GRANDI STRUTTURE DI VENDITA: salva la disciplina Lombardia e limiti a concorrenza
[color=red][b]Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 01/02/2018) 26-10-2018, n. 6116[/b][/color]
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per la riforma
[b]della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE I n. 02705/2014, resa tra le parti, concernente l'approvazione di nuove disposizioni attuative finalizzate alla valutazione delle istanze per l'autorizzazione all'apertura o alla modificazione delle grandi strutture di vendita.[/b]
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Lombardia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 febbraio 2018 il Cons. Stefano Fantini e uditi per le parti gli avvocati Roderi e Forloni;
Svolgimento del processo
1.- F.F., organismo autonomo di coordinamento delle aziende associate che operano nel settore della distribuzione moderna organizzata, ha interposto appello avverso la sentenza 10 novembre 2014, n. 2705 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sez. I, con la quale è stato respinto il suo ricorso avverso le delibere di Giunta regionale della Lombardia n. 1193 in data 20 dicembre 2013 (recante disposizioni attuative finalizzate alla valutazione delle istanze per l'autorizzazione all'apertura od alla modificazione delle grandi strutture di vendita) e di Consiglio regionale n. 187 del 12 novembre 2013, recante l'approvazione delle "nuove linee guida per lo sviluppo delle imprese nel settore commerciale".
Deduce che le delibere impugnate, anziché conformare l'ordinamento regionale alle norme liberalizzatrici nazionali e sovranazionali, hanno introdotto una disciplina irragionevolmente complessa di rilascio delle autorizzazioni commerciali per le Grandi Strutture di Vendita (GSV), materia peraltro rientrante nella competenza esclusiva dello Stato, riproponendo la necessità di autorizzazione commerciale per le GSV con superficie inferiore a 10.000 mq., ed assoggettando ad accordo di programma esercizi di superficie superiore. Si tratta di misure che, seppure ricondotte alla tutela di interessi pubblici fondamentali (quali il paesaggio, l'ambiente, la salute), hanno in realtà una finalità squisitamente commerciale, di regolazione della concorrenza, in contrasto con l'ordinamento nazionale e con quello eurounitario, ed in particolare con la direttiva B..
Con il ricorso in primo grado F. ha dedotto l'illegittimità (per violazione, tra l'altro, dell'art. 117, lett. e ed m, della Costituzione, del principio di libera prestazione dei servizi di cui all'art. 56 TFUE) dei provvedimenti in quanto presuppongono la permanenza del potere regionale in argomento, in realtà correlato alla materia dell'economia e della concorrenza, e rimesso dunque alla disciplina statale, come rilevato anche dalla giurisprudenza costituzionale che ha affermato l'illegittimità della normativa regionale in materia di commercio prescrivente limiti e vincoli in contrasto con la disciplina statale di liberalizzazione.
2. - La sentenza appellata, disattesa l'eccezione di difetto di legittimazione attiva dell'associazione ricorrente, come esposto, ha respinto il ricorso. In sintesi, muovendo dalla distinzione dimensionale e funzionale tra grandi strutture di vendita, medie strutture di vendita ed esercizi di vicinato, di cui all'art. 4, comma 1, del D.Lgs. n. 114 del 1998, ha ritenuto che l'apertura delle grandi strutture di vendita, oggetto dei provvedimenti impugnati, rinvenga la propria disciplina anche nella legislazione regionale, ed in specie nella l.r. Lombardia n. 6 del 2010, sopravvissuta alla normativa nazionale sulle liberalizzazioni (e non dunque da ritenersi implicitamente abrogata nella sua integralità); ha altresì precisato che le disposizioni attuative, contenute nel regolamento di cui alla d.G.R. n. 1193 del 2013 impugnato, per la valutazione delle istanze di apertura delle grandi strutture di vendita, sono poste anche a presidio degli interessi paesistico-ambientali. La sentenza ha dunque affermato la legittimità degli atti impugnati e della previsione di una fase autorizzatoria di controllo di ammissibilità delle domande per la realizzazione di un grande insediamento di vendita e della compatibilità degli interventi.
3. - L'appello censura la sentenza allegando l'illegittimità del regolamento regionale che introduce nuovi limiti all'accesso al mercato, in quanto invasivo della competenza legislativa statale in tema di tutela della concorrenza, e comunque per avere posto una disciplina restrittiva non giustificata dall'esigenza di tutela di specifici interessi, ribadendo inoltre la tesi dell'intervenuta abrogazione della L.R. n. 6 del 2010, della elusione del dovere di semplificazione di cui all'art. 124 della L. n. 35 del 2012 da parte della d.G.R. n. 1193 del 2013, nonché, ancora, della violazione della L. n. 148 del 2011 che ha eliminato le autorizzazioni espresse, e comunque la disparità di trattamento tra esercizi commerciali, nonché la violazione della direttiva servizi 2006/123/CE.
4. - Si è costituita in resistenza la Regione Lombardia eccependo l'inammissibilità e comunque l'infondatezza nel merito dell'appello.
5. - All'udienza pubblica del 1 febbraio 2018 la causa è stata trattenuta in decisione.
[color=red][b]Motivi della decisione[/b][/color]
1.- Il primo motivo censura la sentenza appellata per non avere rilevato l'illegittimità della deliberazione della G.R. della Lombardia n. 1193 del 2013, che, dettando "disposizioni attuative finalizzate alla valutazione delle istanze per l'autorizzazione all'apertura o alla modificazione delle grandi strutture di vendita conseguente alla delibera di C.R. 12 novembre 2013, n. X/187 - Nuove linee per lo sviluppo delle imprese del settore commerciale", è intervenuta su di una materia sottratta al potere regionale, e di esclusiva competenza legislativa statale, in quanto attinente alla tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e, ed m, della Costituzione), senza che possa dunque rilevare la circostanza per cui la delibera sarebbe attuativa della L.R. n. 6 del 2010.
Il secondo motivo, che può essere trattato congiuntamente al primo in ragione della loro complementarietà, deduce poi l'illegittimità della Delib. n. 1193 del 2013 nella parte in cui ha introdotto una disciplina più restrittiva non giustificata dalla tutela di specifici interessi (salute, ambiente, beni culturali), ma affermando genericamente la tutela dei medesimi.
I motivi, seppure nella complessità della questione evocata, non appaiono meritevoli di positiva valutazione, almeno nella loro assolutezza.
[b]Ed infatti la deliberazione gravata ha come proprio ambito il commercio, rientrante tra le materie di competenza residuale, e dunque riservata alle Regioni ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost. E' pur vero che interferisce con il commercio la competenza statale trasversale in materia di "tutela della concorrenza" di cui all'art. 117, comma 2, Cost., ma tale incidenza non esclude a priori che possa avere spazio anche la competenza regionale.[/b]
E', del resto, questo il quadro emergente dagli interventi normativi di liberalizzazione degli esercizi commerciali, succedutisi a principiare dal D.Lgs. n. 114 del 1998 (che ha liberalizzato il settore degli esercizi di vicinato, rimettendo alle Regioni la disciplina delle medie e grandi strutture di vendita, la cui apertura restava soggetta a specifica autorizzazione), passando al D.L. n. 223 del 2006 (che ha escluso il contingentamento basato su ragioni meramente economiche), per approdare al D.Lgs. n. 59 del 2010, di recepimento della direttiva n. 123/2006/CE (B.), che ha sancito la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali (anche di medie e grandi dimensioni), pur consentendo ampie previsioni derogatorie, espressione di una programmazione non economica, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza.
[b]2. - Con il terzo motivo di appello viene reiterato l'argomento dell'intervenuta abrogazione della L.R. n. 6 del 2010 (costituente il fondamento del provvedimento gravato) per incompatibilità con la normativa statale, ed in particolare con l'art. 31 della L. n. 214 del 2011, che aveva, tra l'altro, imposto un termine per l'adeguamento degli ordinamenti locali alla disciplina statale.[/b]
[color=red][b]Il motivo è infondato, oltre che generico.[/b][/color]
Ed invero, fermo il principio che ogni disposizione normativa regionale contrastante con quella statale è immediatamente incompatibile, e pertanto da ritenersi abrogata, occorre tenere in considerazione che[b] il principio della concorrenza non è sottratto a qualsivoglia limitazione[/b], dovendo essere applicato e coordinato con la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, incluso l'ambiente urbano e dei beni culturali; si tratta di valori che devono essere coordinati tra loro, onde assicurare il corretto ed ordinato sviluppo economico e sociale della collettività in generale e dei cittadini singolarmente, trattandosi all'evidenza di principi che non si trovano in una condizione di reciproca esclusione (in termini Cons. Stato, V, 27 maggio 2014, n. 2746).
3. - Il quarto motivo di appello lamenta che la deliberazione impugnata violi il principio di non aggravamento del procedimento ed il dovere di semplificazione di cui all'art. 12 della L. n. 35 del 2012, subordinando l'ammissibilità della domanda per l'apertura e modifica delle grandi superfici di vendita, già caratterizzata da un complesso iter, alla presentazione della documentazione elencata al punto 5.1.
[b]Il quinto motivo, anche in tale caso esaminabile in modo congiunto ratione materiae, muove poi dalla premessa dell'intervenuta eliminazione delle autorizzazioni espresse per le attività economiche, soluzione rispetto alla quale sarebbe incompatibile la delibera giuntale lombarda n. 1193 del 2013, che prevede l'autorizzazione comunale o l'accordo di programma per le grandi strutture di vendita.[/b]
[color=red][b]I motivi sono infondati[/b][/color], in quanto, come correttamente evidenziato dalla sentenza appellata, la fase del controllo di ammissibilità delle domande è finalizzata a garantire un'efficiente selezione degli operatori, mediante la verifica del possesso dei loro requisiti soggettivi, mentre la fase di controllo della compatibilità degli interventi mira ad accertare non soltanto la regolarità urbanistica e paesaggistica, ma anche il sistema di viabilità e delle infrastrutture.
Giova aggiungere che l'obiettivo legislativo della semplificazione non può essere valutato in modo assoluto, cioè a prescindere da ogni altro parametro, come dimostra, in prospettiva diacronica, ad esempio, l'esclusione dal SUAP delle procedure per l'apertura delle grandi e medie strutture di vendita (art. 8, comma 3, del D.P.R. n. 160 del 2010), e cioè nei casi in cui altrimenti non sarebbe garantita l'adeguatezza dell'istruttoria.
[b]Ritiene il Collegio che peraltro la deliberazione impugnata, in parte qua, non confligga con le disposizioni, più generali, di cui all'art. 12 del D.L. n. 5 del 2012 e con l'art. 31 del D.L. n. 201 del 2011, trattandosi di norme che, entrambe, o mediante rinvio all'art. 3 del D.L. n. 138 del 2011, o direttamente, pongono come limite alla liberalizzazione dei nuovi esercizi commerciali quello della tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano e dei beni culturali.[/b]
Un significativo limite alla semplificazione è poi confermato, per le medie e grandi strutture, più recentemente, dall'art. 2 del D.Lgs. n. 222 del 2016, che ha individuato i procedimenti oggetto di autorizzazione, SCIA, silenzio assenso e comunicazione con definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti.
[b]4. - Con il sesto motivo di appello si lamenta che la delibera regionale pone una disciplina differenziata tra esercizi di vicinato e medie strutture di vendita, grandi strutture di vendita con superficie inferiore a 10.000 mq., grandi strutture di vendita con superficie superiore a 10.000 mq., nonché grandi strutture di vendita con superficie superiore a 70.000 mq., violativa, oltre che della legge, del canone costituzionale di uguaglianza tra operatori e del principio di libera prestazione dei servizi; oltre che in ragione della dimensione dell'esercizio commerciale, la disparità di trattamento si evincerebbe anche sotto il profilo della localizzazione del medesimo (sotto il profilo dell'utilizzabilità del suolo agricolo ovvero della destinazione d'uso ad attività di tipo terziario).[/b]
[color=red][b]
Il motivo è infondato[/b][/color], in quanto non può ipotizzarsi una disparità di trattamento al di fuori di situazioni analoghe, omogenee, e certamente non è analoga la situazione dell'esercizio di vicinato e della grande struttura di vendita.
Sotto altro profilo, la lettura integrale dell'art. 31, comma 2, primo periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come pure dell'art. 1 del D.L. n. 1 del 2012, norme che escludono, per effetto della liberalizzazione, limiti e restrizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche, ma nei soli limiti della compatibilità con la salute, l'ambiente, il paesaggio, escludono la configurabilità della dedotta violazione di legge.
5. - Il settimo motivo deduce poi la violazione del principio di leale collaborazione tra soggetti, nonché l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 2, della L. n. 214 del 2011, nella parte in cui giustifica finanche la presenza di aree interdette agli esercizi commerciali, per violazione degli artt. 3, 41, 97, 117 e 120 della Costituzione; ciò nella considerazione che la libertà di iniziativa economica contiene in sé la possibilità di libero insediamento.
Il motivo è infondato alla stregua delle considerazioni che sono già state esposte.
Basti aggiungere ora che l'art. 14-bis della L.R. n. 6 del 2010, nel testo novellato nel 2013, al comma 3, individua la disciplina applicabile per le grandi strutture di vendita alla scadenza del termine di sospensione.
Inoltre l'art. 31 del D.L. n. 201 del 2011, ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Corte cost. con sentenza 19 dicembre 2012, n. 299, confermata dalla successiva sentenza 18 luglio 2014, n. 220, come non esclude misure di pianificazione urbanistica al fine di garantire un corretto insediamento delle strutture di vendita (Cons. Stato, IV, 6 giugno 2017, n. 2699), così non preclude la possibilità di esercitare poteri inibitori a tutela degli interessi enucleati dalla norma (Cons. Stato, V, 1 agosto 2015, n. 3778), del pari non può ritenersi preclusivo dell'adozione del provvedimento impugnato, che l'Amministrazione regionale stessa qualifica, nella propria memoria difensiva, come espressivo degli "oneri regolamentari necessari alla tutela di superiori beni costituzionali".
Non sussistono dunque le ragioni di non manifesta infondatezza per nuovamente sottoporre al sindacato del giudice delle leggi la disposizione di cui all'art. 31, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011.
6. - Con l'ottavo motivo l'appellante contesta la estesa produzione documentale richiesta dalla delibera di G.R. n. 1193 del 2013 per ogni domanda di apertura o modifica di una grande struttura di vendita, in violazione del principio di non aggravamento del procedimento amministrativo, ed in violazione anche dell'obbligo delle Amministrazioni di acquisire d'ufficio i documenti necessari all'istruttoria già in loro possesso e censura la sentenza di prime cure che ha disatteso la censura, pur qualificando abnormi le prescrizioni.
Anche tale motivo deve essere disatteso.
La sentenza appellata, a bene considerare, conferma la piena legittimità della documentazione relativa al "rapporto di impatto" di cui al punto 5.2 della delibera gravata, limitandosi a qualificare come "abnorme" la produzione degli atti di pianificazione. Il significato di "abnorme" non è quello di gravemente illegittimo, concernente lo stato di un atto amministrativo (ed, ancora di più, processuale) gravemente viziato, ma piuttosto, ad avviso del Collegio, di "ultroneo", inutile, ma la prescrizione non è stata sanzionata, per il semplice motivo che non vi è alcuna comminatoria di inammissibilità della domanda nel caso di mancata allegazione.
7. - Infondato, se non anche inammissibile nella misura in cui impinge in valutazioni tecniche insuscettibili di sindacato in sede di giurisdizione di legittimità, è anche il nono motivo che denuncia la disparità di trattamento in relazione ai diversi parametri enucleati per la valutazione integrata di impatto, ad esempio in relazione alla quantità di superficie di vendita, alla tipologia dell'insediamento e del settore merceologico.
Anche in tale caso non può dubitarsi della ragionevolezza della previsione, ed è questo l'unico parametro di sindacato giurisdizionale.
8. - Analogamente infondato è il decimo motivo di appello che deduce l'illegittimità della delibera nella parte in cui disciplina la sostenibilità dell'insediamento commerciale quale criterio di valutazione ulteriore rispetto alla valutazione integrata di impatto, in assenza di una espressa previsione normativa che giustifichi una prestazione patrimoniale imposta.
Come condivisibilmente rilevato dalla sentenza appellata, non si tratta di misure praeter legem, rinvenendosene il fondamento nell'art. 6-bis della L.R. n. 6 del 2010, che attribuisce alla G.R. il compito di definire linee guida relative alle misure e contribuzioni finanziarie al fine i assicurare la sostenibilità socio-economica, territoriale ed ambientale degli insediamenti di grandi strutture di vendita.
Corretto è anche l'assunto del primo giudice circa la non onerosità di tali misure, rapportate alla rilevante modificazione dello stato dei luoghi conseguente all'insediamento di una grande strutture di vendita.
[b]9. - L'undicesimo motivo censura poi il fatto che la delibera regionale impugnata contenga elementi di valorizzazione delle produzioni lombarde (corner dedicati alla vendita, inserimento di detti prodotti in talune attività promozionali), asseritamente integranti misura equivalente alle restrizioni quantitative degli scambi.[/b]
[color=red][b]Anche tale motivo, pur nella complessità delle questioni sottese, non appare convincente.[/b][/color]
Gli indicati elementi di valorizzazione della produzione lombarda, alla stregua di un giudizio contenutistico, non sembrano infatti integrare una "misura di effetto equivalente" a restrizioni quantitative, ostacolanti, in atto od in potenza, gli scambi intracomunitari. Diverso è ad esempio il caso, giudicato illegittimo da Corte Cost. 12 aprile 2012, n. 86, che ha ritenuto misura ad effetto equivalente l'istituzione, da parte di una Regione, di un marchio di origine e qualità, incidente sulla libera circolazione delle merci in misura ben più significativa rispetto ad una mera attività di tipo promozionale.
10. - Con il dodicesimo motivo si tornano a censurare alcune disposizioni della delibera gravata, ed in particolare il 5.1, comma 2, lett. d), il 2, comma 5, il punto 5.2, lett. m), nell'assunto che determinino effetti discriminatori tra operatori.
Il motivo deve essere respinto per le ragioni chiaramente esposte dal primo giudice, attinenti al corretto inquadramento della comminatoria di inammissibilità per la mancata attestazione della documentazione per le grandi strutture di vendita; alla ragionevole distinzione tra cambiamento di sede e rilocalizzazione; all'obbligo di cessione gratuita od in comodato dell'area di insediamento commerciale in caso di dismissione dell'attività giustificata dalla rilocalizzazione in altro Comune.
[color=red][b]11. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, l'appello deve essere respinto.[/b][/color]
La peculiarità e complessità della controversia, con profili anche di inevitabile opinabilità, conseguente al non limpido quedro normativo, integra le ragioni che per legge consentono la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.