Il buon governo: il ruolo delle Pubbliche Amministrazioni
Filippo Patroni Griffi
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato
Inaugurazione del Master LUISS-SSPA – “Il buon governo: il ruolo delle Pubbliche Amministrazioni”,
LUISS, 4 giugno 2012, ore 10
“E’ noto che non vi ha niente di più sciocco e noioso dei discorsi che si fanno, si son sempre fatti e sempre si faranno col censurare l’andamento delle pubbliche amministrazioni e notare negligenze, oziosità falsità, imbrogli, ruberie, viltà, per conchiudere che le cose vanno male, e anzi che il mondo peggiora e corre alla rovina. Il presupposto di queste censure, chiamate a ragione critiche facili, il presupposto da cui nasce la loro perpetuità, è la perfetta amministrazione, in cui ciascuno adempia con intelligenza perfetta e perfetta volontà il proprio dovere: cioè uno schema astratto che, come tale, non può trovare rispondenza nella realtà”. Così Benedetto Croce scrive nella raccolta di (precedenti) saggi su Etica e politica; il filosofo però continua: “Dal che non si trae, dunque, la conseguenza del lasciar correre, che è quella di tutti gli inetti e i cinici…La conseguenza è invece il dovere di un atteggiamento, non certo impaziente, ma fermo e combattente”.
Quanto meno dalle Allegorie del Lorenzetti in poi, il buon governo è ciò che si oppone al malgoverno, alla maladministration, termine –se riferito al ruolo delle pp.aa. per il buon governo- comprensivo quanto meno di due aspetti che concorrono al “malessere (inteso come contrario di benessere) della società”: inefficienza, cioè cattivo funzionamento; corruzione, che potremmo descrivere come quel fenomeno per cui si usa la cosa pubblica per un tornaconto individuale.
Sotto il secondo aspetto, il tema del buon governo ci conduce inevitabilmente a quello dell’etica pubblica, che non può andare disgiunta, ancorché ne resti distinta, dall’etica individuale, perché –come ammonisce Russell- “moralità civica e moralità personale sono ugualmente necessarie”. Se ci è consentito ricorrere a un’immagine –come suggerisce Francesco Forte nel recensire un libro di Ernesto Rossi sul buongoverno secondo Einaudi- si può quindi parlare di una “nozione architettonica in senso ampio del buon governo, come architettura della casa, del podere e della città, nelle sue parti private e pubbliche, in cui ciascuno è signore”.
Ma se dal piano delle idee e dei concetti ci spostiamo al livello delle politiche pubbliche, credo che efficienza e prevenzione dei fenomeni di “corruzione” (nel senso ampio e non penalistico sopra precisato) siano i due capisaldi per assicurare un concorso attivo delle pp.aa. nel perseguimento del buon governo.
Analizziamo i due aspetti, in maniera inevitabilmente schematica.
Il “buon governo” come buon funzionamento delle amministrazioni
Il settore pubblico, originariamente collegato alla “funzione” autoritativa dello Stato, viene oramai da decenni riguardato come un centro di erogazione di servizi al pubblico e, in tale veste, assume un rilievo centrale nell’economia di un sistema: può quindi rivelarsi un ostacolo “burocratico” al servizio del Paese o un fattore di competitività e di sviluppo che crea il contesto in cui gli operatori economici privati, ma anche pubblici, agiscono. Mi riferisco ai settori di diretta rilevanza economica, ma il discorso non può andare disgiunto dai servizi sociali, dall’istruzione, dai beni culturali e, più in generale, dai servizi alla persona.
L’impegno del Governo nel settore pubblico si giustifica quindi sulla base sia di considerazioni di ordine macroeconomico, sia di valutazioni politico-ordinamentali, in quanto è il settore pubblico che accompagna, dalla nascita alla morte, la vita del cittadino nella società.
Non esiste una politica del settore pubblico, una politica per la pubblica amministrazione. Vi è piuttosto un concorso di politiche pubbliche alla definizione di un quadro di sistema del settore pubblico in grado di dare servizi di qualità ai cittadini: servizi diretti (scuola, assistenza, sanità) e servizi strumentali e di contesto all’economia. E’ in quest’ottica, se guardiamo all’agenda di questo governo (ma non solo di esso), che vanno viste le politiche sulle liberalizzazioni, sulle semplificazioni, sull’agenda digitale e in genere gli interventi che mirano a migliorare il funzionamento delle amministrazioni pubbliche. Senza dimenticare il tema della cd. semplificazione dei livelli di governo che, sul piano più strettamente ordinamentale, mira ad assicurare una più efficiente governance delle decisioni pubbliche in un sistema “multilivello” come il nostro (e come quello della maggior parte delle grandi democrazie).
Negli ultimi anni –direi nell’ultimo ventennio- sono state adottate, non solo in Italia, varie politiche per il settore pubblico. Il comun denominatore di questi programmi è stato quello dell’ammodernamento e innovazione del settore pubblico al fine della produzione di “valore pubblico” (MOORE, 1995), inteso non solo in termini economici, ma anche in termini sociali.
Questa generale tendenza, in Italia, si è accompagnata, da una parte, a una maggiore promozione della rule of law nelle amministrazioni (partecipazione dei cittadini, trasparenza, accountability, ecc.), dall’altra, all’affermarsi di processi di riduzione della sfera pubblica (peraltro, ancora in atto) e di “aziendalizzazione della pubblica amministrazione”. Una caratteristica ricorrente di tali processi è la convinzione che il perimetro dello Stato sia divenuto “troppo grande” e “pervasivo” e che il mercato offra meccanismi migliori per il raggiungimento di un’offerta efficiente di beni e servizi (Banca Mondiale, 1996, 1997).
Da qui nasce sostanzialmente l’idea di “nuova Pubblica Amministrazione” (New Public Management) (DUNLEAVY/HOOD, 1994), a cui si collega l’aspettativa di uno Stato che sia responsabile della “gestione dello sviluppo” (Banca Mondiale, 1997). E le ragioni dell’attivazione di tali processi in Italia sono varie e possono essere individuate, per esempio, nell’esigenza di sanare l’inefficienza e l’arretratezza dell’organizzazione amministrativa, nell’urgenza di ridurre la lievitazione del deficit e debito pubblici, nella richiesta di una migliore qualità dell’azione amministrativa, nell’incidenza del diritto europeo e globale sull’ordinamento nazionale (S. CASSESE, 1998).
L’attuazione di questi programmi si è svolta riposando su due capisaldi: separazione tra politica e amministrazione, “privatizzazione” dei modelli di organizzazione e azione delle pubbliche amministrazioni.
La declinazione di questi capisaldi si è avuta, in particolare:
a) nell’ambito dell’organizzazione e del rapporto di lavoro pubblico, con la privatizzazione del pubblico impiego, la separazione tra compiti di indirizzo e controllo e compiti di gestione, la responsabilizzazione del dirigente come manager di parte datoriale, l’adozione di meccanismi di performance management
b) quanto all’azione amministrativa, con la procedimentalizzazione dell’azione amministrativa e la garanzia del due process of law; con il ricorso a strumenti e modelli privatistici ai fini dell’erogazione di servizi pubblici (società pubbliche, outsourcing, partenariati, ecc.), nonché a moduli consensuali perfino per l’esercizio di alcune funzioni; con la digitalizzazione dei processi e la semplificazione amministrativa come fattori per incrementare la produttività e la competitività del settore pubblico.
In generale, l’introduzione di tali logiche ha contribuito positivamente a una maggiore apertura e trasparenza delle amministrazioni, nonché alla promozione di forme più efficaci di accountability.
Con riferimento specifico alla diffusione di logiche privatistiche e aziendali nelle pubbliche amministrazioni, un effetto importante è stato lo sviluppo anche nel settore pubblico di una cultura della qualità e della competitività. L’analisi economica del diritto parla, a tal riguardo, di “organizzazione industriale dello Stato” volta alla produzione di efficienza.
Qualità e competitività sono componenti trasversali che investono diverse dimensioni:
· sul piano dei servizi, tali componenti animano i processi di liberalizzazione, privatizzazione, esternalizzazione, introduzione di carte di servizi e standard di qualità;
· sul piano delle funzioni, tali componenti spiegano lo sviluppo di politiche di digitalizzazione, semplificazione amministrativa e razionalizzazione ;
· sul piano dell’organizzazione, le stesse componenti costituiscono la ratio dei programmi di trasparenza totale, in funzione di controllo sociale e di partecipazione civica, e dei piani e sistemi di prevenzione della corruzione (integrità);
· sul piano del personale e dei controlli, tali componenti rappresentano il risultato a cui tendono i meccanismi di misurazione e valutazione delle performance, nella misura in cui il buon e concreto funzionamento del “Ciclo di gestione della performance” è orientato alla produttività.
Tuttavia, il fallout dell’introduzione di logiche privatistiche e aziendali nelle pubbliche amministrazioni ha presentato anche criticità. Per fare qualche esempio: la maggiore flessibilità del personale e lo stesso snellimento dell’apparato burocratico ha determinato la crescita del personale avventizio e quindi l’ incremento della precarietà; il ricorso delle amministrazioni a know how esterno ha causato un incremento eccessivo delle consulenze o si è tradotto in forme di esternalizzazioni cui non è seguita la riduzione dell’apparato pubblico quando non ha dato vita a quella giungla di società in&out-house che non è più tollerabile giustificare neanche ala luce dell’autonomia o del nobile concetto della cd, libertà di autoproduzione e di autoorganizzazione; vi è stato un aumento generale delle retribuzioni (processo invertitosi negli ultimi due tre anni) a fronte di una scarsa differenziazione sia degli emolumenti tra le diverse categorie di personale, sia nell’erogazione della componente accessoria; il sistema di formazione specie dirigenziale è altamente frammentario e disaggregato; è rimasta, specie nel sistema delle autonomie locali, una eccessiva fidelizzazione della classe dirigente al vertice politico[1].
Non credo che si debba abbandonare il solco già tracciato sulla via della modernizzazione delle pubbliche amministrazioni, ma semmai analizzarne le criticità per assicurare l’applicazione delle norme esistenti e per introdurre correttivi laddove le stesse presentino difficoltà applicative o si rivelino non adeguate al mutare delle condizioni di contesto. Per esempio, in tema di trasparenza totale, di semplificazioni amministrative e di digitalizzazione, lo sviluppo delle relative politiche deve accompagnarsi alla minuziosa attuazione dei consistenti interventi che sul piano normativo sono già stati fatti. Per converso, le difficoltà applicative della normativa in tema di performance management e i processi di riorganizzazione dell’apparato pubblico e di gestione delle risorse conseguenti alla situazione economico-finanziaria e alla riorganizzazione dei livelli di governo impongono quanto meno di riconsiderare alcuni aspetti della vigente normativa: in maniera di assicurare una effettiva implementazione dei meccanismi della mobilità obbligatoria, di garantire adeguati standard di performance organizzativa per misurare la qualità dei servizi resi all’utenza, senza per questo far venir meno il valore incentivante della valutazione della performance individuale una volta che sia stata accertato il buon funzionamento della struttura e sia stato valutato dal dirigente l’apporto concreto ed effettivo fornito da ciascun dipendente alla buona performance della struttura: il tutto senza dimenticare –come insegnano la letteratura di riferimento e la stessa prassi del settore privato- che i processi di produzione e soprattutto di crisi si gestiscono meglio in ambienti in cui ciascuna parte conservi il proprio ruolo, ma che non per questo siano obbligatoriamente, quasi ex lege, conflittuali.
Sono sempre stato convinto che ciascun ministro della p.a. debba evitare di dare scossoni al sistema, perché il riformismo, nella politica istituzionale, si attua con il procedere determinato ma attento al sistema. Quindi non ho alcuna intenzione di suggerire una grande riforma; e meno che mai una controriforma. Al tempo stesso, è estranea alla mia cultura e alla mia formazione ogni tipo di presunzione, che rischia di tracimare nell’arroganza, che configuri nell’attuale assetto un sistema di perfezione tomistica intaccabile solo da un’eresia.
2 “Buon governo” e prevenzione della corruzione
E’ questo il secondo caposaldo del buon governo.
Gli effetti deleteri della corruzione sul sistema economico sono stati adeguatamente posti in luce dalla letteratura, dalle classifiche internazionali, dagli studi, per quanto riguarda il nostro Paese, della Banca d’Italia e della Corte dei conti
Vorrei che tenessimo ben presente la dimensione sociale del fenomeno: la corruzione intacca il principio di uguaglianza perché altera le regole del gioco e mina le pari opportunità di ciascun cittadino; nella società corrotta l’individuo non è cittadino ma suddito, perché la corruzione si fonda sul rapporto disuguale tra patrono e cliente, che nulla ha a che vedere con la dialettica tra autorità e libertà delle società democratiche. Leggevo (Ginsborg 2010) che, nella lotta per il Civil Service contro la “vecchia corruzione”, una mozione del 1855 della Camera dei Comuni “sostiene l’opinione che l’aver sacrificato nelle nomine pubbliche il merito e l’efficienza agli influssi di partito e di parentela e a una cieca aderenza alla consuetudine abbia dato origine a grandi sciagure e minacci di portar discredito all’unità nazionale”. Ed è difficile negare che da noi la (in)cultura del clientelismo sia giunta a essere “una socializzazione di massa alla pratica dell’illegalità” (Signorelli 1988).
La corruzione non è più qualcosa di cui discutere. Serve una politica concreta e urgente impostata sulla prevenzione del fenomeno. Risk management, piani delle singole amministrazioni che individuino le aree a rischio e adottino i conseguenti modelli di prevenzione, trasparenza totale nelle nomine, nelle procedure e nella gestione delle risorse, individuazione delle responsabilità, rotazione negli incarichi e incompatibilità negli incarichi a estranei, protezione dell’identità di coloro che segnalano abusi con il solo limite del diritto di difesa dell’incolpato. Sono misure che possono apparire talvolta eccessive, perché è “eccessiva” la situazione in cui ci troviamo. L’esagerazione demagogica e strumentale è pericolosa, al pari della sottostima del rischio. Non per voler essere illuminista a tutti i costi, credo sia ragionevole aspettarsi unità di intenti e concordia finale tra le forze politiche sul disegno di legge in discussione alla Camera.
Concludo – Se potessi suggerire alcuni temi ancora aperti che un Master in Management e Politiche delle Pubbliche Amministrazioni dovrebbe prendere in considerazione mi soffermerei sui seguenti:
1. l’effettività e l’efficacia delle regole: quanto le funzioni gius-economiche (SUNSTEIN, 1990) sottese alle principali riforme della pubblica amministrazione - da venti anni a questa parte - sono state realmente realizzate? Quanto le norme alla base di tali riforme erano idonee a raggiungere concretamente gli obiettivi che le stesse si ponevano (SHAVELL, 1993)? Quanto la presenza di “gruppi di interesse” – per dirla con i termini dell’analisi economica del diritto – ha inciso sulla realizzazione di quelle riforme?
2. La gestione delle distorsioni del sistema: quali sono le principali distorsioni che non permettono nel contesto italiano un “buon governo” e l’attuazione di una good governance? Quali sono gli elementi strettamente riconducibili alle p.a.? In quale modo impedire che l’amministrazione sia usata come ammortizzatore sociale o, per dirla con le parole del Professore Guido Melis, come un “ospedale da campo”? Come assicurare che la nota interazione tra organizzazione e prodotto (prima si diceva tra organizzazione e attività) dia luogo a servizi e prestazioni misurabili e di qualità?
3. La prevenzione della corruzione: è possibile, una volta individuati i modelli organizzativi, assicurare una “rete” in grado di assicurare l’applicazione pratica e concreta di questi modelli?
Platone sosteneva che “ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi”. Nello scenario attuale, anche questa condizione non sarebbe comunque sufficiente: oggi, più di ieri, è necessario, infatti, che la volontà e gli sforzi provengano da tutti i livelli e che il “miglioramento” non sia soltanto una condizione voluta e imposta dall’alto. Pertanto, ci sarà un buon governo solo quando tutti vorranno il “bene” della cosa pubblica e della pubblica amministrazione.
Grazie e buon lavoro.
[1] Più in generale, con riferimento ai processi di aziendalizzazione e privatizzazione delle p.a., una copiosa letteratura illustra le principali cause del fallimento delle politiche di New Public Management, ricondotte all’effetto dell’ambiente politico (i processi di re-ingegnerizzazione conducono, inevitabilmente, a licenziamenti di massa; ciò, naturalmente, non incontra il favore della collettività e, soprattutto, dell’elettorato); alla bassa attenzione alla gestione dei processi e la loro scarsa standardizzazione (i procedimenti amministrativi, a differenza di quelli aziendali, sono tanti ed eterogenei, hanno tempi tendenzialmente diversi, soddisfano esigenze differenziate, operano in settori molteplici, ecc.); alla predisposizione a nascondere gli errori nelle amministrazioni (la classe dirigente pubblica è meno incentivata a punire gli errori dei dipendenti e a promuovere politiche di differenziazione del personale, secondo una logica meritocratica; da qui il rischio della formazione di “imperi personali” - MAKUMBE, 1997); all’eccessivo appiglio all’intervento legislativo (ogni cambiamento è troppo condizionato dal dettato normativo).
Sono, altresì, noti i rilievi dell’analisi economica del diritto: la P.A. impiega i propri fattori produttivi in eccesso; la spesa effettiva (per personale, servizi, ecc.) è superiore a quella standard; sovradimensionamento dell’apparato pubblico; c’è un eccesso di produzione di servizi pubblici rispetto alle esigenze della collettività; sono forti le diseconomie di scala nella produzione delle varie unità.
http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/Buon_governo_e_ppaa_LUISS_2012.htm