[size=18pt]LIBERALIZZATI orari di acconciatori ed estetisti (Consiglio di Stato 27/8/2018)[/size]
[i]E’ legittima l’ordinanza che liberalizza l’orario e i turni delle attività di acconciatori ed estetisti in quanto, in assenza di limitazioni imposte dal legislatore nazionale o regionale, l’art. 50, comma 7, t.u. 18 agosto 2000, n. 267 ne attribuisce il relativo potere al Sindaco; d’altro canto, non sono ravvisabili differenze sostanziali di contenuto nella legislazione comunitaria e nazionale susseguitasi a far data dal d.l. 4 luglio 2006 n. 223, dalla direttiva 2006/123/CE, cosiddetta Bolkestein e relativa legge di recepimento (d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59): le limitazioni “dinamiche” all’esercizio delle attività lato sensu commerciali, nelle quali rientrano sotto tale limitato profilo anche quelle artigianali, sono ammissibili solo per ragioni imperative di interesse generale; pertanto, la tutela della concorrenza, che tali norme – e, a seguire, la decretazione d’urgenza del 2011- hanno inteso valorizzare, può incontrare limiti in esigenze di salvaguardia del patrimonio ambientale, storico-artistico e culturale, ecc., ma non nella mera salvaguardia di indefiniti interessi di categoria[/i]
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/liberalizzazione-dell-orario-e-dei-turni-delle-attivita-di-acconciatori-ed-estetiste
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CONSIGLIO DI STATO
Numero 02065/2018 e data 27/08/2018
NUMERO AFFARE 01875/2015
OGGETTO:
Ministero dello sviluppo economico - Direzione generale per il mercato, la concorrenza, il consumatore, la vigilanza e la normativa tecnica.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, proposto da C.N.A. (Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa) -Associazione provinciale di Grosseto, in persona del legale rappresentante pro tempore Riccardo Breda e Confartigianato Imprese Grosseto, in persona del legale rappresentante pro tempore Giovanni Lamioni, contro il Comune di Grosseto per l’annullamento dell’ordinanza sindacale n. 31 del 26 febbraio 2014, notificata il 6 marzo 2014, avente ad oggetto revoca di precedenti ordinanze sindacali in materia di orario per l’esercizio di attività di barbiere, parrucchiere uomo-donna, estetista.
LA SEZIONE
Vista la relazione prot. n. 952 del 23 ottobre 2015 con la quale il Ministero dello sviluppo economico ha chiesto al Consiglio di Stato il parere sull’affare in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Antonella Manzione;
PREMESSO.
[color=red][b]1. Con ordinanza n. 31 del 26 febbraio 2014 il Sindaco del Comune di Grosseto, revocando i precedenti provvedimenti vigenti in materia sul territorio comunale, ha liberalizzato l’orario delle attività di barbiere, parrucchiere uomo-donna ed estetista.[/b][/color]
2. Le associazioni di categoria citate in epigrafe hanno impugnato il provvedimento de quo ritenendo che esso attui un’indebita estensione analogica della disciplina sulla liberalizzazione degli orari delle attività “commerciali” di cui all’art. 31 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, con ciò peraltro invadendo anche la competenza esclusiva del legislatore nazionale in materia di concorrenza (art. 117, lett. e) ed m) Cost.); ad abundantiam, rilevano altresì il loro mancato coinvolgimento nel procedimento sfociato nell’adozione dell’ordinanza avversata, in violazione della prassi da sempre seguita in precedenza al riguardo.
3. Il Ministero, valutato opportuno coinvolgere il maggior numero possibile di associazioni di categoria nel procedimento, ha disposto l’integrazione del contraddittorio mediante inoltro della propria relazione anche a quelle non ricorrenti ritenute comunque rappresentative di interessi diffusi di settore, ivi compresa l’Unione italiana dei consumatori.
4. Nessuna memoria o contributo risulta pervenuto e conseguentemente versato in atti.
5. Secondo il Ministero il ricorso deve essere rigettato, così come prospettato anche dall’Avvocatura civica del Comune di Grosseto, in quanto la disciplina degli orari delle attività artigianali rientrerebbe nei poteri attribuiti al Sindaco dall’art. 50, comma 7, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. La portata generale della norma ne consentirebbe anche la liberalizzazione, peraltro in linea con la più recente normativa, in particolare l’art. 3, commi 1 e 2, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 settembre 2011, n. 148. Nel merito, contesta in fatto il mancato coinvolgimento nel procedimento delle associazioni di categoria, per quanto non previsto dalla normativa, e quindi ex se irrilevante: esse infatti avrebbero presenziato per il tramite dei propri rappresentanti a ben due incontri mirati sull’argomento (16 luglio 2013 e 22 gennaio 2014).
6. Con memoria integrativa del 21 maggio 2015 la C.N.A. ha ribadito la propria prospettazione, evidenziando in particolare come, ove si fosse voluto attribuire all’art. 3 del d.l. n. 138/2011 una portata generale, non sarebbe stato necessario intervenire nuovamente sulla materia degli orari dei soli esercizi commerciali con il successivo d.l. n. 201/2011.
CONSIDERATO.
7. L’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000, attribuisce al Sindaco, quale organo di vertice dell’Amministrazione locale, il potere di coordinare e riorganizzare “sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e nell’ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine di armonizzare l’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti”.
Trattasi di un potere “ordinario” di disciplina degli orari, distinto da quello contingibile e urgente che a vario titolo e con motivazioni specifiche gli viene egualmente attribuito dalla norma, oltre che dall’art. 54 del medesimo T.U.E.L.. Per completezza, la Sezione ricorda come ad esso se ne sia aggiunto recentemente un altro, cui pure si riconosce valenza “ordinaria”, non rilevante nel caso di specie in quanto relativo alla sola vendita per asporto e somministrazione di bevande alcoliche (comma 7 bis, inserito dall’art. 8, comma 1, lett. a), n. 2-bis), del d.l 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 aprile 2017, n. 48).
[b]8. La disposizione elenca le tipologie di “attività produttive” tipicamente radicate sul territorio comunale in relazione alle quali il Sindaco ha il potere di regolamentare l’orario. Ad essa si riconosce un’indiscussa valenza onnicomprensiva, che prescinde, cioè, dall’accezione tecnica delle categorie economiche cui fa puntuale riferimento: in sintesi, pur non essendo menzionate, per quanto di esplicito interesse, le attività artigianali, alle quali peraltro ne vanno ricondotte anche talune destinate a sfociare nella vendita, ivi compresa quella per asporto di alimenti- esse vi rientrano a pieno titolo, vuoi sulla base di una riconosciuta nozione ampia della dizione “esercizi commerciali”, vuoi elevando a clausola di chiusura il riferimento ai “servizi pubblici”.[/b]
Le linee generali sulla materia devono provenire dall’organo legislativo dell’Ente territoriale, ovvero il Consiglio comunale, in conformità alle indicazioni sulle fonti ricavabili anche dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., 4 aprile 2011, n.115); ma la loro mancanza non pregiudica la possibilità del Sindaco di intervenire comunque (sul punto ex multis v. Cons. Stato, Sez. V, 23 luglio 2018, n. 4439).
9. Rileva la Sezione come da quanto sopra detto emerga l’utilizzo da parte del legislatore di “definizioni-contenitore” volte ad accomunare sotto principi condivisi attività eterogenee, che comunque restano assoggettate anche alle loro specifiche discipline di settore, ove esistenti.
[b]La stessa evoluzione della disciplina del commercio lato sensu intesa in ambito costituzionale conferma tale approccio ricostruttivo: si è infatti passati dall’enucleazione tipica e circoscritta degli ambiti di competenza delle Regioni (si pensi alla dizione originaria di “fiere e mercati” ovvero “artigianato”, di cui alla prima stesura dell’art. 117), che poco spazio lasciavano all’interprete, a dizioni necessariamente più fluide, anticipate dal legislatore nazionale con le riforme della fine degli anni ‘90, tali da generare necessariamente aree chiaroscurali di possibili sovrapposizioni di competenze tra lo Stato e gli Enti territoriali.[/b]
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, né la parola “commercio”, né quella “artigianato” figurano espressamente nell’elencazione delle materie di competenza statale (salvo per la prima la voce “commercio con l’estero” quale materia a competenza concorrente); esse rientrano entrambe, pertanto, tra quelle attribuite in via residuale alle Regioni, giusta la previsione in tal senso del comma 4 dell’art. 117 (“Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”).
10. Il punctum pruriens dell’odierna vicenda è dunque costituito, secondo le organizzazioni ricorrenti, dall’asserita illegittimità dell’estensione della portata di una norma - l’art. 31 del d.l. n. 201/2011 - avente ad oggetto i soli esercizi commerciali, come tale ritenuta non applicabile alle ben diverse, per essenza e regime giuridico, attività artigianali.
[b]Quanto detto, in verità, rileva la Sezione per completezza, pretermettendo come la segnalata atecnicità del linguaggio trovi riscontro anche nella disposizione de qua, ove alla formulazione letterale della rubrica, riferita alle sole attività commerciali, non corrisponde il contenuto: andando la stessa ad incidere sul previgente art.3, comma 1, lettera d-bis, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, finisce infatti per declinare la liberalizzazione degli orari non solo delle attività commerciali di cui al d.lgs. n. 114/1998, ma anche di quelle dei pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, oggetto di una legge di settore a livello nazionale ( l. n. 287/1991), e per giunta riconducibili anche al più ampio genus delle attività soggette ad autorizzazione di polizia di cui al r.d. n. 773/1931 (T.U.L.P.S.).[/b]
11. Nel nuovo riparto delle competenze tra Stato e Regioni, dunque, la dizione “commercio” non figura più. D’altro canto, la legislazione anteriore alla novella costituzionale del 2001, mossa dalle spinte centrifughe della sussidiarietà, avevano già introdotto concetti nuovi quali “sviluppo economico e attività produttive”, nell’ambito dei quali possono essere ricondotte sia le attività commerciali stricto sensu intese, che quelle artigianali, ovvero perfino quelle atipiche che l’evoluzione costante dei costumi e la ricerca di nuove modalità imprenditoriali hanno via via reso attuali (cfr. la terminologia e la sistematica espressa dal d.lgs. n. 112/1998).
Se dunque le Regioni hanno competenza esclusiva in materia di attività produttive in genere, resta da capire l’impatto sulla stessa di ambiti trasversali che la Costituzione ha inteso continuare ad ascrivere a quella dello Stato.
In particolare, tra le materie di competenza esclusiva statale che potrebbero influenzare il settore assume sicuramente rilievo la tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e). Questo sia perché la normativa regionale, e, in special modo, le misure di sostegno alle attività produttive, possono determinare effetti distorsivi sul mercato e porsi in contrasto con il diritto europeo, sia perché più in generale è necessario garantire eguaglianza di trattamento sul territorio nazionale lasciando al mercato le regole della competizione. Occorre infine a tale riguardo rammentare anche che per effetto dell’art. 117 Cost., comma 1, il diritto europeo si impone direttamente sul diritto regionale, a prescindere dall’interferenza con la competenza statale di cui alla lett. e) del comma 2 dell’art. 117 della Cost..
12. Nel caso di specie viene dunque in questione proprio la possibile interferenza di disposizioni dettate a livello nazionale ed europeo per rimuovere ostacoli al libero esercizio di attività produttive con la specialità della materia trattata, id est l’artigianato. Secondo i ricorrenti tale specialità sarebbe di per sé sufficiente ad impedire l’applicabilità dei principi generali: solo il legislatore nazionale può individuare le categorie economiche cui applicare la liberalizzazione degli orari, come avvenuto per gli esercizi commerciali e la somministrazione di alimenti e bevande; in assenza di tale indicazione specifica, intervenire in materia si appaleserebbe illegittimo.
13. Individuare un’univoca definizione legale di artigianato non appare semplice anche perché manca corrispondenza perfino tra i testi normativi che negli anni si sono occupati della materia, in particolare tra la disciplina privatistica e quella pubblicistica (d’altro canto sono egualmente note le diatribe giurisprudenziali tra definizione civilistica e tributaria di impresa commerciale).
[b]L’artigianato può essere definito come quell’attività economica volta alla produzione di beni e servizi, organizzata prevalentemente su base individuale e familiare.[/b]
Il codice civile non a caso non lo aveva distinto dagli altri settori produttivi, limitandosi a richiamarlo all’interno della nozione del piccolo imprenditore di cui all’art. 2083.
La prima disciplina di settore risale alla l. n. 860 del 1956 che, colmando la preesistente lacuna nell’ordinamento giuridico italiano, ha dettato norme per la definizione e la disciplina dell’impresa artigiana. Nel tempo, ne sono ovviamente seguite altre.
La Costituzione italiana ha riservato un’attenzione particolare al settore artigiano, prevedendo, in aggiunta all’art. 41, la tutela e lo sviluppo dell’artigianato quale compito precipuo del legislatore (art. 45 Cost.). L’articolo 117, nella formulazione del 1947, attribuiva alla potestà regionale concorrente (“nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”) le materie “istruzione artigiana” e “artigianato”, mostrando di considerare la prima propedeutica alla seconda, come anche la Corte Costituzionale ha sottolineato.
Anche tali specifiche indicazioni sono venute meno con la ricordata riforma del Titolo V, così da far confluire l’artigianato nella competenza residuale innominata delle Regioni, pur se alcune tipologie di imprese artigiane possono richiedere discipline speciali in cui sono coinvolte anche competenze statali. Trattandosi comunque di attività produttive, di beni o di servizi, esse dunque sono accomunate a quelle commerciali se non altro da tale denominatore comune.
Con tale attribuzione di competenza esclusiva (rectius: residuale) alla Regione, la legge quadro statale in materia di artigianato, modificata più volte nel corso degli anni, ha continuato ad applicarsi solo in mancanza di una disciplina regionale.
14. Alla nozione di artigianato, peraltro, possono essere ricondotte le attività produttive più disparate per contenuti, alcune delle quali caratterizzate dalla mancanza di contatto con il consumatore finale, altre ancora invece di servizio o di vendita vera e propria, ancorché con il limite del locale di produzione o ad esso adiacente.
[b]Quelle dei parrucchieri - rectius, più correttamente, acconciatori - ha anche una specifica disciplina di settore, contenuta nella la l.17 agosto 2005, n. 174. La l. 2 aprile 2007, n. 40, di conversione del d. l. 31 gennaio 2007, n. 7, si è invece occupata di estendere sia a tali attività che a quelle di estetica il regime della S.C.I.A. Infine il d.lgs. 23 aprile 2010, n. 59, di recepimento della cosiddetta Direttiva servizi o Direttiva Bolkestein, dedica alla materia due articoli appositi (artt. 77 e 78).[/b]
[color=red][b]In nessuna di tali norme si rinvengono disposizioni sugli orari finalizzate a limitare, per non chiare esigenze di tutela della innegabile peculiarità del settore, il generale potere del Sindaco di intervenire attraverso il suo potere di ordinanza ex art. 50 T.U.E.L.[/b][/color]
[b]15. La possibilità di liberalizzare gli orari delle attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande era stata originariamente prevista a titolo sperimentale dal ricordato d.l. n. 223/2006, limitandola ai Comuni inclusi in particolari elenchi regionali attestanti la loro rilevanza turistica. L’esistenza di tale norma, negli anni rivelatasi restrittiva rispetto alla diffusione dei principi a tutela della concorrenza, ha imposto al legislatore del 2001, anche per mere esigenze di drafting, di intervenire sulla materia, generalizzando la portata di quella disposizione originaria, piuttosto che limitarsi alla sua mera abrogazione - ed è ciò che è avvenuto con il più volte ricordato art. 31 del d.l. n. 201/2011.[/b]
[color=red][b]16. Il già ricordato d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di recepimento della cosiddetta direttiva Bolkestein, 2006/123/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai “servizi nel mercato interno”, fa riferimento a “qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale” (art. 1). Al suo interno trovano autonoma disciplina, oltre alle attività propriamente commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande, anche quelle artigianali qui di interesse, ovvero quella di “acconciatore” (art. 77) e “estetista” (art. 78).[/b][/color]
Ciò implica inevitabilmente che i principi generali mutuati dal diritto europeo in materia di tutela della concorrenza non possono non riferirsi a tutte le attività economiche lato sensu “di servizi”, tra cui anche quelle di interesse per la decisione dell’odierno procedimento. In particolare, tutte le attività “di servizi” non possono essere limitate né in fase statica - accesso all’attività - né in quella dinamica - esercizio della stessa - se non per motivi imperativi di interesse generale.
Nell’elencazione della tipologia di limiti apponibili per tali “motivi imperativi di interesse generale” non figurano le limitazioni di orario (art. 12). E’ evidente tuttavia che ciò non può essere inteso come legittimazione di qualsivoglia intervento restrittivo, in quanto una disciplina restrittiva in materia di orari e chiusure inciderebbe inevitabilmente sul libero esercizio dell’attività, condizionando la possibile ampiezza dell’offerta al pubblico.
Il legislatore del 2010 ha individuato espressamente gli interessi pubblici che possono prevalere sulla tutela della concorrenza: essi sono stati assurti a parametro di valutazione della legittimità di qualsivoglia restrizione, non solo quelle riconducibili alle tipologie elencate nel ricordato art. 12. In particolare tra le esigenze di pubblico interesse che possono prevalere sulla tutela della concorrenza figurano “l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, la sicurezza stradale, la tutela dei lavoratori compresa la protezione sociale dei lavoratori, il mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, la tutela dei consumatori, dei destinatari di servizi e dei lavoratori, l’equità delle transazioni commerciali, la lotta alla frode, la tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, la salute degli animali, la proprietà intellettuale, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico, gli obiettivi di politica sociale e di politica culturale” (art. 8, lett. h) del d.lgs. n. 59/2010, laddove viene data la definizione di “motivi imperativi di interesse generale”).
[color=red][b]17. Le limitazioni di orario delle attività produttive, dunque, restano consentite, solo laddove il legislatore speciale le preveda espressamente. Possono sopravvivere nel silenzio del legislatore, laddove rispondenti comunque a motivazioni di interesse pubblico, rese ancora più cogenti nei casi in cui sussista un esplicito divieto di senso inverso, come quello di cui al novellato comma 1, lett. d bis dell’art. 3 del d.l. n. 223/2011.[/b][/color]
18. Qualificata sia in dottrina sia in giurisprudenza come “materia-funzione”, la tutela della concorrenza presenta quelle caratteristiche di “trasversalità” (Corte Cost., n. 272 del 2004) che la portano ad intrecciarsi inevitabilmente con una pluralità di competenze e ad escluderne un’applicazione circoscritta e delimitata (cfr. Corte Cost., n. 407 del 2002). Essa ha infatti avuto un’applicazione molto ampia, finendo per supplire all’ormai esigua previsione di compiti statali in materia di sviluppo economico.
Rileva la Sezione come uno degli ambiti in cui nella legislazione commerciale si sono maggiormente posti problemi di sovrapposizione tra competenze statali e regionali attiene proprio alla disciplina degli orari, con ciò dimostrando l’innegabile impatto sull’offerta di mercato che la stessa finisce necessariamente per avere.
Tralasciando la tematica, particolarmente attuale, della riconosciuta legittimità alle limitazioni, anche di luogo, alle attività ove si esercita il gioco lecito -cui peraltro si applicano egualmente le ordinanze sindacali, ancorché si riferiscano ad esercizi non esplicitamente richiamati nella norma del T.U.E.L. - una rapida disamina della giurisprudenza della Corte Costituzionale sul punto consente di individuare una serie di principi che si attagliano perfettamente alla fattispecie oggi in esame.
Di particolare interesse la nozione di liberalizzazione emersa a partire dalla sentenza n. 200 del 2012, che dà alla stessa l’accezione di misura di «razionalizzazione della regolazione», compatibile con il mantenimento degli oneri «necessari alla tutela di superiori beni costituzionali». Similmente, la sentenza n. 8 del 2013 ha ribadito che in vista di una progressiva e ordinata liberalizzazione delle “attività economiche” -non solo, pertanto, di quelle commerciali-siano fatte salve «le regolamentazioni giustificate da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario», che siano «adeguate e proporzionate alle finalità pubbliche perseguite», così da «garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali».
La tutela della concorrenza <<costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali>> (Corte Cost. n. 14 del 2004, punto 4 del Considerato in diritto). E ancora, con riferimento alle discipline regionali in materia di orari delle attività commerciali: <<è illegittima una disciplina che, se pure in astratto riconducibile alla materia commercio di competenza legislativa delle Regioni, produca, in concreto, effetti che ostacolino la concorrenza, introducendo nuovi o ulteriori limiti o barriere all’accesso al mercato e alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale (Corte Cost. n. 150 del 2011).
[b]19. Ma ancor più incisive appaiono le argomentazioni della sentenza n. 299 del 2012, avente ad oggetto peraltro proprio la contestata legittimità dell’art. 31 del d.l. n. 201/2011: nel richiamare tutti i precedenti sulla materia, i Giudici della Consulta ne menzionano anche quelli antecedenti l’entrata in vigore della disposizione sottoposta al loro vaglio, affermando in particolare che: <<Del resto questa Corte, di recente, è stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale di alcune normative regionali che disciplinavano la materia degli orari degli esercizi commerciali e dell’obbligo di chiusura domenicale e festiva, ma prima dell’approvazione della norma impugnata, quando cioè il quadro normativo di riferimento della legislazione statale era rappresentato dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio).In tali occasioni si è ritenuto legittimo l’esercizio della competenza in materia di commercio da parte del legislatore regionale solo nel caso in cui le norme introdotte non determinassero un vulnus alla «tutela della concorrenza(sentenze n. 150 del 2011 e n. 288 del 2010).Pertanto, nei casi in cui le stesse avevano introdotto una disciplina più favorevole rispetto a quella statale del 1998, nel senso della liberalizzazione degli orari e delle giornate di chiusura obbligatoria, esse sono state ritenute legittime (sentenza n. 288 del 2010); viceversa, allorché si è riscontrata una disciplina di segno contrario, ne è seguita una pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 150 del 2011)>>.[/b]
Ultimamente infine la Corte è tornata sull’argomento con la sentenza n. 239/2016 con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni di una legge regionale (della Puglia) che <<dispone in materia di orari degli esercizi commerciali, in contrasto con il citato divieto assoluto e perentorio di regolazione, disposto dallo Stato nell’ambito della sua competenza esclusiva in materia di «tutela della concorrenza». Nella pronuncia la Corte ha affermato anche che <<La totale liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali non costituisce una soluzione imposta dalla Costituzione, sicché lo Stato potrà rivederla in tutto o in parte, temperarla o mitigarla. Nondimeno, nel vigore del divieto di imporre limiti e prescrizioni sugli orari, stabilito dallo Stato nell’esercizio della sua competenza esclusiva a tutela della concorrenza, la disciplina regionale che intervenga per attenuare il divieto risulta illegittima sotto il profilo della violazione del riparto di competenze>>.
Le esigenze della tutela della concorrenza, dunque, preesistevano al d.l. 201/2011. In assenza di un’indicazione di senso inverso, anche da parte del solo legislatore regionale, esse non possono che permeare la disciplina di tutte le attività produttive, ispirando, come avvenuto nel caso di specie, le scelte di regolamentazione delle attività del Sindaco competente per territorio.
20. A ben guardare, rileva infine la Sezione come non vi siano differenze sostanziali di contenuto, per quanto qui interessa, nella legislazione nazionale e comunitaria susseguitasi nel tempo. Ciò a far data dal d.l. n. 223/2006, dalla direttiva 2006/123/CE e dalla relativa legge di recepimento (decreto legislativo n. 59/2010) fino ai decreti legge del 2011, ed in particolare il d.l. n. 138/2011, nonché, da ultimo, dal d.l. n. 1/2012, convertito con legge n. 14/2012.
In tutta la legislazione, in particolare, viene posto in rilievo, costantemente, la tutela della concorrenza, da un lato, e il carattere preminente di altri valori costituzionalmente garantiti, di salvaguardia del patrimonio ambientale, storico- artistico e culturale del Paese, che possono portare al sacrificio motivato del primo anche in relazione ad ambiti territoriali delimitati. Le autorità pubbliche, cioè, possono porre limiti e restrizioni all’attività economica per evitare danni alla salute, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale; ma non possono farlo per asseriti interessi di categoria non meglio esplicitati come parrebbe essere richiesto nel caso di specie.
21. Conclusivamente, pertanto, la Sezione ritiene che in assenza di una esplicita indicazione del legislatore nazionale o regionale, già sintetizzante il necessario bilanciamento tra interessi pubblici contrapposti, non siano ravvisabili profili di illegittimità nella scelta del Sindaco che, in armonia con i principi generali in materia di attività economiche in genere, facoltizzi la scelta di orari e turni di chiusura. Ciò tenendo anche conto che non risultano provate, e nemmeno semplicemente individuate, esigenze particolari, se del caso legate anche alla realtà territoriale di riferimento (Comune di Grosseto) in ragione delle quali disattendere le indicazioni anche europee, limitando l’esercizio delle attività.
22. Infine, del tutto priva di rilievo la doglianza inerente il mancato coinvolgimento formale nel procedimento, sia perché smentito per tabulas dall’avvenuta effettuazione di due riunioni aperte alle organizzazioni ricorrenti per discutere preliminarmente la tematica, sia perché è incontestata tra le parti la mancanza di una qualche norma che imponesse passaggi procedurali formali in tal senso.
23. Per tutto quanto sopra la Sezione ritiene il ricorso infondato.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere respinto.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE F/F
Antonella Manzione Andrea Pannone
IL SEGRETARIO
Roberto Mustafà
Per chi fosse interessato ecco la posizione dei nostri esperti Omniavis che da anni sostengono la piena applicabilità della disciplina di liberalizzazione anche ad acconciatori ed estetisti:
https://www.google.com/search?q=site%3Aomniavis.it%2Fweb%2Fforum+orari+acconciatori&ie=utf-8&oe=utf-8&client=firefox-b-ab
Tanto che da anni proponiamo una bozza di ordinanza:
http://www.omniavis.it/web/forum/index.php?topic=3690.0
http://www.omniavis.it/web/forum/index.php?topic=1804.0
http://www.omniavis.it/web/forum/index.php?topic=39783.0