Data: 2019-09-28 05:56:39

L'applicazione dei principi delle liberalizzazioni nelle zone produttive

L'applicazione dei principi delle liberalizzazioni nelle zone produttive

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[color=red][b]Cons. Stato Sez. VI, Sent., 23 settembre 2019, n. 6312[/b][/color]

[b]COMMENTO[/b]: http://www.quotidianopa.leggiditalia.it/quotidiano_home.html#news=PKQT0000222138

[color=red][b]SENTENZA[/b][/color]

Pubblicato il 23/09/2019
N. 06312/2019REG.PROV.COLL.

N. 05019/2016 REG.RIC.

N. 05141/2016 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5019 del 2016, proposto dalle imprese Podini Holding S.p.A. e Twentyone S.r.l., in persona dei legale rappresentanti p.t., rappresentate e difese dagli avvocati Nausicaa Mall, Dieter Schramm e Massimo Luciani, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio, 9;
contro

Aspiag Service S.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Christof Baumgartner, Guido Zago, Federica Sgualdino e Mario Sanino, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180;
nei confronti

Comune di Bolzano, Provincia autonoma di Bolzano, non costituiti in giudizio;


sul ricorso numero di registro generale 5141 del 2016, proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Renate von Guggenberg, Stephan Beikircher, Laura Fadanelli, Lukas Plancker e Michele Costa, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Bassano del Grappa, 24;
contro

Aspiag Service S.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Christof Baumgartner, Guido Zago, Federica Sgualdino e Mario Sanino, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Parioli, 180;
nei confronti

Comune di Bolzano, Podini Holding S.p.A, Twentyone S.r.l., non costituiti in giudizio;
e con l'intervento di

ad adiuvandum:
Unione commercio turismo servizi Alto Adige, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Federico Mazzei e Andrea Reggio d’Aci, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via delle Medaglie d’Oro;


per la riforma

della sentenza del Tribunale regionale di giustizia amministrativa - Sezione autonoma di Bolzano, n. 85/2016, resa tra le parti e concernente: diniego autorizzazione al trasferimento di esercizio commerciale al dettaglio con contestuale ampliamento della superficie di vendita;


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio delle rispettive parti appellate;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Vista la sentenza non definitiva n. 3122/2017;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2018, il consigliere Bernhard Lageder e uditi, per le parti, gli avvocati Massimo Luciani, Christof Baumgartner, Mario Sanino, Guido Zago, Laura Padanelli, Michele Costa e Andrea Reggio d’Aci;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa - Sezione autonoma di Bolzano accoglieva il ricorso n. 119 del 2014, proposto dalla Aspiag Service S.r.l. avverso il provvedimento del Comune di Bolzano n. 47 del 27 gennaio 2014, notificato il 31 gennaio 2014, avente ad oggetto la dichiarazione di inefficacia della comunicazione di Aspiag Service S.r.l. dell’8 marzo 2012 (prot. n. 19383 del 12 marzo 2012), integrata dalla nota del 22 marzo 2012 (prot. 23193 del 23 marzo 2012), con cui la ricorrente aveva notiziato l’Amministrazione comunale di Bolzano della propria intenzione di trasferire l’esercizio di commercio al dettaglio (la struttura di vendita “Interspar”) dalla p.ed. 3977 alla p.ed. 3328 (entrambe site in Bolzano, via Buozzi 30, in zona produttiva di interesse provinciale), di ampliare la superficie di vendita (da mq 1.600 a mq 20.000) e di estendere la vendita a tutti i settori merceologici.

1.1. Il Comune di Bolzano, già con precedente provvedimento del 25 luglio 2012, aveva dichiarato l’inefficacia di dette comunicazioni sulla base dell’art. 5 l. prov. 16 marzo 2012, n. 7, recante il divieto all’esercizio del commercio al dettaglio nelle zone produttive (eccettuati alcuni settori merceologici particolari), compresi il trasferimento o l’ampliamento di autorizzazioni rilasciate in passato.

1.2. Contro il provvedimento inibitorio del 25 luglio 2012 Aspiag Service S.r.l. aveva presentato ricorso al locale T.r.g.a..

Nelle more di tale giudizio, era intervenuta – su ricorso principale presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – la sentenza della Corte costituzionale 15 marzo 2013, n. 38, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 5 l. prov. n. 16 marzo 2012, n. 7 (Liberalizzazione dell’attività commerciale), sostitutivo dell’art. 44/ter l. prov. 11 agosto, n. 13 (l. urb. prov.) recante la disciplina del commercio al dettaglio nelle zone produttive e posto esplicitamente a fondamento del gravato provvedimento inibitorio (o di diniego), per contrasto con il disposto dell’art. 31, comma 2, d.-l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, e per il suo tramite con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., con la conseguente espunzione dall’ordinamento, con efficacia retroattiva, della norma dichiarata incostituzionale.

La citata disposizione legislativa provinciale, pur consentendo nelle zone produttive la prosecuzione delle attività di vendita al dettaglio già autorizzate o già iniziate prima dell’entrata in vigore della legge provinciale n. 7/2012, al comma 4 aveva vietato che le relative strutture destinate alla vendita al dettaglio potessero essere ampliate, trasferite o concentrate, mentre i primi tre commi dello stesso articolo 44/ter l. urb. prov. come sopra sostituito, pure dichiarati costituzionalmente illegittimi, avevano previsto che il commercio al dettaglio nelle zone produttive fosse ammesso soltanto come eccezione (comma 1), per le categorie merceologiche indicate (comma 2) e per i relativi accessori determinati ed ammessi da una successiva deliberazione della Giunta provinciale (comma 3).

Il T.r.g.a., in conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5 l. prov. n. 7/2012, con sentenza n. 348/2013 dell’11 dicembre 2013 aveva accolto il ricorso, annullando il provvedimento inibitorio del Comune del 25 luglio 2012.

1.3. Successivamente a tale pronuncia, il Comune di Bolzano era tornato a riesaminare le comunicazioni originarie presentate l’8 e il 23 marzo 2012 e, esaurita l’istruttoria, ha emanato il gravato provvedimento del 27 gennaio 2014, pronunciando una nuova inibitoria (o diniego) in relazione alle comunicazioni del marzo 2012.

Il nuovo provvedimento era fondato, in primo luogo, sulla sopravvenuta l. prov. 8 marzo 2013, n. 3 (entrata in vigore il 13 marzo 2013, prima della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 38/2013 dell’11-15 marzo 2013 sulla G.U. del 20 marzo 2013) che, all’articolo 3, apportando una novella all’art. 44/ter l. prov. n. 13/1997 (l. urb. prov.), ha sostanzialmente reiterato le limitazioni al commercio al dettaglio nelle zone produttive (seppure sub specie di eccezione e non di regola). Inoltre, il provvedimento richiamava la novella apportata dal decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98), all’art. 31, comma 2, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito nella legge 22 dicembre 2011, n. 214), affermativa della potestà/facoltà delle regioni ed enti locali di prevedere, a determinate condizioni e senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree per l’insediamento di attività produttive e commerciali.

1.4. Nelle more del giudizio di primo grado è stato impugnato dinanzi alla Corte costituzionale, con ricorso proposto in via principale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’articolo 3 della legge provinciale n. 3/2013 poi sostituita (senza che la Corte costituzionale si fosse ancora pronunciata sul ricorso) retroattivamente dalla legge provinciale 23 ottobre 2014, n. 10, che, all’articolo 8, riformulava, sempre in termini limitativi, la disciplina del commercio al dettaglio nelle zone produttive.

Pure l’art. 8 l. prov. n. 10/2014, nel corso del giudizio di primo grado, è stato impugnato dinanzi alla Corte costituzionale, dal Governo con ricorso principale, nonché, in via incidentale, dal T.r.g.a. (nell’ambito di altra causa, iscritta sub r.g. n. 117/2013) con ordinanza di rimessione del 14 novembre 2014, con la quale la questione di illegittimità costituzionale è stata estesa anche all’art. 3, comma 3, l. prov. n. 3/2003, ossia alla disciplina dell’art. 44/ter, comma 3, l. urb. prov. posta a base del provvedimento impugnato nel presente giudizio.

1.5. Il T.r.g.a. con la sentenza in epigrafe, dopo aver in un primo momento, con ordinanza n. 127 del 13 aprile 2015, disposto il rinvio della causa in attesa della definizione dei menzionati giudizi di costituzionalità, re melius perpensa riteneva logicamente preliminare l’esame del primo motivo di ricorso, con cui la ricorrente Aspiag Service S.r.l. aveva censurato la violazione della disciplina in materia di segnalazione certificata di inizio attività (S.c.i.a.) per essere il provvedimento inibitorio intervenuto dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla presentazione della relativa comunicazione da parte dell’impresa ricorrente.

1.5.1. Il T.r.g.a. accoglieva tale motivo di ricorso ed annullava il gravato provvedimento n. 47 del 27 gennaio 21014, per violazione sia della disciplina statale di cui all’art. 19 l. n. 241/1990, sia di quella provinciale di cui agli artt. 21/bis l. prov. n. 17/1993 e 2 l. prov. n. 7/2012 – richiamando, quanto al rapporto tra legislazione statale e legislazione provinciale in materia di procedimenti autorizzatori semplificati, la sentenza n. 121/2014 della Corte costituzionale, la quale, sulla base della considerazione che la S.c.i.a. attiene ai livelli di tutela essenziali uniformi su tutto il territorio nazionale, aveva affermato, in ossequio all’articolo 117, comma 2, lettera m), Cost., la supremazia della legislazione statale su quella regionale e provinciale –, attesa l’adozione dell’atto inibitorio oltre il menzionato termine, insuscettibile di interruzione o sospensione, e stante l’impossibilità di riqualificare l’atto medesimo sub specie di provvedimento di annullamento in autotutela, in difetto dei relativi requisiti.

1.5.2. Il T.r.g.a. respingeva invece la domanda risarcitoria, per difetto di allegazione e di prova dell’elemento della colpevolezza e dell’ammontare del danno.

1.5.3. Il T.r.g.a. dichiarava, infine, l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum spiegato dalle imprese Podini Holding S.p.A. e Twentyone S.r.l. (che gestiscono il centro commerciale di interesse provinciale, l’unico ammesso dalla normativa provinciale), in quanto le stesse sarebbero titolari di un mero interesse economico di fatto, e non già di un interesse giuridico legittimante l’intervento, poiché «la normativa, comunitaria e nazionale (così come interpretata dalla Corte Costituzione nella sentenza n. 38/2013), è tutta improntata alla liberalizzazione delle attività economiche ed al bando di situazioni di monopolio che gli intervenienti tendono invece a difendere» e «l’intervento nel processo a difesa di semplici interessi economici ‘contra ius’ è inammissibile» (v. così, testualmente, l’impugnata sentenza).

2. Avverso tale sentenza interponevano appello le società Podini Holding S.p.A. e Twentyone S.r.l., intervenute ad opponendum in primo grado, con ricorso rubricato sub r.g. n. 5019 del 2016, deducendo i motivi come di seguito rubricati:

a) «Violazione e falsa applicazione degli artt. 28 e 50 c.p.a., anche in riferimento alla normativa provinciale che disciplina il centro commerciale di rilevanza provinciale quale eccezione al generale divieto del commercio al dettaglio nelle zone produttive (art. 44-ter della l. p. 13 del 1997, inserito dall’art. 13 della l. p. n. 3 del 2007, novellato dall’art. 5 della l. p. n. 7 del 2012 e successivamente dall’art. 3 della l. p. n. 3 del 2013; art. 44 LUP, inserito dall’art. 8, comma 4, della l. p. n. 10 del 2014). Error in iudicando per non aver qualificato le odierne appellanti Podini Holding s.p.a. e Twentyone s.r.l. quali controinteressate in senso sostanziale e portatrici di interesse qualificato - Errata decisione sull’asserita inammissibilità dell’intervento»;

b) «Violazione e/o errata applicazione della normativa sulla SCIA riferita alle attività commerciali in Provincia di Bolzano (art. 2 L.P. 7/2012); Violazione e/o omessa applicazione della delibera della Giunta provinciale n. 1324 dd. 10.09.2012; Violazione e/o omessa applicazione dell’art. 6 L.P. 7/2000»;

c) «Violazione e/o omessa applicazione dell’art. 44-ter comma 6 L.P. 13/1997 nella versione vigente prima del 21.03.2012: divieto di concentrazione/ampliamento»

d) «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 della l.p. n. 7 del 2012 (ovverosia art. 44-ter della l.p. n. 13 del 1997 nella versione originaria entrata in vigore in data 21.03.2012); omessa applicazione della norma nella versione introdotta con l.p. n. 3 del 2013, entrata in vigore in data 13.03.2013, anche in riferimento all’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011»;

e) «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 della l.p. n. 7 del 2012 nella versione originaria entrata in vigore in data 21.03.2012. Violazione ovvero omessa applicazione dell’art. 8 comma 11 L.P. 10/2014»;

f) «In subordine. Violazione e falsa applicazione dell’art. 44 comma 2 della l.p. n. 13 del 1997 nel testo in vigore prima dell’entrata in vigore della l.p. n. 10 del 2013, e/o dell’art. 44-ter l.p. n. 13 del 1997 nella formulazione introdotta con l.p. n. 7 del 2012 e/o con l.p. n. 3 del 2013. Erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ritiene definitivamente venuto meno il divieto di commercio al dettaglio nelle zone produttive a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 38/2013»;

g) «In secondo subordine. Violazione e/o errata ovvero omessa applicazione dell’art. 44-ter applicabile ratione temporis (art. 44 nella formulazione oggi vigente) L.P. 13/1997. Violazione dell’art 4.5. della Delibera della G.P. n. 1588/2009 (Piano provinciale per le grandi strutture di vendita). Violazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990»;

h) «In via ulteriormente subordinata. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della l.p. n. 7 del 2012. Violazione e falsa applicazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990. Omessa considerazione dell’avvenuta interruzione dei termini».

Le società appellanti chiedevano pertanto, in riforma dell’impugnata sentenza, la reiezione del ricorso di primo grado di Aspiag Service S.r.l..

3. Avverso la stessa sentenza interponeva separato appello la Provincia autonoma di Bolzano, con ricorso rubricato sub r.g. n. 5141 del 2016, deducendo i seguenti motivi:

a) «Erroneità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 21/bis l.p. 17/1993 e dell’art. 2 l.p. 7/2012; erronea qualificazione della comunicazione dd. 23.3.2012 quale SCIA; violazione del principio del ne bis in idem», riferendo quest’ultimo profilo di censura alla pregressa sentenza del T.r.g.a. n. 348/2013, di annullamento del precedente provvedimento inibitorio all’esito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5 l. prov. n. 7/2012;

b) «Erroneità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 21-nonies l. 241/1990»;

c) «Erroneità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 l.p. 7/2012 che ha modificato l’art. 44-ter l.p. 13/1997 e dell’art. 3 l.p. 3/2013 che ha successivamente sostituito l’art. 5 l.p. 7/2012 e, quindi, anche l’art. 44/ter l.p. 13/1997»;

d) «Erroneità della sentenza impugnata per omessa applicazione e/o violazione e/o falsa applicazione dell’art. 44 l.p. 13/1997; erronea statuizione in ordine all’assenza di base normativa su cui fondare il provvedimento impugnato del Comune di Bolzano»;

e) «Erroneità della sentenza impugnata per omessa applicazione e/o violazione e/o falsa applicazione dell’art. 8, comma 11, della legge provinciale 23 ottobre 2014, n. 10».

L’appellante Provincia chiedeva pertanto, previa sospensione della provvisoria esecutorietà dell’impugnata sentenza e in sua riforma, la reiezione dell’avversario ricorso di primo grado.

4. In entrambe le cause di appello si costituiva l’originaria ricorrente Aspiag Service S.r.l., chiedendo la reiezione degli avversari ricorsi in appello, in rito e nel merito, e la conferma dell’impugnata sentenza, nonché riproponendo espressamente i motivi assorbiti di primo grado.

5. Nell’ambito della causa d’appello sub 3. interveniva in giudizio l’Unione commercio turismo servizi Alto Adige, quale associazione di categoria delle imprese associate esercenti il commercio al dettaglio nella Provincia e nel Comune di Bolzano, aderendo all’appello proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano e chiedendone l’accoglimento.

6. All’esito dell’udienza pubblica del 26 gennaio 2017, questa Sezione pronunciava la sentenza non definitiva n. 3122/2017, statuendo come segue (previa riunione dei due ricorsi in appello, proposti avverso la medesima sentenza):

(i) affermava la legittimazione di Podini Holding e Twentyone a proporre appello, avendo le stesse, attraverso l’intervento ad opponendum spiegato in primo grado, assunto formalmente la qualità di parte processuale, ed essendo gli intervenienti in primo grado legittimati a proporre appello contro la decisione che ha concluso il primo grado del giudizio non solo quando le loro istanze siano state respinte nel merito, ma anche quando sia stata negata l’ammissibilità dell’intervento, essendo gli stessi rimasti soccombenti su quest’ultimo punto (e, nel caso di specie, anche nel merito e sulle spese, poste con l’impugnata sentenza a carico delle odierne appellanti, in solido con la Provincia e il Comune di Bolzano);

(ii) riservava ogni decisione sulla questione dell’ammissibilità, o meno, dell’intervento ad opponendum spiegato in primo grado, risolta dalla sentenza di primo grado in senso negativo con la statuizione sub § 1.5.3. e devoluta al giudizio di secondo grado attraverso il motivo d’appello sub § 2.a), all’esito dei giudizi di costituzionalità attualmente pendenti sulla normativa provinciale applicabile ratione temporis alla fattispecie provvedimentale sub iudice, dipendendo la soluzione di tale questione dalla ricostruzione della disciplina provinciale dell’esercizio del commercio al dettaglio nelle zone produttive sub specie di compatibilità con l’assetto costituzionale e comunitario/euro-unitario, essendo in caso di ritenuta legittimità di tale disciplina configurabile un interesse giuridicamente rilevante, e non di mero fatto, legittimante l’intervento (mentre, in caso di ritenuta incompatibilità, si sarebbe comunque pervenuti ad un esito annullatorio del provvedimento di primo grado, con superamento, per ragioni di economia processuale, della questione dell’ammissibilità dell’intervento);

(iii) respingeva l’eccezione di sopravvenuta improcedibilità del ricorso di primo grado, sollevata dall’intervenuta associazione di categoria Unione Commercio con riferimento alla sopravvenuta disciplina normativa di cui agli artt. 2, comma 1, e 4, comma 7, l. prov. 22 dicembre 2016, n. 27 (entrata in vigore il 28 dicembre 2016), di cui il primo interamente sostitutivo dell’art. 44 l. urb. prov. in materia di disciplina del commercio al dettaglio nelle zone produttive [con espresso richiamo dell’art. 40 d.P.R. 22 marzo 1974, n. 381, come novellato con d.lgs. 7 luglio 2016, n. 146 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di pianificazione urbanistica del settore commerciale, recante modifiche e integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica del 22 marzo 1974, n. 381, in materia di urbanistica ed opere pubbliche)], ed il secondo recante una specifica disciplina transitoria relativa alla sorte delle segnalazioni certificate di inizio attività presentate ai sensi della l. prov. 17 febbraio 2000, n. 7, in quanto – essendo il provvedimento impugnato in primo grado stato adottato il 27 gennaio 2014 (con espresso richiamo della disciplina dettata dall’art. 3 l. prov. n. 3/2013) e dovendo nei giudizi amministrativi impugnatori, in applicazione del principio tempus regit actum, la valutazione di legittimità del gravato provvedimento essere condotta con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione (v. in tal senso, ex plurimis, Corte cost. n. 49 del 2016, n. 30 del 2016 e n. 151 del 2014), nonché rilevando la situazione di diritto esistente al momento dell’adozione dell’atto impugnato persino in caso di sopravvenienza di disciplina ad efficacia retroattiva, quanto meno ad eventuali effetti risarcitori (art. 34, comma 3, Cod. proc. amm.) – doveva ritenersi la persistente sussistenza dell’interesse a ricorrere avverso il provvedimento impugnato in primo grado;

(iv) affermava l’irrilevanza delle questioni attinenti il rilascio delle concessioni edilizie e il loro annullamento in sede amministrativa (con deliberazione della Giunta provinciale n. 1483 del 27 dicembre 2016, pronunciata ai sensi dell’art. 89 l. urb. prov. su ricorso ex art. 105 l. urb. prov. proposto dall’Unione commercio turismo servizi Alto Adige avverso la concessione edilizia in variante n. 212/2016 rilasciata dal Comune di Bolzano in favore di Aspiag Service S.r.l.), vertendo la presente controversia esclusivamente sugli atti inerenti al trasferimento/ampliamento dell’attività commerciale dell’originaria ricorrente, con conseguente inconferenza della documentazione prodotta dalle parti in prossimità dell’udienza di discussione con riferimento alla vicenda urbanistico-edilizia;

(v) accoglieva i motivi d’appello, dedotti in entrambi i ricorsi riuniti e tra di loro sostanzialmente coincidenti, avverso le statuizioni di accoglimento riportate sopra sub § 1.5.1., riformando di conseguenza l’appellata sentenza e respingendo le correlative censure di primo grado, sulla base dei seguenti rilievi:

- contrariamente a quanto affermato nell’appellata sentenza – attraverso il richiamo alle sentenze, con le quali sono state definite le cause parallele inter partes –, alla fattispecie sub iudice non poteva trovare applicazione il regime della S.c.i.a., né secondo la disciplina statale, restando l’applicazione immediata e diretta della normativa statale esclusa dalla riserva di legislazione regionale contenuta nell’art. 29, comma 2-quinquies, l. n. 241/1990, equivalente a clausola di salvaguardia del regime di autonomia speciale, né secondo la disciplina provinciale di cui all’artt. 21/bis l. prov. 22 ottobre 1993, n. 17, aggiunto dall’art. 18, comma 2, l. prov. 23 dicembre 2010, n. 15, che ha trovato attuazione in forza della delibera della Giunta provinciale n. 1324 del 10 settembre 2012 solo con decorrenza dal 1° gennaio 2013;

- in ogni caso, il regime della ‘comunicazione’ di cui all’art. 2 l. prov. n. 7/2012 è inapplicabile ratione temporis alla fattispecie sub iudice, risultando l’originaria istanza di trasferimento/ampliamento dell’attività di cui è causa presentata l’8 marzo 2012 e, dunque, prima del 21 marzo 2012 (si precisa che tale rilievo, nel contesto dell’impianto motivazionale della sentenza non definitiva, assume carattere logicamente subordinato, riferendosi alla denegata e non condivisa ipotesi ricostruttiva per cui il regime della ‘comunicazione + verifica successiva ad opera del comune’ ex art. 2 l. prov. n. 7/2012 avrebbe sostituito il previgente regime dell’autorizzazione preventiva sin dal 21 marzo 2012 – data di entrata in vigore della l. prov. n. 7/2012 –, e non da quella successiva all’introduzione dell’istituto della S.c.i.a. nell’ordinamento provinciale: ricostruzione ipotetica, non condivisa dalla Sezione alla luce di un’interpretazione sistematica della normativa provinciale, attesa la riconducibilità della ‘comunicazione’ ex art. 2 cit. all’istituto generale della S.c.i.a., divenuto operativo in ambito provinciale solo con decorrenza dal 1° gennaio 2013, con la conseguenza che la sostituzione del previgente modulo procedimentale della ‘autorizzazione previa’ con quello della ‘comunicazione + verifica successiva ad opera del comune’ non poteva rapportarsi alla data di entrata in vigore della citata l. prov. n. 7/2012, da ritenersi riferibile esclusivamente alle restanti disposizioni della legge medesima non presupponenti l’operatività del nuovo modulo procedimentale);

- ad ogni modo, il termine di sessanta giorni per l’eventuale inibitoria avrebbe potuto decorrere dalla segnalazione certificata di inizio attività solo in caso di inizio effettivo dell’attività (o, se non coevo, di correlativa comunicazione successiva, secondo la disciplina all’epoca in vigore), in quanto soltanto l’inizio effettivo avrebbe consentito una verifica dell’Amministrazione comunale sui requisiti e presupposti legittimanti l’attività nei termini preannunciati, mentre nel caso di specie, a fronte dell’ambiguità contenutistica delle istanze/comunicazioni dell’8 e 22 marzo 2012 e in assenza di una comunicazione successiva di inizio effettivo dell’attività sulla superficie in ampliamento, non poteva ritenersi comprovato che l’attività fosse stata effettivamente avviata nella misura dell’annunciato ampliamento, in epoca coeva o prossima successiva all’invio di detta istanza/comunicazione, dovendosi per contro escludere in via presuntiva che l’inizio dell’attività potesse essere cronologicamente rapportata all’epoca della presentazione dell’istanza/comunicazione in questione o a congrua epoca successiva, tant’è che risulta tutt’ora pendente la controversia sui titoli edilizi, rilasciati solo nel 2016, costituenti il presupposto per l’attuazione materiale dell’ampliamento preannunciato nell’istanza/comunicazione oggetto del provvedimento di diniego gravato in primo grado, sicché, anche in linea di fatto, non appariva integrata la violazione del termine posto al potere di verifica della pubblica amministrazione in caso di S.c.i.a., assunta nell’appellata sentenza;

(vi) rilevava che con ciò, ai fini della decisione della presente causa – attesa la consequenziale reviviscenza dei motivi assorbiti, espressamente riproposti dall’originaria ricorrente Aspiag – diveniva rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3 l. prov. 8 marzo 2013, n. 3, sul quale si fondava espressamente il provvedimento impugnato in primo grado, già sollevata in via principale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con ricorso rubricato sub Reg. ric. n. 59 del 2013 e pubblicato sulla G.U. del 29 maggio 2013, n. 22, nonché, in via incidentale, dal T.r.g.a. - Sezione autonoma di Bolzano con ordinanza del 14 novembre 2014 rubricata sub Reg. ord. n. 7 del 2015, pubblicata sulla G.U. del 18 febbraio 2015, n. 7 (con cui è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, oltre che del citato art. 3 l. prov. n. 3/2013, anche della disciplina successiva di cui all’art. 8, comma 4, l. prov. 23 ottobre 2014, n. 10), per contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera e), della Costituzione in relazione all’art. 31, comma 2, d.-l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella l. 22 dicembre 2011, n. 214, nonché con gli articoli 41 e 3 della Costituzione, tutt’ora pendenti dinanzi alla Corte costituzionale (cui si aggiungeva il ricorso principale proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con ricorso rubricato sub Reg. ric. n. 1 del 2015 e pubblicato sulla G.U. del 4 febbraio 2015, n. 5, avverso art. 8, comma 4, l. prov. 23 ottobre 2014, n. 10), disponendo di conseguenza la sospensione del giudizio in attesa della definizione dei giudizi di costituzionalità;

(vii) riservava alla sentenza definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese.

7. Dopo la declaratoria di inammissibilità delle questioni di illegittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, nell’ambito di entrambi i giudizi le parti appellanti presentavano istanza di fissazione d’udienza per la prosecuzione del giudizio ai sensi dell’art. 80 Cod. proc. amm.. Indi, all’udienza pubblica del 13 dicembre 2018 entrambe le cause sono state trattenute in decisione.

DIRITTO

8. Occorre premettere che, in caso di sentenza non definitiva con prosecuzione del giudizio per ulteriori incombenti processuali, il giudice resta da questa vincolato anche se non passata in giudicato formale (perché fatta oggetto di impugnazione immediata; nella specie, sarebbe astrattamente configurabile la proposizione del ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione e del ricorso per revocazione), sia in ordine alle questioni definite, sia in ordine a quelle che ne costituiscono il presupposto logico necessario (v. sul punto, ex plurimis, Cass. civ. 8 giugno 2007, n. 13513, con la precisazione che si tratta di principio generale del processo, applicabile anche al processo amministrativo ai sensi dell’art. 39, comma 1, Cod. proc. amm.), sicché le questioni definite con le statuizioni di valenza decisoria della sentenza non definitiva n. 3122/2018, quali individuate al § 10. di detta sentenza e riportate sopra sub §§ 6.(i), 6.(iii), 6.(iv) e 6.(v), esulano ormai dall’ambito oggettivo della presente fase processuale.

9. Nella presente sentenza definitiva devono essere affrontate, oltre alla questione dell’ammissibilità, o meno, dell’intervento ad opponendum spiegato in prima istanza, risolta dalla sentenza di primo grado in senso negativo con la statuizione sub § 1.5.3., devoluta al giudizio di secondo grado attraverso il motivo d’appello sub § 2.a) e oggetto della riserva di cui al § 7.2. della sentenza non definitiva quale riportata sopra sub § 6.(ii), i motivi assorbiti e non esaminati dal T.r.g.a, espressamente riproposti dall’originaria ricorrente Aspiag per gli effetti di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. amm. nella memoria depositata il 1° settembre 2016, contenenti le seguenti censure:

a) violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3, lettera c), l. prov. n. 3/2013, eccesso di potere per difetto di motivazione anche sotto il profilo della violazione di legge ex art. 7 l. prov. n. 17/1993, nonché eccesso di potere per sviamento di potere, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, deducendo che secondo la previsione dell’art. 3, comma 3, lettera c), l. prov. n. 3/2013 «sono fatte salve le strutture di vendita che all’entrata in vigore della presente legge sono già state autorizzate o hanno già iniziato legittimamente la loro attività nelle aree produttive nelle quali vengono vendute merci diverse da quelle elencate alla lettera a)», ed assumendo che l’attività di vendita in contestazione risulterebbe definitivamente legittimata dalla citata previsione normativa;

b) violazione dell’art. 1 l. prov. n. 7/2012 e degli artt. 3, comma 1, lettera c), d.-l. n. 223/2006 convertito nella legge n. 248/2006 e 31, commi 2 e 34, d.-l. n. 201/2011 convertito nella legge n. 214/2011, sotto il profilo dell’arbitraria restrizione delle tipologie di vendita insediabili nelle zone produttive, non più ammessa dalla citata disciplina statale e provinciale;

c) violazione della disciplina eurounitaria di cui agli artt. 49 e 54 TFUE, alla direttiva 2006/123/CE e al decreto legislativo di recepimento n. 59/2010, eccesso di potere per travisamento e difetto d’istruttoria, nonché violazione degli artt. 7 ss. l. n. 241/1990 e della l. prov. n. 17/1993;

d) illegittimità derivata del provvedimento impugnato per l’illegittimità costituzionale dell’art. 44/ter l. prov. n. 13/1997, quale introdotto dall’art. 3 l. prov. n. 3/2013, in riferimento agli artt. 3, 41, 42, 117, comma 2, lettere e) ed m), e 120 Cost., oltre che agli artt. 5 d.P.R. n. 670/1972 e 2 d.lgs. n. 266/1992, ponendosi il citato art. 44/ter l. prov. n. 13/1997 in contrasto con la legislazione statale che avrebbe regolamentato la materia in termini non compatibili con la disciplina provinciale.

10. I motivi sono infondati.

10.1. Destituito di fondamento, oltre che oscuro e non perspicuo, è il primo motivo sub § 9.a), presupponendo lo stesso l’esistenza di un valido titolo autorizzatorio, la cui formazione sub specie di S.c.i.a. è, invece, rimasta esclusa dalla sentenza non definitiva n. 3122/2017, né risultando in atti altro titolo autorizzatorio passibile di consolidamento dall’invocata previsione normativa di cui al sopra citato l’art. 3, comma 3, lettera c), l. prov. n. 3/2013.

10.2. In reiezione del secondo motivo sub § 9.b), occorre rilevare che le disposizioni, statali e provinciali, invocate dall’originaria ricorrente, laddove le stesse recano un divieto delle limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali (fatta salva la distinzione tra settore alimentare e non alimentare), rispettivamente della limitazione dell’esercizio dell’attività commerciale a determinate tabelle merceologiche, si riferiscono alla pianificazione commerciale in senso stretto, mentre, come si dirà in sede di esame dei motivi successivi, il censurato art. 3 l. prov. n. 13/2013, posto a base del provvedimento impugnato in primo grado, pone dei limiti in funzione di un ordinato e razionale assetto del territorio, in aderenza agli obiettivi compatibili con i parametri costituzionali e di diritto europeo.

10.3. Destituiti di fondamento sono altresì i motivi sub §§ 9.c) e 9.d), tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente.

10.3.1. Alla fattispecie dedotta in giudizio trova applicazione l’art. 44/ter l. prov. n. 13/1997 (l. urb. prov.), quale novellato dall’art. 3 l. prov. n. 3/2013, in vigore al momento dell’adozione del gravato provvedimento comunale di diniego del 27 gennaio 2014, espressamente basato sulla citata disposizione legislativa, mentre il precedente provvedimento di diniego del 2012 si fondava sulla disciplina previgente introdotta dall’art. 5 l. prov. n. 7/2012 e dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza Corte cost. n. 15 marzo 2013, n. 38.

Si precisa al riguardo che – tenuto conto della natura impugnatoria dei giudizi intentati da Aspiag avverso il provvedimenti di diniego del 2012 prima e il provvedimenti di diniego del 2014 poi, e considerato che i due giudizi (quello definito con la sentenza n. 348/2013, ormai passata in giudicato, avente ad oggetto il provvedimento di diniego del 2012, e il presente giudizio, vertente sul provvedimento di diniego del 2014) hanno ad oggetto provvedimenti tra di loro distinti, fondati su diversi presupposti normativi e diverse motivazioni, e si distinguono pertanto per la diversità degli elementi identificativi del thema decidendi – deve escludersi, anche sotto tale profilo, qualsiasi incidenza sul presente giudizio del giudicato formatosi sulla pronuncia annullatoria del provvedimento del 2012 (ciò, ad ulteriore precisazione del rilievo al riguardo svolto nella sentenza non definitiva n. 3001/2008, § 8.3., ultimo capoverso, pronunciata nell’ambito delle parallele cause riunite r.g. n. 5006/2016 e n. 5144/2016). Infatti, il T.r.g.a., nella sentenza n. 348/2013, di annullamento del provvedimento basato sulla normativa previgente dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza Corte cost. n. 38/2013, ha espressamente precisato che la legge applicabile, da individuare secondo il principio tempus regit actum, era quella in vigore al momento dell’emanazione del gravato provvedimento, ossia la l. prov. n. 7/2012, ed ha espressamente escluso l’applicabilità, al provvedimento ivi impugnato, della l. prov. n. 3/2013, in quanto entrata in vigore dopo l’adozione dell’atto di diniego del 2012.

10.3.2. Premesso che deve dunque escludersi qualsiasi incidenza sul presente giudizio del giudicato formatosi sulla sentenze n. 348/2013, si osserva che la novellazione dell’art. 44/ter l. prov. n. 13/1997 (l. urb. prov.), apportata dall’art. 3 l. prov. n. 3/2013, non può ritenersi meramente ripropositiva della disciplina previgente di cui al citato art. 5 l. prov. n. 7/2012, n. 7, dichiarato costituzionalmente illegittimo per contrasto con il disposto dell’art. 31, comma 2, d.-l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, e per il suo tramite con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

Infatti, secondo la disciplina previgente, il commercio al dettaglio nelle zone produttive era «ammesso solo in via di eccezione nei casi di seguito elencati» (comma 1 del citato art. 5), per il circoscritto catalogo di merci elencate nel comma 2 (con i relativi accessori, la cui determinazione era demandata alla Giunta provinciale: comma 3). Secondo la Corte costituzionale, per un verso «[i]l fatto stesso che al commercio al dettaglio nelle zone produttive sia attribuito carattere eccezionale rivela lo spessore della limitazione arrecata alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali, limitazione che incide direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, si risolve in un vincolo per la libertà d’iniziativa di coloro che svolgono, o che intendano svolgere, attività di vendita al dettaglio nelle zone produttive», e per altro verso «il disposto dell’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, (poi convertito), deve essere ricondotto nell’ambito della tutela della concorrenza, rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., norma in presenza della quale i titoli competenziali delle Regioni, anche a statuto speciale, in materia di commercio e di governo del territorio non sono idonei ad impedire l’esercizio della detta competenza statale (ex multis: sentenza n. 299 del 2012 citata, punto 6.1. del Considerato in diritto), che assume quindi carattere prevalente» (Corte cost., sent. n. 38/2013).

Per contro, l’art. 3 l. prov. n. 3/2013 (nella versione applicabile ratione temporis) qualifica l’esercizio del commercio al dettaglio non più come «eccezione», ma lo consente in linea di principio, sebbene «solo nel rispetto della tutela dell’equilibrato sviluppo dell’ambiente urbano e in armonia con la necessità di un organico e controllato sviluppo ambientale e del traffico, della tutela dell’ambiente, compreso l’ambiente rurale e cittadino, del paesaggio e della natura, della tutela dei monumenti e dei beni culturali, della salute e del diritto al riposo dei lavoratori e dei cittadini» (comma 1), attribuendo ai Comuni «[l]a valutazione e la decisione circa l’idoneità all’esercizio del commercio al dettaglio delle aree nelle zone produttive» sulla base degli indirizzi, criteri e modalità stabiliti con deliberazione della Giunta provinciale (comma 2). Con ciò, oltre all’inversione del rapporto regola/eccezione, è stato introdotto un elemento di flessibilità della disciplina, da gestire dalla Giunta provinciale e dai Comuni nel rispetto delle condizioni generali enunciate al comma 1, peraltro in sostanziale aderenza alla sopravvenuta (sia rispetto alla citata pronuncia della Corte costituzionale, sia rispetto alla l. prov. n. 3/2013) integrazione della disciplina statale di cui all’art. 31, comma 2, d.-l. n. 201/2011, convertito dalla legge n. 214/2011, ad opera dell’art. 30, comma 5-ter, d.-l. n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98/2013, affermativa della potestà/facoltà delle Regioni e degli enti locali di «prevedere al riguardo, senza discriminazione tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali», alle condizioni successivamente specificate dall’art. 22-ter, comma 1, d.-l. n. 91/2014, convertito dalla legge n. 116/2014, per cui tali limitazioni sono ammesse «solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali» (sulla portata ricognitiva delle menzionate integrazioni apportate all’art. 31, comma 2, d.-l. n. 201/2011, convertito dalla legge n. 214/2011, v. infra).

Al terzo comma dell’art. 3 l. prov. n. 3/2013 la limitazione del commercio al dettaglio nelle zone produttive alle categorie di merci ivi specificate con relativi accessori (merci ingombranti, quali automobili e motoveicoli, macchine edili, macchinari e prodotti per l’agricoltura, materiali edili, macchine utensili e combustibili, mobili e bevande in confezioni formato all’ingrosso e relativi accessori) è stata riproposta in via meramente transitoria, fino all’adozione della delibera della Giunta provinciale e l’individuazione delle aree idonee da parte dei Comuni, assumendo pertanto una funzione di norma di salvaguardia, rispondente ai principi di ragionevolezza e proporzionalità.

Deve pertanto escludersi la natura meramente ripropositiva della disciplina introdotta dall’art. 3 l. prov. n. 3/2013, rispetto a quella dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza Corte costituzionale n. 38/2013.

10.3.3. Ciò posto, ritiene il Collegio che, ancorché la sentenza Corte costituzionale n. 9/2018 – con la quale sono state dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sia dell’art. 44/ter, comma 3, l. prov. n. 13/1997, come novellato dall’art. 3 l. prov. n. 3/2013, in riferimento agli artt. 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost., sia degli artt. 44 (come novellato dall’art. 8 l. prov. n. 10/2014) e 44/bis (che prevede la realizzazione di un unico centro commerciale di rilevanza provinciale) della legge urbanistica provinciale in riferimento agli artt. 41 e 117, secondo comma, lettera e), Cost., sollevate dal T.r.g.a. - Sezione autonoma di Bolzano con l’ordinanza indicata sopra sub § 6.(vi) – si sia risolta in una pronuncia in rito, la stessa sia tuttavia valorizzabile in via interpretativa, laddove viene affermato che, nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, sono intervenute «plurime e significative novità normative». Tale rilievo viene, dalla Corte costituzionale, segnatamente riferito al d.lgs. 7 luglio 2016, n. 146 (Norma di attuazione dello Statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di pianificazione urbanistica del settore commerciale, recante modifiche e integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica del 22 marzo 1974, n. 381, in materia di urbanistica ed opere pubbliche), che ha introdotto nel d.P.R. n. 381/1974 l’articolo 40, a norma del quale «[l]e Province autonome di Trento e di Bolzano assicurano la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura, salvo quanto disposto dai commi successivi» (primo comma); «[a]l fine di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, dei beni culturali, il governo del territorio e il mantenimento e la ricostruzione del tessuto commerciale tradizionale nonché la tutela della vivibilità dei centri storici, le province possono anche prevedere, senza discriminazione tra gli operatori e nel rispetto del principio di proporzionalità, aree interdette agli esercizi commerciali e limitazioni per l’esercizio del commercio nelle zone produttive» (secondo comma); «[l]e province, in relazione alla specificità topografica montana del territorio e alle particolari tradizioni che ne rappresentano l’identità, possono adottare misure di salvaguardia e riqualificazione delle attività commerciali, anche mediante piani di incentivazione purché si rispettino i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo in tema di aiuti di Stato» (terzo comma).

Pertanto, ancorché la norma di attuazione sia entrata in vigore successivamente all’adozione dell’impugnato provvedimento di diniego (marzo 2014) e alla l. prov. n. 3/2013, la Corte costituzionale ha qualificato la stessa come «significativa novità normativa», con ciò ‘conformando’ le valutazioni da compiere dal giudice a quo nel vaglio della non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in ordine alla previgente disciplina provinciale, nel cui contesto dunque assurge a rilevanza, quale parametro valutativo, anche la sopravvenuta norma di attuazione. Infatti, premesso che le norme d’attuazione dello statuto speciale assolvono anche ad una funzione interpretativa e integrativa della disposizioni statutarie, al fine di individuare la sfera di competenza della Regione e delle Province autonome, si osserva che nel caso di specie il d.lgs. n. 146/2016 ha effettuato una ricognizione/precisazione dell’ambito statutario di competenza in materia di governo del territorio, di cui la Provincia autonoma di Bolzano già era titolare (ex art. 8, nn. 3, 5 e 6 dello statuto speciale approvato con d.P.R. n. 670/1972), e che aveva già legittimamente esercitato con la l. prov. n. 3/2013, consentendo la potestà legislativa attribuita alle province autonome l’adozione di disposizioni concernenti l’uso del territorio anche in senso limitativo delle tipologie di attività commerciali consentite sulle aree produttive. La nuova norma di attuazione non ha, peraltro, fatto altro che sostanzialmente trasporre, su un piano para-costituzionale, la disciplina già prevista dall’art. 30, comma 5-ter, d.-l. n. 69/2013, con riferimento ai parametri che legittimano limitazioni all’insediamento di esercizi commerciali anche da parte delle Regioni a statuto ordinario: disposizione legislativa statale, cui pure va attribuita valenza ricognitiva dell’assetto competenziale preesistente tra Stato e Regioni, al punto d’incontro tra la materia di portata trasversale della tutela della concorrenza e la materia di gestione del territorio inteso in senso lato. Infatti, la possibilità rimessa al legislatore regionale di regolare le zone adibite alle attività commerciali attraverso gli strumenti di governo del territorio è conforme a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 200/2012, secondo cui la liberalizzazione è da intendersi come «razionalizzazione della regolazione», compatibile con il mantenimento dei limiti e/o oneri necessari alla tutela di superiori beni costituzionali. La Corte costituzionale ha, invero, ripetutamente affermato che l’art. 31 d.-l. n. 201/2011 consente di introdurre limiti alla apertura di nuovi esercizi commerciali per ragioni di tutela dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e attribuisce alle Regioni la possibilità di prevedere anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali, sicché la previsione, per gli insediamenti di maggiore dimensione (in particolare, per le grandi strutture di vendita), di zonizzazioni commerciali negli strumenti urbanistici generali e nei piani attuativi rientra proprio in quegli spazi di intervento regionale che lo stesso legislatore statale, con il citato art. 31 d.-l. n. 201/2011 (come integrato dalle disposizioni di precipua valenza ricognitiva di cui ai decreti legge n. 69/2013 e n. 91/2014), ha salvaguardato a condizione che tale zonizzazione non si traduca nell’individuazione di aree precluse allo sviluppo di esercizi commerciali in termini assoluti e che le finalità del dimensionamento della funzione commerciale e dell’impatto socio-economico siano volte alla cura di interessi di rango costituzionale, indicati nella medesima disposizione (v., per tutte, Corte cost. n. 239/2016).

Peraltro, lo stesso Governo, nella motivazione posta a base dell’atto di rinuncia al ricorso proposto in via principale avverso la disciplina provinciale – che ha condotto alla declaratoria di estinzione, con l’ordinanza Corte cost. n. 187/2018, del processo instaurato con il ricorso rubricato sub Reg. ric. n. 59 del 2013 e pubblicato sulla G.U. del 29 maggio 2013, n. 22 –, ha tra l’altro addotto la sopravvenienza normativa costituita dalla norma di attuazione approvata con il d.lgs. n. 146/2016, ricognitiva della potestà legislativa delle Province autonome di prevedere, in presenza di determinate esigenze, limitazioni a nuovi insediamenti commerciali al dettaglio senza discriminazioni tra operatori.

Ebbene, posto che la disciplina di cui all’art. 3 l. prov. n. 3/2013, nella parte in cui prevede la possibilità per i Comuni di introdurre limiti territoriali all’esercizio del commercio al dettaglio, con particolare riguardo all’esercizio del commercio al dettaglio nelle zone produttive, non persegue finalità pianificatorie di natura puramente economica, bensì finalità vòlte a una razionale e ordinata gestione dell’intero assetto territoriale, «nel rispetto della tutela dell’equilibrato sviluppo dell’ambiente urbano e in armonia con la necessità di un organico e controllato sviluppo ambientale e del traffico, della tutela dell’ambiente, compreso l’ambiente rurale e cittadino, del paesaggio e della natura, della tutela dei monumenti e dei beni culturali, della salute e del diritto al riposo dei lavoratori e dei cittadini» (comma 1), la stessa non si pone in contrasto né con la disciplina statale, né con l’assetto competenziale disciplinante il rapporto tra Stato e Province autonome, quale definito, con valenza ricognitiva/interpetativa, dall’art. 1 d. lgs. n. 146/2016.

Alla luce delle considerazioni sopra svolte, deve dichiararsi la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate da Aspiag con le censure all’esame.

10.3.4. Né la disciplina provinciale in contestazione può ritenersi in contrasto con il diritto eurounitario.

Va osservato anzitutto che la normativa europea non è contraria in assoluto all’introduzione di disposizioni restrittive, che prevedano vincoli territoriali alla libertà di stabilimento dei prestatori e alla libera circolazione dei servizi, purché siano rispettate le condizioni previste dall’art. 15, paragrafo 3, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno.

Le condizioni che le restrizioni devono rispettare ai sensi della disposizione sopra citata sono, per quanto qui interessa:

(i) il requisito della «necessità: i requisiti sono giustificati da un motivo imperativo di interesse generale»;

(ii) il requisito della «proporzionalità: i requisiti devono essere tali da garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito; essi non devono andare al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo; inoltre non deve essere possibile sostituire questi requisiti con altre misure meno restrittive che permettono di conseguire lo stesso risultato».

La nozione di «motivi imperativi di interesse generale», di cui sopra sub (i), è stata progressivamente elaborata dalla Corte giust. UE nella propria giurisprudenza relativa agli articoli 43 (oggi, art. 49) e 49 (oggi, art. 55) del Trattato, richiamata dal ‘Considerando’ n. 40 e dall’art. 4, n. 8), della direttiva.

In particolare, il ‘Considerando’ n. 40 contempla tra i menzionati motivi imperativi di interesse generale «la protezione dell’ambiente e dell’ambiente urbano, compreso l’assetto territoriale in ambito urbano e rurale».

La Corte di giustizia UE, in un caso del tutto analogo a quello qui trattato (CGUE, Grande Sezione, sentenza 30 gennaio 2018, nelle cause riunite C-360/15 e C-31/16), ha affermato il principio che «[l]’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che norme contenute in un piano regolatore di un comune vietino l’attività di vendita al dettaglio di prodotti non voluminosi in aree geografiche situate al di fuori del centro cittadino di tale comune, purché siano rispettate tutte le condizioni previste dall’articolo 15, paragrafo 3, di tale direttiva, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare» (v., così, testualmente, il punto 4 del dispositivo della sentenza), con ciò statuendo che, in funzione e nell’ambito della disciplina dell’assetto del territorio, possano essere introdotte previsioni restrittive della libertà di stabilimento, finalizzate a contrastare l’abbandono dei centri urbani da parte delle imprese di commercio e a preservare le aree destinate primariamente all’attività produttiva.

Ebbene, rileva il Collegio che gli obiettivi enunciati dal legislatore provinciale nel comma 1 dell’art. 3 l. prov. n. 3/2013 – in particolare, dichiaratamente vòlti alla «tutela dell’equilibrato sviluppo dell’ambiente urbano e in armonia con la necessità di un organico e controllato sviluppo ambientale e del traffico» e alla «tutela dell’ambiente, compreso l’ambiente rurale e cittadino, del paesaggio e della natura» –, oltre a rispondere ai principi di non discriminazione e di proporzionalità (quest’ultima, ulteriormente garantita dalla sopra rilevata flessibilità del sistema impositivo di eventuali limitazioni e dalla natura transitoria e di salvaguardia della previsione del comma 3 del citato articolo di legge), rientrano all’evidenza nella nozione di «motivi imperativi di interesse generale» quale elaborata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Infatti, con riferimento concreto all’assetto territoriale provinciale, la disciplina restrittiva dell’insediamento di esercizi di commercio al dettaglio nelle zone produttive mira a contrastare l’abbandono dei centri urbani da parte delle imprese di commercio, a preservare le aree destinate primariamente all’attività produttiva, a contenere lo sfruttamento del suolo quale bene comune e risorsa limitata non rinnovabile in un territorio quale quello della provincia di Bolzano, per la sua configurazione geografica e idrogeologica connotato da un’estrema scarsità di aree edificabili, e a preservare la vitalità dei centri abitati in funzione della stabilità della popolazione e la vivibilità anche negli insediamenti abitativi periferici, ossia al conseguimento di obiettivi imperativi di interesse generale che, secondo il diritto eurounitario, giustificano eventuali limitazioni alla libertà di stabilimento (nella specie, di esercizi commerciali al dettaglio).

Alla luce delle considerazioni tutte sopra svolte, la richiamata normativa provinciale, applicabile ratione temporis alla fattispecie provvedimentale dedotta in giudizio, appare quindi conforme anche ai principi stabiliti dalla normativa europea, come interpretata dalla recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE.

Risultando la questione di compatibilità con il diritto europeo sostanzialmente identica ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale della Corte di giustizia ed essendosi sul punto di diritto controverso formato un indirizzo ormai costante della Corte medesima (v., oltre alla sentenza sopra citata, CGUE, sentenza 24 marzo 2011, nella causa C-400/08), in applicazione della c.d. teoria dell’acte éclairé non si ravvisano i presupposti per un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE. Invero, pur essendo questo Consiglio di Stato giudice di ultima istanza per gli effetti dell’obbligo di rimessione alla Corte europea sancito dall’art. 267, comma 3, TFUE, tale obbligo resta escluso nelle ipotesi in cui la questione sollevata sia materialmente identica ad altra sollevata in relazione ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale della Corte, o la giurisprudenza costante della Corte risolva il punto di diritto controverso, indipendentemente dalla natura del procedimento in cui tale giurisprudenza si sia formata (c.d. teoria dell’acte éclairé); ipotesi che, alla luce della sopra riportata giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di limiti al commercio al dettaglio per motivi imperativi di interesse generale, ricorrono nel caso di specie.

Devono, pertanto, essere respinti anche i riproposti profili di censura con cui l’originaria ricorrente ha dedotto il contrasto della disciplina provinciale con il diritto eurounitario.

11. Le considerazioni sopra svolte in ordine alla compatibilità della disciplina provinciale con i parametri costituzionali che qui vengono in rilievo e con il diritto eurounitario comportano – a scioglimento della riserva di cui al § 7.1. della sentenza non definitiva n. 3122/2017 – l’accoglimento del primo motivo d’appello sub § 2.a), dedotto da Podini Holding e Twentyone avverso la statuizione dell’appellata sentenza, con la quale l’intervento ad opponendum spiegato dalle predette in primo grado era stato dichiarato inammissibile con la motivazione che le stesse sarebbero titolari di un mero interesse economico di fatto, e non già di un interesse giuridico legittimante l’intervento, poiché «la normativa, comunitaria e nazionale (così come interpretata dalla Corte Costituzione nella sentenza n. 38/2013), è tutta improntata alla liberalizzazione delle attività economiche ed al bando di situazioni di monopolio che gli intervenienti tendono invece a difendere» e «l’intervento nel processo a difesa di semplici interessi economici ‘contra ius’ è inammissibile» (v. così, testualmente, l’impugnata sentenza).

Infatti, la qui accertata compatibilità della disciplina provinciale di cui all’art. 3 l. prov. n. 3/2013 con il quadro costituzionale e con il diritto europeo fa venir meno il presupposto sulla cui base l’intervento è stato dichiarato inammissibile dal T.r.g.a., dovendosi invero gli operatori del settore di mercato delle grandi strutture di vendita al dettaglio (tra cui Podini Holding e Twentyone), che esercitano la loro attività d’impresa in concorrenza con l’originaria ricorrente Aspiag nell’ambito del medesimo bacino d’utenza (di portata provinciale), ritenere titolari non già di un mero interesse di fatto, bensì di una situazione giuridica qualificata, in riferimento alle questioni inerenti alla legittimità, o meno, del diniego dell’autorizzazione commerciale richiesta dall’impresa concorrente. Al riguardo, questo Collegio aderisce all’orientamento della giurisprudenza amministrativa per cui, al fine di individuare il novero dei soggetti legittimati ad impugnare degli atti aventi ad oggetto l’esercizio di attività commerciali (rispettivamente ad intervenire ad opponendum in giudizio, a seconda della concreta costellazione processuale), il requisito della vicinitas in senso spaziale deve essere trasferito nell’ambito della nozione di bacino commerciale, ossia dell’area in cui si dispiega l’influenza economica del concorrente ed è quindi idonea a incidere sulle posizioni di mercato del controinteressato (in caso di provvedimento di accoglimento) o rispettivamente ricorrente (in caso di provvedimento di diniego), rapportandosi, in tale settore, la rilevanza della posizione del ricorrente (o, rispettivamente, dell’interveniente ad opponendum) all’interesse a un regolare svolgimento della concorrenza, tale da non ledere illegittimamente la posizione di un altro operatore nel proprio settore di mercato (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 7 maggio 2015, n.2324).

Ne consegue, altresì, la legittimazione di Podini Holding e Twentyone, nella veste di rituali intervenienti ad opponendum in primo grado, a proporre appello autonomo avverso la sentenza di accoglimento del T.r.g.a., con riferimento a tutte le relative statuizioni.

12. Conclusivamente, gli appelli in epigrafe devono essere accolti, con la conseguenza che, in riforma dell’appellata sentenza, deve essere respinto il ricorso di primo grado.

A fronte dell’infondatezza del ricorso nel merito, restano assorbite le ulteriori questioni processuali dedotte in giudizio, ivi comprese le questioni attinenti all’ammissibilità, o meno, dell’intervento ad adiuvandum spiegato nel presente giudizio d’appello dall’associazione di categoria indicata in epigrafe, attesa l’ininfluenza causale sull’esito del presente giudizio e, in particolare, sulle statuizioni di merito della presente sentenza definitiva.

13. Tenuto conto di ogni circostanza connotante la presente controversia, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare le spese del doppio grado di giudizio interamente compensate tra tutte le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli come in epigrafe proposti e tra di loro riuniti (ricorsi n. 5019 del 2016 e n. 5141 del 2016), li accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, respinge il ricorso di primo grado; dichiara le spese del doppio grado di giudizio interamente compensate tra tutte le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2018 con l'intervento dei magistrati:

Sergio Santoro, Presidente

Bernhard Lageder, Consigliere, Estensore

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Francesco Gambato Spisani, Consigliere

Stefano Toschei, Consigliere



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Bernhard Lageder Sergio Santoro





IL SEGRETARIO


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