Una recente sentenza della Cassazione – pronunciata dalla Sezione V, la numero 34296 del 2.10.2020, depositata il 22.12.2020, Presidente Paolo Antonio Bruno, relatore Antonio Settembre – dà lo spunto per una rilettura complessiva della fattispecie di r[b]eato di cui all’art. 615 ter Cod. pen.[/b]
E’ infatti prevedibile che la norma incriminatrice in questione salirà alla ribalta della cronaca,[b] data la iperdiffusività del cybercrime [/b]in epoca contemporanea e, soprattutto, in seguito alla pandemia da Covid-19.
Anche la natura del bene giuridico tutelato, ormai, necessita di una rilettura.
La Quinta Sezione si è occupata della vicenda di un professionista - socio sia di uno studio professionale associato che di una società tra professionisti – che aveva effettuato il backup dei dati dei clienti per avviare un’attività autonoma e diversa rispetto a quella per cui i dati stessi erano stati raccolti.
Querelato per il reato di cui all’art. 615 ter Cod. pen., l’imputato veniva condannato per il reato ascritto in entrambi i gradi di merito, ricorrendo, infine, per cassazione.
In sede di legittimità, quindi, lamentava[b] l’erronea applicazione dell’art. 615 ter Cod. pen[/b]. perché l’accesso al sistema informatico era stato eseguito utilizzando le chiavi d’accesso di cui era legittimamente in possesso e sottolineando come nessuna normativa interna all’associazione o alla società vietasse in alcun modo l’utilizzo delle stesse per le finalità con cui erano state impiegate.
La Corte ha respinto il ricorso, ripercorrendo gli argomenti proposti da alcune pronunce precedenti, ed affermando – nuovamente –[b] il principio per cui vi è accesso abusivo a sistema informatico ogniqualvolta l’agente entri o
si trattenga nel sistema stesso per finalità diverse da quelle “istituzionalmente” previste per l’accesso al sistema stesso.
Fonte: giurisprudenza penale web, 2021, 2, di Massimo Borgobello