censure da esso dedotte.
In particolare, il TAR avrebbe respinto la censura relativa all'automaticità della certificazione di abitabilità per gli immobili oggetto di condono, facendo riferimento, con integrazione della motivazione dell'atto, alle norme in materia dei requisiti igienici e di salubrità; avrebbe poi respinto la censura con la quale si dimostrava la sussistenza dei requisiti di salubrità, sulla base di un calcolo errato dell'altezza media del soppalco e della superficie immediatamente sottostante.
Entrambe le censure sono fondate.
3.1- Il certificato di abitabilità, come è noto, certifica l'idoneità dell'immobile o di sua porzione ad essere adibita ad uso abitativo.
Tale idoneità viene riscontrata verificando la statica dell'edificio e la sua salubrità ed accertando che siano soddisfatti alcuni criteri principalmente riguardanti la distribuzione dei vani e le rispettive volumetrie, nonché consistenza, dislocamento e funzionalità degli impianti essenziali quali, quello idrico e fognario (in tempi recenti alle verifiche da effettuarsi in base al TU n. 1265 del 1934, si sono aggiunte quelle relative alle nuove normative di sicurezza, antinfortunistica, accessibilità e risparmio idrico ed energetico, anche in recepimento di normativa comunitaria).
Trattasi di procedura essenzialmente declaratoria.
Il certificato va richiesto per le nuove costruzioni e per gli interventi di ricostruzione o sopraelevazione totali o parziali, nonché per interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni originarie.
L'obbligo di tale certificato, introdotto con il R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, successivamente modificato e sostituito dal D.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, da ultimo è disciplinato dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Nell'ambito della disciplina generale su richiamata si inserisce con carattere di specialità, il terzultimo comma dell'art. 35 della L. 28 febbraio 1985, n. 47 che per gli immobili oggetto di condono edilizio, stabilisce che "a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni".
Ciò posto, poiché le altezze degli ambienti risultano fissate da norme regolamentari, le eventuali difformità dell'altezza dei vani dalle altezze standard, ove l'opera sia stata condonata, non impediscono il rilascio del certificato di abitabilità, dovendosi presumere che contestualmente al rilascio della concessione in sanatoria sia stata valutata la compatibilità delle altezze con l'uso abitativo dell'opera oggetto di condono.
3.2- Va, quindi, verificato, seguendo il percorso logico del TAR, prescindendo dalla pur fondata censura di integrazione motivazionale operata in sentenza, se la compatibilità dell'opera sotto il profilo edilizio, eventualmente contrasti con le norme in materia di igiene, atteso che il rilascio del certificato di abitabilità conseguente all'accoglimento del condono ai sensi dell'art. 35 della L. 28 febbraio 1985, n. 47 se può avvenire in deroga a norme regolamentari, non può prescindere dalla verifica delle condizioni di salubrità dell'immobile, richieste da fonti normative di rango primario.
Come si è detto, in base agli artt. 220 e 221 del R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 e successive modifiche, l'abitabilità viene rilasciata, previa ispezione dei luoghi, se la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto assentito, se i muri siano convenientemente prosciugati e non sussistano altre cause di insalubrità.
Fermo che la conformità urbanistico - edilizia della struttura in questione è implicita nella concessione in sanatoria, la verifica deve riguardare esclusivamente le eventuali cause di insalubrità.
Tali cause, secondo il TAR, sarebbero implicite nella rilevata insufficienza dell'altezza del soppalco, alla stregua di presunzione assoluta di insalubrità.
Siffatto sillogismo non appare convincente.
Invero, l'altezza di un locale destinato ad abitazione o a frequentazione da parte di persone, assume rilevanza nel giudizio di insalubrità dell'ambiente, laddove incida negativamente sulle condizioni igieniche e sul ricambio d'aria, sì da ripercuotersi sul benessere di chi vi abita o dei fruitori.
Il locale di cui trattasi ha l'altezza di mt. 4,47 ed il soppalco che si sviluppa lungo il lato maggiore, oltre ad essere aperto, essendo delimitato da una balconata ed essere finestrato sul lato opposto, ha una modesta profondità, sicché il vano sottostante è solo parzialmente coperto dal soppalco.
La struttura per come realizzata, anche a persona inesperta, non appare compromettere il ricambio d'aria né del soppalco, né del locale sottostante.
Conforta tale impressione, la relazione peritale arricchita dalle planimetrie dei luoghi, dalla quale risulta effettivamente che il soppalco è struttura aperta che si sviluppa su un lato di uno dei locali terranei ed è finestrata sul lato opposto che affaccia nel cortile.
Nella relazione peritale, si attesta che per il numero, la dimensione e le geometrie delle aperture, tra loro in opposizione, è soddisfatto pienamente il numero di ricambi aria/ora che normativamente compreso tra 20/30 ricambi/ora, risulta nel caso di 26,04 e che l'installazione nei locali di elettroventole meccaniche consente al soppalco e al vano sottostante di usufruire oltre che di areazione naturale sufficiente, anche di aereazione meccanica, sicché il ricambio d'aria è sicuramente assicurato.
Non sussiste, quindi, problema sul ricambio d'aria.
3.3- Si assume in sentenza che, comunque, l'altezza media del locale soppalcato sarebbe inferiore a quella consentita per gli usi abitativi.
Invero, il calcolo sviluppato in sentenza per la misurazione dell'altezza, non è convincente, come le conclusioni di insufficiente areazione cui si perviene in sentenza.
Seguendo il ragionamento del perito, che non risulta contestato, l'altezza media della struttura commerciale, va determinata nel rapporto tra l'intera cubatura dei locali (pari a mc 291,72) e la somma delle diverse altezze degli ambienti (piano terra, piano soppalco, piano scala), che dà un altezza media di metri 3,01 compresa nei parametri fissati dalla normativa di settore.
Invero, il piano soppalco e la porzione di piano terra, entrambe aperte al pubblico, non costituiscono volumi separati ma formano un'unica volumetria (si è già detto che la struttura del soppalco è balconata e completamente aperta lungo tutto il lato maggiore del locale, prospettante le quattro aperture a strada a piano terra - il locale è accessibile da quattro aperture a strada della via Tigellio civici nn. 30, 32, 34 e 36 - e che la porzione del lato minore prospetta l'apertura a cortile interno).
Poiché dunque l'insieme delle superfici aperte al pubblico, sia al piano terra che al piano soppalco, costituiscono un'unica volumetria, ove voglia calcolarsi l'altezza media del compendio, non può che procedersi al rapporto tra l'intera cubatura pari a mc 291,72 e la somma delle diverse altezze degli ambienti (piano terra, piano soppalco, piano scala).
Non ha senso, invece, calcolare separatamente l'altezza del soppalco e del locale sottostante o dividere per due l'altezza del locale sottostante il soppalco, non essendo indicativo di alcun valore o parametro.
3.4- Assume la difesa del Comune che il diniego del certificato di abitabilità era atto vincolato, atteso il parere non favorevole dell'azienda sanitaria.
Invero, la fattispecie è contrassegnata da carenza motivazionale di tutti i provvedimenti, sicché è arduo attribuire un significato assolutamente contrario al parere reso dalla ASL che si è limitata a misurare l'altezza del vano soppalco e del vano sottostante, senza esprimere alcun giudizio sugli aspetti relativi alla salubrità dei locali.
Peraltro, il parere della ASL nella disciplina introdotta dal D.P.R. n. 425 del 1994, in materia di rilascio del certificato di abitabilità, è mero atto endoprocedimentale, non vincolante e privo di rilevanza esterna, di mero supporto al potere decisionale del Comune, il quale è tenuto autonomamente a verificare le condizioni di salubrità dell'immobile, che non possono essere desunte solamente dal calcolo dell'altezza di singole porzioni prive di autonomia strutturale.
Per le ragioni esposte l'appello sulla sentenza n. 1422 del 2002, deve essere accolto e, per l'effetto, in riforma della sentenza, deve essere accolto il ricorso di primo grado proposto da M.C. per l'annullamento del Provv. n. 4143 del 16 luglio 2001 del Dirigente della Divisione Edilizia Privata del Comune di Cagliari, recante diniego del certificato di abitabilità.
4.- Con l'appello rubricato al n. 9011 del 2003, M.C. ha impugnato la sentenza n. 1421 del 2002, con la quale è stato respinto il ricorso proposto per l'annullamento del Provv. del 26 marzo 2001 del Dirigente dell'Assessorato alle Attività produttive, prot. n. 966 del 26 marzo 2001.
Il provvedimento è motivato con riferimento al parere della ASL che affermava "i locali oggetto dell' ampliamento presentano un'altezza inferiore a quanto previsto dalle norme edilizie vigenti".
Il ricorso di primo grado articolato sulla violazione dell'art. 35 della L. n. 47 del 1985 e sull'insussistenza di profili di carattere igienico sanitario ostativi al rilascio del provvedimento, è stato respinto dal TAR che ha evidenziato che "il parere sanitario è stato rilasciato ai sensi della L. n. 283 del 1962 e del D.P.R. n. 327 del 1980 ...che tale parere è, quindi, autonomo e prescinde da valutazioni di tipo urbanistico edilizio che competono ad altra autorità...e che l'esercizio di bar e caffè è soggetta all'autorizzazione sanitaria ..., previo l'accertamento dei requisiti igienico sanitari, sia di impianto che funzionali previsti dalle leggi e dai regolamenti".
Secondo il TAR "l'ampliamento della superficie di vendita...richiede un accertamento specifico, assolutamente indipendente dall'esistenza di una concessione edilizia...".
Sulla portata e rilevanza della censura di violazione dell'art. 35 della L. n. 47 del 1985, vale quanto detto sopra.
Quanto alla rilevanza dell'altezza dei locali, ai fini delle autorizzazioni sanitarie, essa, come evidenziato dal TAR, può assumere rilievo ai fini delle autorizzazioni sanitarie di cui alla L. n. 283 del 1962 e al D.P.R. n. 327 del 1980, laddove e in quanto incida su aspetti igienico sanitari e specificamente, per il caso in questione di autorizzazione all'ampliamento della superficie di un esercizio di somministrazione di alimenti, laddove rilevi ai fini della conservazione, preparazione e confezionamento dei prodotti alimentari, creando condensa o eccessivo calore con alterazione delle sostanze alimentari.
Infatti le disposizioni citate (L. n. 283 del 1962 e D.P.R. n. 327 del 1980) dettano norme a tutela della salubrità degli ambienti dove vengono conservate e maneggiate le sostanze alimentari.
Ciò posto, appare evidente il difetto di istruttoria lamentato dal ricorrente, atteso che la questione dell'insufficiente altezza di un vano - che non costituisce, come si è detto sopra, un vano autonomo - è stata assunta quale causa asseritamente e assolutamente preclusiva del provvedimento richiesto, senza valutare in concreto, previo sopralluogo, le carenze, e valutare gli accorgimenti che l'azienda ha adottato o potrebbe adottare per rendere conforme alla normativa di settore l'ambiente di cui chiede l'ampliamento.
Ugualmente fondata deve ritenersi la censura di carenza ed inadeguatezza sotto il profilo motivazionale del provvedimento, che attraverso la - del pari - censurata integrazione da parte della difesa del Comune, è stato riportato dal giudice di primo grado nell'ambito della disciplina delle autorizzazioni sanitarie.
Per quanto esposto, l'appello avverso la sentenza n. 1421 del 2002 deve essere accolto e, per l'effetto, in riforma della sentenza di primo grado, deve essere accolto il ricorso di primo grado proposto da M.C. per l'annullamento del Provv. del 26 marzo 2001 del Dirigente dell'Assessorato alle Attività produttive, recante diniego dell'autorizzazione all'ampliamento della superficie di vendita e delle autorizzazioni sanitarie.
Le spese di entrambi i giudizi possono essere compensate tra le parti in causa.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
definitivamente pronunciando sulle cause di appello, come in epigrafe proposte, così provvede:
riunisce gli appelli n. 9010 e 9011 del 2003;
accoglie l'appello n. 9010 del 2003 e per l'effetto, in riforma della sentenza n. 1422 del 2002, accoglie il ricorso di primo grado proposto da M.C.;
accoglie l'appello n. 9011 del 2003 e, per l'effetto, in riforma della sentenza n. 1421 del 2002, accoglie il ricorso di primo grado proposto da M.C..
Compensa le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.