Data: 2012-04-24 19:27:41

La tutela del tempo del cittadino contro i ritardi della p.a.

La tutela del tempo del cittadino contro i ritardi della p.a.*

di Paola Maria Zerman- Avvocato dello Stato



In un contesto internazionale in cui la credibilità degli Stati come operatori economici si gioca in buona parte sui tempi rapidi di pagamento da parte delle Pubbliche amministrazioni e sui tempi certi dell’agire amministrativo (e quindi di conclusione dei procedimenti) non c’è da stupirsi che il “fattore tempo” come bene della vita diventi sempre più rilevante sia nelle aule giudiziarie, ai fini risarcitori, che nell’opera del legislatore. In quest’ottica va vista quindi la recente modifica della disciplina sull’inerzia della p.a. contenuta nell’art. 1 del d.l. 5 del 2012, convertito in l. del 4.4.2012 n. 35,  recante “misure urgenti in materia di semplificazione e sviluppo”, in corso di conversione. Con la modifica all’art. 2 della legge 241/1990, il legislatore, infatti, mette alle strette le pubbliche amministrazioni prevedendo un meccanismo accentrato di potere sostitutivo al fine della conclusione dei procedimenti, come meglio sarà in seguito descritto.



Illecito da ritardo e azione risarcitoria



Inizialmente regolata dall’art. 2 bis della l. 241/90 (introdotto dalla l. 69 del 2009), la disciplina dell’azione risarcitoria dell’illecito da ritardo trova ora la sua collocazione nel Codice del processo amministrativo -per intuibili ragioni sistematiche-, in base al disposto dell’art. 133, che assegna la materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (lett. a) n.1 ), e all’art. 30, comma 4, il quale prescrive che l’azione “per il risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” debba essere proposta nel termine di decadenza di centoventi giorni (così come quella da lesione da interessi legittimi) che inizia, però, a decorrere “dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere”. Il termine decadenziale, piuttosto contenuto, sostituisce l’originaria previsione dell’azione risarcitoria nei termini prescrizionali di cinque anni, previsti dal comma secondo dell’art. 2 bis, ora abrogato dal codice del processo. Rimane in vita la previsione dell’illecito prevista dal primo comma dell’art. 2 bis, a mente del quale le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative “sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. La normativa processuale conferma la configurazione dell’illecito da ritardo procedimentale, come extracontrattuale, con l’onere, quindi, da parte del danneggiato, di provare non solo il danno, ma anche la sua connessione causale con il ritardo della p.a. e l’elemento soggettivo (dolo o colpa) in capo alla medesima, ai sensi dell’art. 2043 c.c.



L’illecito extracontrattuale da ritardo procedimentale-ex art. 2 bis- nella posizione della giurisprudenza.



Come avviene nel più ampio ambito del risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo, dove, in ragione della riferibilità allo schema della responsabilità extracontrattuale, l’emanazione di un atto illegittimo costituisce solo il presupposto dell’illecito, a cui deve però aggiungersi l’esistenza del danno, il nesso causale tra atto illegittimo e danno , nonché l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, egualmente nell’illecito da ritardo, quest’ultimo rappresenta solo “il punto di partenza” per ottenere il risarcimento. Il privato, infatti, deve dimostrare, come risulta chiaro sia dalla norma sostanziale dell’art. 2 bis l. 241/90 che dalle norme processuali: 1) l’esistenza del danno; 2) il nesso causale tra il ritardo procedimentale e il danno; 3) il dolo o la colpa della p.a.. Altra questione, all’esame della giurisprudenza, è quella relativa alla valenza da attribuire all’ingiustizia del danno (richiamata sia dalla norma sostanziale –art. 2 bis- che da quelle processuali in quanto essenziale connotazione dell’illecito extracontrattuale), e cioè se essa sia riferibile alla sola perdita di tempo prezioso da parte del privato, specie se imprenditore, ovvero se debba altresì correlarsi alla spettanza del bene della vita richiesto dal privato (autorizzazione, concessione, contributi ecc.). Dall’entrata in vigore della norma, la giurisprudenza amministrativa si è confrontata a più riprese con richieste risarcitorie connesse all’inerzia della p.a., e sta progressivamente elaborando i parametri valutativi a cui ancorare i singoli elementi costitutivi dell’illecito.



a)    L’inosservanza del termine di conclusione del procedimento



Il primo elemento costitutivo dell’illecito è rappresentato dall’inosservanza del termine per provvedere, individuato normalmente in un massimo di 90 giorni, salvo procedimenti particolarmente complessi (art. 2, comma 3 e 4, sempre che non si applichi quello di 30 giorni stabilito dal comma 2 ove le p.a. non abbiano provveduto all’individuazione di termini diversi). I termini, però, possono essere sospesi, “per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni” (art. 2 comma 7).

Il ritardo rilevante, è quello in cui la p.a. sia tenuta all’emanazione di un provvedimento espresso, ipotesi che si verifica quando il procedimento “consegua obbligatoriamente ad un’istanza ovvero debba essere iniziato d’ufficio”. A evidenziarlo è non solo l’ art. 2 l. 241/90 ma anche la norma processuale (art. 30 comma 2 C.p.a.), la quale prevede che possa essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante non solo dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, ma anche “dal mancato esercizio di quella obbligatoria”. Obbligo, peraltro, già inteso in senso ampio dal Consiglio di Stato dacché, “indipendentemente dall’esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un’esplicita pronuncia” (Cons. Stato Sez. VI, n. 2318/2007). E, più di recente, ampliato al punto (Tar Emilia Romagna, sez. Parma sent. 103/2012) da ritenersi configurabile l’illecito, nel colpevole ritardo di un Comune nell’annullare in autotutela -(atto discrezionale non soggetto a termine se non quello “ragionevole” previsto dall’art. 21 noniesdella l. 241/90)- i precedenti atti inibitori di realizzazione di opere ritenute abusive. E ciò sulla base della considerazione, ormai diffusa nelle pronunce in argomento, che il fattore tempo costituisce una variabile essenziale nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica a maggior ragione in presenza della qualità imprenditoriale della parte ricorrente.



b)    La prova del danno ingiusto: il tempo è veramente bene della vita?



Come innanzi detto, delicato e cruciale è il problema connesso alla individuazione della ingiustizia del danno risarcibile, e cioè se esso sia connesso al danno risentito dal privato a seguito dell’inerzia della p.a., indipendentemente dal contenuto dell’atto, o se invece sia correlato all’esito positivo dell’istanza del privato e quindi ad un atto di contenuto favorevole. Il problema non è di poco conto, non tanto sotto il profilo dogmatico, quanto in relazione a (fondati) timori di un appesantimento degli oneri economici dell’erario, nonché della possibilità di un ampliamento fuori misura delle possibilità risarcitorie anche in caso di istanze del privato manifestamente infondate. Consapevole del dilemma, la giurisprudenza si muove ancora incerta, da una parte enunciando con decisione la necessità di tutelare il tempo come autonomo bene della vita, e dall’altro, il più delle volte, concludendo che il ritardo sia risarcibile solo nell’ipotesi di accoglimento dell’istanza del privato, così sostanzialmente cadendo in contraddizione. Se, infatti, il tempo è autonomo bene della vita, esso lo è sia per il privato a cui venga dato ingresso alla sua istanza, sia per colui che se la veda invece rifiutata. Così del resto aveva ragionato il CGA nella sentenza n. 1368 del 2010 laddove, sul presupposto “che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento, qualora incidente su interessi pretensivi agganciati a programmi di investimento di cittadini o imprese, è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica” aveva ritenuto che: “tale danno…sussisterebbe anche se il procedimento autorizzatorio non si fosse ancora concluso e finanche se l’esito fosse stato in ipotesi negativo, atteso che l’inosservanza del termine massimo di durata del procedimento ha comportato, quale immediata e pregiudizievole conseguenza, l’assoluta imprevedibilità dell’azione amministrativa”. Conclusione, quest’ultima, rimasta sostanzialmente isolata, nel contesto più ampio di pronunce che riconoscono la risarcibilità del danno risentito dal privato – che deve essere autonomamente e rigorosamente provato e causalmente connesso al ritardo procedimentale- solo in caso dell’avvenuto accertamento della “spettanza, in capo al richiedente, del c.d. bene della vita per l’ottenimento del quale è avviato il procedimento amministrativo” (Cons. Stato, sent. n. 6609/2011)



c)      la prova dell’elemento soggettivo e le ragioni del ritardo



Nella costruzione dell’illecito da ritardo come extracontrattuale, incombe al privato la prova che l’inosservanza del termine del procedimento sia imputabile a dolo o colpa dell’amministrazione, intesa come apparato. Tuttavia, come anche di recente ricordato da Cons. Stato n. 14/2012, “il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento [in tal caso, il decorso del termine del procedimento ndr] quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di contro, all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata”. In definitiva, spetta all’Amministrazione dimostrare le ragioni del ritardo, tali da escludere la sua responsabilità per colpa. In tale prospettiva assume sempre più rilevanza il rispetto, da parte di entrambe le parti, di quei canoni di correttezza e lealtà che, se da parte dell’amministrazione impongono un comportamento imparziale e trasparente, da parte del privato escludono comportamenti defatigatori o dilatori. Tutti i soggetti coinvolti nell’azione amministrativa devono infatti ispirare i propri comportamenti ai canoni di correttezza e serietà di cui all’art. 1175 c.c, che diventano anche parametri per la valutazione della eventuale scusabilità del ritardo procedimentale (cfr. CGA sent. n.472/2011).



Il potere sostitutivo previsto dall’art. 1 D.L.5/2012



Come anticipato in apertura, il legislatore è intervenuto recentemente (D.L. n. 5/2012,Art. 1: Modifiche alla legge 7 agosto 1990, n. 241 in materia di conclusione del procedimento e poteri sostitutivi), con l’introduzione di alcune disposizioni più stringenti sia sotto l’aspetto della responsabilità dirigenziale e amministrativa dei dirigenti e funzionari inadempienti, sia prevedendo un generale potere sostitutivo in caso di inerzia che può essere azionato a richiesta del privato una volta scaduti i termini del procedimento. A mente dei nuovi commi 8 e 9 dell’art. 2 della l. 241/90, l’organo di governo è tenuto ad individuare, nell’ambito delle figure apicali dell’amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Solo “nell’ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell’amministrazione”. La norma attribuisce quindi la possibilità di un potere sostitutivo anche a soggetti non gerarchicamente superiori, i quali ultimi già detengono normalmente siffatto potere secondo i principi generali.

“Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento il privato può rivolgersi al responsabile perché, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concluda il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario. Il responsabile entro il 30 gennaio di ogni anno, comunica all’organo di governo, i procedimenti, suddivisi per tipologia e strutture amministrative competenti, nei quali non è stato rispettato il termine di conclusione previsti dalla legge o dai regolamenti”. La normativa appresta, così, un ulteriore strumento a favore del privato per ottenere l’emanazione del provvedimento, che si aggiunge alla possibilità di tutela giurisdizionale avverso il silenzio. Un profilo di incertezza interpretativa può essere dato dal coordinamento con la norma (art. 30, comma 4 C.p.a.) che riguarda la decorrenza del termine per la proposizione dell’azione risarcitoria, in ordine all’eventuale slittamento del termine a seguito dell’attivazione della procedura sostitutiva. Altro profilo che pare rilevante è quello della possibile incidenza dellamancata richiesta del potere del privato di attivazione del potere sostitutivo, sull’entità del danno risarcibile, ai sensi dell’art. 1227 (richiamato, come è noto dall’art. 2056 c.c. e concernente il concorso colposo del creditore nella causazione del danno). In ordine alla mancata attivazione del potere sostitutivo regionale il CGA con sent. 684/2011 aveva negato che ciò configurasse un comportamento colposo del privato: “Nel caso di specie va escluso che vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c. in relazione alla mancata richiesta dell’intervento sostitutivo regionale, previsto dall’art. 27 della legge regionale n. 71 del 1978. A prescindere dal rilievo, che pure potrebbe farsi, in ordine all’irrilevanza del summenzionato intervento sostitutivo ai fini della dimostrazione della colpa del creditore, non prescrivendo la norma un obbligo comportamentale a carico del creditore stesso è, in ogni caso, risolutiva di qualsiasi dubbio la constatazione del giudice di prime cure, che “il danno subito dalla ricorrente non avrebbe potuto essere eliminato attraverso la richiesta di intervento sostitutivo, tendente a ottenere una rapida conclusione del procedimento avviato a domanda, atteso che il pregiudizio denunciato si è manifestato non in unica soluzione, ma è frutto della sommatoria di singoli ritardi, inerzie e rallentamenti, che hanno costellato nel corso del quadriennio ogni singola fase endoprocedimentale e hanno avuto l’effetto complessivo di allungare oltre misura i tempi di adozione del provvedimento”. In definitiva, la soluzione prospettata appare la più corretta, in ordine alla necessità di valutare nel caso concreto quale sia stata l’incidenza causale della mancata attivazione del potere sostitutivo, in ordine ai tempi, ai procedimenti attivati, e all’attività –imprenditoriale o meno- svolta dal singolo richiedente.







* articolo di prossima pubblicazione nella rivista “Diritto e pratica amministrativa”- IL SOLE 24 ORE

http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/articolo_Zerman.htm

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