[b][size=18pt]Danno da mancata aggiudicazione: il punto del Consiglio di Stato[/size][/b]
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[b]Consiglio di Stato, sez. V – sentenza 23 agosto 2019 n. 5803[/b]
DIRITTO
1.- L’appello è infondato e merita di essere respinto.
2.- Importa premettere che, sotto un primo profilo, la sentenza impugnata – dopo aver inquadrato la proposta domanda risarcitoria tra quelle derivanti dalla impossibilità, per ragioni non imputabili alla parte danneggiata, di dar corso all’ottemperanza, relativamente all’obbligo di aggiudicare il contratto (cfr. Cons. Stato, ad. plen. n. 2/2017) – ha disconosciuto il rivendicato lucro cessante, sull’assunto che l’appellante non avrebbe fornito, incombendogliene il relativo onere, la dimostrazione della assenza di proventi derivanti dalla alternativa utilizzazione delle proprie risorse economiche (c.d. aliunde perceptum vel percipiendum).
Sul punto, l’appellante imputa alla decisione di aver trascurato la puntuale e documentata allegazione, affidata ad apposito ed argomentato elaborato peritale, delle voci di perduto utile riconnesse alla mancata aggiudicazione dell’appalto, con la quale essa avrebbe sostanzialmente e puntualmente assolto ai propri oneri probatori.
3.- Osserva il Collegio che, [color=red][b]in relazione ai presupposti per il riconoscimento del danno da mancata aggiudicazione[/b][/color], la giurisprudenza è concorde nel puntualizzare (giusta le cadenze argomentative da ultimo riassunte dalla richiamata decisione dell’adunanza plenaria n. 2/2017, peraltro riferita proprio ad una fattispecie impraticabile esito esecutivo conformativo) che:
a) ai sensi degli art. 30, 40 e 124, 1° comma, cod. proc. amm., [b]il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto[/b];
b) [b]nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo[/b], che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto): non essendo, invero, dubitabile che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante) possa essere, comunque, fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti;
c)[b] spetta all’impresa danneggiata offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito[/b], qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, 1° e 3° comma, cod. proc. amm.); quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato, la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, 1° comma, c.c.;
d) [b]la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno[/b];
e) [b]le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio[/b] neppure nel caso di consulenza cosiddetta «percipiente», che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
f) [b]la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni[/b]; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre, peraltro, che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
g) [b]va esclusa la pretesa di ottenere l’equivalente del dieci per cento dell’importo a base d’asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata[/b] (non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l’importo a base d’asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al dieci per cento del detto importo);
h) [b]anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento[/b] che asserisce di aver subìto (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somma liquidata a titolo di lucro cessante.
Sui riassunti principi, si riscontra diffusa concordia, peraltro sostanzialmente condivisa, nel caso di specie, dallo stesso appellante, che non li sottopone a specifico vaglio censorio.
[color=red][b]3.1. – Più complesso (e tradizionalmente foriero di maggiori incertezze), è l’ulteriore principio, corollario delle poste premesse di ordine generale, secondo cui il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa: in difetto di tale dimostrazione, potendo presumersi che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe comechessia potuto riutilizzare, usando l’ordinaria diligenza dovuta al fine di non concorrere all’aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum.[/b][/color]
Invero, tale ripartizione dell’onere probatorio in materia di aliunde perceptum ha sollevato in dottrina (come la stessa plenaria non ha mancato di osservare) alcune perplessità, tra l’altro avvalorate dal pacifico orientamento della Corte di cassazione secondo cui, costituendo l’aliunde perceptum vel percipiendum un fatto impeditivo (in tutto o in parte) del diritto al risarcimento del danno, il relativo onere probatorio graverebbe sul danneggiante (del resto, negli stessi sensi, nella giustizia amministrativa, è la posizione assunta, per esempio, da Cons. Stato, sez. IV, 14 marzo 2016, n. 992; Id., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611; contra, invece, Cons. Stato, sez. III, 17 novembre 2015, n. 5255 e Id., sez. V, 9 dicembre 2013, n. 5884).
Sul punto, peraltro, l’adunanza plenaria, nella consapevolezza del contrasto, ha ritenuto che, anche a volersi convenire con la ragionevole considerazione che l’aliunde perceptum costituisca un fatto impeditivo del danno, non potrebbe addivenirsi a diversa conclusione in relazione al settore degli appalti. E ciò per un duplice ordine di considerazioni (che valorizza, ai fini probatori, il contesto relazionale tra le parti coinvolte dalla vicenda risarcitoria: non a caso, sotto questo profilo, l’orientamento della giurisprudenza civile è essenzialmente maturato in relazione a rapporti di lavoro subordinato, in cui gioca l’esigenza di salvaguardia della posizione di debolezza del lavoratore).
In primo luogo, non può negarsi, secondo la plenaria, che, ai fini della sussistenza dell’aliunde perceptum, possa essere invocato il meccanismo della presunzione (semplice). In forza di tale meccanismo può quindi individuarsi una presunzione in tal senso, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili.
Pertanto,[color=red][b] in mancanza di prova contraria, che l’impresa che neghi l’aliunde perceptum può fornire anche (e, si direbbe, tipicamente) sulla base dei libri contabili, deve ritenersi che essa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, dovendosi quindi sottrarre al danno subìto per la mancata aggiudicazione l’aliunde perceptum, calcolato in genere in via equitativa e forfettaria.[/b][/color]
Del resto – sotto un secondo profilo – [b]nell’ambito delle gare d’appalto tale conclusione risulta avvalorata dalla distinta, concorrente circostanza che, da un lato, non risulta ragionevolmente predicabile la condotta dell’impresa che immobilizza le proprie risorse in attesa dell’aggiudicazione di una commessa, o nell’attesa dell’esito del ricorso giurisdizionale volto ad ottenere l’aggiudicazione, atteso che possono essere molteplici le evenienze per cui potrebbe risultare non aggiudicataria della commessa stessa (il che corrobora la evocata presunzione); dall’altro che, ai sensi dell’art. 1227, 2° comma, c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno, sicché il comportamento inerte dell’impresa ben può assumere rilievo in ordine all’aliunde percipiendum (cfr. Cons. Stato, sez. V, 9 dicembre 2013, n. 5884; Id. 27 marzo 2013, n. 1833; Id., 7 giugno 2013, n. 3155; Id., 8 novembre 2012, n. 5686).[/b]
Tale orientamento — assolutamente prevalente, sia pure con sfumature diverse in punto di motivazione (tra le varie: Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5531; sez. VI 15 ottobre 2012, n. 5279) — consente del resto di evitare che la sentenza che vede l’impresa vittoriosa diventi occasione e strumento di ingiusta locupletazione.
3.2.- Opina il Collegio che l’adeguamento alle riassunte coordinate ermeneutiche – alle quali il primo giudice si è consapevolmente e pedissequamente rifatto – merita di essere confermato.
Ne discende, in via di principio, che [color=red][b]il riconoscimento del lucro cessante deve ritenersi subordinato:[/b][/color]
[b]a) all’assolvimento, in positivo, di un preciso onere probatorio, inteso a dimostrarne, anche per via indiziaria, la consistenza, avuto riguardo alle caratteristiche dell’appalto, al mercato di riferimento, alle condizioni operative dell’impresa, alle dimensioni organizzative, alle risorse reali e finanziarie disponibili, alle multiformi peculiarità della fattispecie;[/b]
[b]b) alla dimostrazione, in negativo, anche qui per via indiziaria (e, per esempio, mediante la non disagevole allegazione dei libri contabili) della mancata interinale utilizzazione delle proprie risorse reali e personali e della obiettiva ed involontoria immobilizzazione delle stesse, nonché della diligente condotta imprenditoriale, preordinata a non trascurare occasioni di utile impiego, nell’esclusivo e non commendevole intento di aggravare il danno da mancata aggiudicazione.[/b]
3.3.- Nella specie, la lettura dell’elaborato peritale, al quale l’appellante affida i suoi argomenti, non conforta in ordine alla postulata immobilizzazione forzosa delle risorse, assunta a criterio (meramente astratto e, nei sensi chiariti, non contestualizzato) di quantificazione del danno rivendicato.
Deve, con ciò, presumersi – alla luce delle esposte premesse – che la società appellante abbia, secondo l’id quod plerumque accidit e, comunque, alla luce dell’evidenziato onere di non aggravamento (per sé in grado di elidere il danno suscettibile di ristoro, ex art. 1227 c.c.), utilizzato diversamente personale, beni e capitali (della cui consistenza e composizione non viene data specifica contezza). Con ciò, appare lecito presumere che alcun utile avrebbe potuto prospetticamente conseguire dall’appalto non aggiudicato (legittimandosi, in considerazione della complessiva, ridotta dimensione dell’impresa, la presunzione di integrale utilizzazione delle risorse disponibili e palesandosi, con ciò, non arbitrario argomentare l’integrale elisione, piuttosto che la semplice decurtazione, del lucro prospetticamente ricavabile dalla esecuzione dell’appalto per cui è causa).
L’esito dell’apprezzamento del primo giudice, per tal via, per quanto obiettivamente penalizzante, trae giustificazione – nel contesto di un apprezzamento equitativo (art. 1226), inteso nel senso del rigoroso ancoraggio allo specifico contesto di maturazione del danno – dal preciso e circostanziato onere gravante sugli operatori economici qualificati, di dare analitico conto (ai fini del prospettico apprezzamento delle occasioni di guadagno effettivamente perdute in forza della mancata esecuzione del contratto aggiudicato) della specifica, ancorché eventuale, destinazione alternativa impressa ai fattori della produzione, la cui non espandibilità illimitata è ragione di riduzione o, in contesti dimensionali limitati, sterilizzazione di aspettative insuscettibili di serio e comprovato conseguimento.
Per questo profilo, l’appello deve, in definitiva, ritenersi non fondato.
4.- Fermo restando l’avvenuto riconoscimento del danno curriculare, nella complessiva misura di € 5.000, sul quale non vengono formulate specifiche contestazioni, deve parimenti ritenersi corretto il disconoscimento del danno emergente.
Come è noto, nelle gare pubbliche il danno emergente può essere risarcito esclusivamente in caso di illegittima esclusione, e non anche quando – come nella fattispecie – il danno deriva prospetticamente dalla mancata aggiudicazione: ciò in base alla considerazione che nella liquidazione del lucro cessante è già ricompresa la remunerazione del capitale impiegato per la partecipazione alla gara e tenuto conto che l’impresa che risulti vincitrice di una gara non potrebbe comunque ottenere il rimborso dei costi sostenuti per la partecipazione alla gara.
Non osta alla applicazione, per quanto rigorosa, del riassunto criterio, il rilievo che, per quel che precede, il lucro cessante non sia stato, di fatto, riconosciuto. Invero – trattandosi di questione giuridica e non fattuale – la mancata liquidazione del lucro cessante, per ragioni di ordine eminentemente probatorio, non vale ad escludere l’obiettiva incompatibilità tra la richiesta dell’utile e il rimborso delle spese sostenute per la partecipazione alla gara.
Beninteso, ciò non significa che il ristoro del danno emergente non possa invocarsi nella diversa prospettiva della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: si tratta, però, di diverso titolo e di alternativa causa petendi (ancorata alla allegazione e dimostrazione della violazione, in concreto, dei canoni di correttezza nella fase formativa del consenso negoziale o nel contesto della complessiva vicenda relazionale: cfr. art. 1337 c.c.), che non risultano formalizzati.
5.- Parimenti infondata è l’ulteriore doglianza, relativa al disconoscimento, per omissione, di interessi e rivalutazione: trattandosi di somme dovute a titolo accessorio, il mancato riconoscimento delle rivendicate poste risarcitorie costituisce ragione sufficiente per negarne la spettanza.
6.- Ugualmente infondata la censura con la quale l’appellante si duole della avvenuta compensazione, in prime cure, del carico delle spese di lite.
Di là da ogni altro rilievo, il solo parziale accoglimento della domanda costituiva sufficiente e ragionevole giustificazione della operata opzione compensatoria, alla luce dei principi operanti in caso di soccombenza parziale.
7.- La complessiva infondatezza dell’appello principale, argomentata nei complessivi sensi che precedono, vale ad esimere il Collegio dalla disamina dell’appello incidentale, formalizzato dal Comune intimato.
Sussistono, ad avviso del Collegio, giustificate ragioni per disporre, tra le parti, l’integrale compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.