MARIA ALESSANDRA SANDULLI
LA SEMPLIFICAZIONE NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO.
PREMESSA.
Il termine “semplificazione” è negli ultimi anni e negli ultimi mesi e giorni tristemente inflazionato, quasi ad invocare una speranza, purtroppo sempre più spesso smentita dalla realtà. Il continuo e – si scusi il termine – forsennato susseguirsi di leggi frequentemente contraddittorie e non di rado smentite da quelle immediatamente successive è intrinsecamente contrario ad una effettiva semplificazione, che ha come fondamentale corollario la chiarezza delle regole e dunque la certezza del diritto.
La prima importante semplificazione del processo amministrativo è dunque data dal fatto stesso di averne “codificato” la disciplina. Ho sempre sostenuto l’assoluta esigenza di un codice, che superasse, per quanto possibile, le moltissime e inaccettabili incertezze di un sistema di regole stratificate e frammentarie, sulle quali la giurisprudenza non riusciva a fornire interpretazioni univoche, anche all’interno delle stesse Sezioni; e, in uno scritto del maggio 2008, elaborato in occasione della presentazione di un importante Manuale di giustizia amministrativa, avevo ripetutamente insistito sul punto, accogliendo, quindi, con il massimo entusiasmo, la delega del 18 giugno 2009.
In disparte la legge 2248/1865, all. E (che con la Costituzione e la giurisprudenza costituzionale costituisce la fonte primaria dei criteri di riparto della giurisdizione e dei limiti di sindacato del giudice ordinario nei confronti delle pp. AA.), tutte le regole processuali variamente stratificatisi a partire dalla mitica istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato sono ormai confluite nel c.p.a., che, in aggiunta ha introdotto o disciplinato in modo organico molti istituti e strumenti di tutela (ricordo fra tutti l’intervento, l’opposizione di terzo, l’azione di condanna - nelle forme del risarcimento autonomo dall’annullamento e dell’adempimento ad emanare l’atto dovuto a seguito dell’accertamento dell’illegittimità del silenzio - la tutela cautelare, il giudizio di ottemperanza).
L’ultimo biennio è stato un momento particolarmente importante per la giustizia amministrativa. Si è verificata una bellissima coincidenza: nel 2010 è stato approvato il primo codice del processo amministrativo e nel 2011 sono stati celebrati i 180 anni dall’istituzione del Consiglio di Stato e i 40 anni da quella dei TAR: il tutto, mi si consenta di ricordarlo, valorizzato dalla presidenza di Pasquale de Lise, che alle indiscusse doti di magistrato e di giurista, ha saputo aggiungere straordinarie capacità di organizzazione e di gestione, che, per un verso, hanno consentito la realizzazione del Codice, sapientemente intrapresa sotto la presidenza di Paolo Salvatore, e, per l’altro, hanno contribuito a sottolineare e ampliare la rilevanza delle riferite celebrazioni.
*****
Ma torniamo alla semplificazione del sistema.
Merita innanzi tutto svolgere alcune considerazioni di ordine generale.
Il codice ha mantenuto una struttura snella, cercando, pur in un’ottica di massima apertura agli strumenti di tutela, di accelerare e semplificare, ma soprattutto, come si diceva, di chiarire (alcuni esempi più significativi: si è chiarito che l’appello immediato sul dispositivo di sentenza non è condizione necessaria per ottenerne la sospensione, evitando così la prassi del tuzioristico appello sul dispositivo, cui, salvo casi eccezionalissimi, si rinunciava, spesso su suggerimento dello stesso Collegio, in attesa della motivazione; si è stabilito il luogo di notifica dell’impugnazione se il domiciliatario ha cambiato indirizzo senza darne comunicazione (art. 93); si è chiarito il modo di calcolo dei termini in scadenza il sabato, in precedenza affidato ai singoli collegi).
Un grande lavoro è stato svolto anche dall’Adunanza Plenaria, alla quale l’art. 99 del Codice ha riconosciuto un’importante potere di nomofilachia e che, in questa prima fase, ne ha chiarito e integrato le disposizioni (facendo largo e sapiente uso dei “principi”, che molto opportunamente sono stati enunciati nel libro primo), contribuendo alla soddisfazione di quell’esigenza di certezza che, come già sottolineato, costituisce comunque un momento centrale della semplificazione: oltre alle più note sentenze sulle azioni (nn. 3 e 15 del 2011) e alla discussa sentenza n. 4 del 2011 sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale, si ricordano, tra le altre, quelle in tema di competenza (in particolare nn. 1, 2 e 19) e di giurisdizione (nn. 10 e 16) e, da ultimo, la sentenza n. 1 del 2012 in tema di attualità dell’interesse a ricorrere.
Il ruolo dell’Adunanza plenaria è destinato ad assumere sempre più forza, se si considerano, per un verso, la necessità che, ferma restando l’autonomia dei TAR, le Sezioni semplici del Consiglio di Stato, se intendono discostarsi dalle decisioni da essa assunte, devono reinvestirla della questione; e, per l’altro, il potere del Presidente del Consiglio di Stato di sollevare la questione anche prima della decisione (il relatore o il presidente della Sezione dovrebbero quindi segnalargli la pendenza di controversie con problemi interpretativi) e, soprattutto, il potere del massimo consesso (mutuato da quello delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) di decidere la questione sottoposta alla sua attenzione “nell’interesse della legge” a prescindere dall’interesse delle parti: un esempio significativo e importante ai nostri fini è rappresentato proprio dalla citata sentenza n. 1 del 2012, nella quale l’Adunanza plenaria, facendo uso di tale potere (le parti avevano rinunciato alle proprie istanze), ha affermato l’immediata lesività e dunque l’immediata impugnabilità della scelta del promotore nell’ambito del project financing, con ciò tra l’altro anticipando la tutela, e, per l’effetto, semplificando il sistema.
Ciò premesso in termini generali, passando ad una rapida analisi delle disposizioni che sembrano più direttamente rispondere ad una esigenza di semplificazione, intesa anche come minor aggravio del sistema processo, ho ritenuto opportuno distinguere tra misure più specificamente tecniche e misure più propiamente sostanziali.
MISURE “TECNICHE”.
1.
Vi rientrano innanzi tutto la previsione di avvio del processo telematico (All. 2, art. 13) e le disposizioni sul deposito di atti e documenti informatici e sulla sufficienza delle comunicazioni informatiche (art. 136), con la comminatoria di sanzioni per chi non comunica la pec e il fax (che, in un’ottica di massima semplificazione, possono peraltro anche essere diversi da quelli del domiciliatario). La mancanza di analoghe o diverse conseguenze per il mancato deposito degli atti e documenti informatici, espressamente esclusa dallo stessi art. 136, lascia però di fatto lo strumento alla buona volontà delle parti e degli uffici, con ingiusto squilibrio tra i medesimi e scarsa utilizzazione di un modello che potrebbe invece sensibilmente agevolare l’attività dei magistrati, delle cancellerie e degli avvocati, nonché favorire quella più effettiva collegialità che indubitabilmente la nuova attenzione per la responsabilità per gli atti magistrati rende sempre più rilevante.
2.
Si richiama inoltre la possibilità di costituirsi in giudizio con il mero deposito della copia dell’atto in corso di notifica e deposito dell’originale prima del suo esame (art. 45) e la possibilità di depositare la copia della sentenza appellata invece dell’originale (art. 94).
3.
Un’importante misura di semplificazione è rinvenibile altresì nella prescritta uniformità degli orari di apertura degli uffici per ricevere atti e documenti (All. 2, art. 4): resta nella pratica il problema del ritiro delle produzioni depositate dalle altre “parti” in limine alla chiusura degli uffici, che quelli più frequentati non riescono a “scaricare” in tempo utile, riducendo in tal modo i termini “a difesa” previsti a garanzia di un più effettivo contraddittorio (il problema si pone soprattutto per i documenti, di cui non è prevista la copia “scambio” e che occorre quindi fotocopiare; e si aggrava evidentemente nei giorni prefestivi). Anche per questa ragione sarebbe necessario imporre l’utilizzazione dello strumento informatico (anche con l’introduzione di sanzioni economiche) ed estenderlo allo “scambio”.
4.
Può ascriversi alle misure “tecniche” anche la necessità di presentare l’istanza di fissazione dell’udienza per fare “lavorare” il ricorso, anche ai soli fini dell’esame dell’istanza cautelare (art. 55): ferma restando la possibilità di depositare l’istanza di fissazione entro un anno dal deposito del ricorso, si evita in tal modo un’inutile attività degli uffici per giudizi instaurati per mero tuziorismo e che non saranno presumibilmente mai trattati.
5.
Ancora, dulcis in fundo, si richiama la nuova disciplina della perenzione dei ricorsi ultraquinquennali, con operatività automatica, salva richiesta di revoca del decreto che la dispone con atto notificato alle altre parti (All.3, art. 1): la regola, risultato di un compromesso tra la perenzione automatica secca e l’attuale regime della richiesta di interesse da parte degli uffici, costituisce indubitabilmente di una misura di semplificazione per questi ultimi, ma una maggiore complicazione per le parti, onerate della notifica.
MISURE DI CARATTERE SOSTANZIALE.
Con riferimento alle misure di carattere sostanziale, in un’ottica di “semplificazione” della loro rappresentazione, ho ritenuto opportuno seguire l’ordine delle disposizioni codicistiche, con l’avvertenza che non mi occuperò dei riti accelerati, che rispondono ad esigenze diverse da quelle semplificatorie: mi limiterò in proposito a sottolineare che nella relativa disciplina il codice ha prestato particolare attenzione a contemperare l’esigenza acceleratoria con quella di effettività della tutela, tanto che tutti i termini processuali del rito ordinario sono stati calibrati sulla necessità di non ridurre in modo eccessivo quelli dimezzati.
1.
Una prima, fondamentale, misura di semplificazione del processo (recte, dell’intero sistema della giustizia) è costituita dalla disciplina della c.d. translatio judicii, mutuata dal c.p.c.: ferme le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda, se il processo è riproposto entro tre mesi dal passaggio in giudicato della decisione della Cassazione che dichiara la spettanza della giurisdizione a diverso giudice (art. 11). Pur semplificando il passaggio dall’uno all’altro giudice, in linea con i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 77 del 2007, e lasciando evidentemente aperta la strada all’errore scusabile nei casi di effettiva incertezza sulla giurisdizione, il codice si è preoccupato di evitare che lo strumento si traducesse in un facile strumento di elusione dei termini decadenziali, incidendo perciò negativamente sulla certezza dei rapporti con l’Amministrazione.
Di recente, la III Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 21 febbraio 2012, n. 940 (Pres. Lignani, Est. Stelo), riformando una decisione del TAR Calabria, Catanzaro, ha precisato che “la cd. translatio iudicii non può consentire l’elusione dei termini previsti, a pena di decadenza, a tutela delle posizioni giuridicamente protette dinanzi al giudice dotato di giurisdizione e l’art. 11, comma 2, c.p.a. ha espressamente tenuto "ferme" in materia le preclusioni e le decadenze intervenute. Va pertanto dichiarato irricevibile un ricorso nel caso in cui la relativa pretesa (avente natura di interesse legittimo) sia stata originariamente azionata innanzi al giudice ordinario dopo due anni dal momento in cui l’interessato aveva avuto conoscenza del provvedimento lesivo e che sia poi stata riproposta, a seguito della declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, innanzi al giudice amministrativo”.
2.
La disciplina della procura alle liti, con la previsione della sua automatica estensione, salva esplicita esclusione, alla proposizione di motivi aggiunti e di ricorsi incidentali (24) e la possibilità di estensione anche al giudizio in appello (art. 101).
3.
L’intera disciplina delle azioni, improntata alla massima informalità ed effettività. Sono innanzi tutto importanti i principi espressi dall’art. 32, che, per un verso, afferma il potere del giudice di qualificare autonomamente l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali e, ricorrendone i presupposti, di disporre la conversione delle azioni erroneamente qualificate dalle parti; e, per altro verso, ammette espressamente la possibilità di cumulo delle azioni promosse in via principale e in via incidentale (con prevalenza del rito ordinario, salvo che per le controversie soggette a rito speciale accelerato ai sensi degli artt. 119 e 120), con evidente vantaggio in termini di concentrazione e di effettività della tutela: significativo l’esempio della proponibilità dell’azione di condanna all’adempimento in forma specifica e/o al risarcimento del danno per equivalente unitamente all’azione di impugnazione o all’azione avverso il silenzio.
La giurisprudenza ha svolto a tale riguardo un importante lavoro di interpretazione e integrazione, sulla base dei principi, delle vigenti disposizioni codicistiche, drasticamente ridotte rispetto allo schema originariamente redatto dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato, all’esito dei “tagli” apportati dal Governo in sede di approvazione con giustificazioni di ordine economico.
In particolare si segnalano, per tutte, le decisioni che, a partire dalla nota sentenza n. 3 dell’adunanza plenaria sull’azione risarcitoria, seguita e sviluppata dalla giurisprudenza dei TAR (per tutte, TAR Lombardia, Milano, sez. III, 8 giugno 2011 n. 1428 e TAR Puglia, Bari, sez. III, 25 novembre 2011 n. 1807), ha espressamente riconosciuto la valenza generale dell’azione di adempimento, prevista nel codice soltanto per i ricorsi avverso il silenzio (art. 31), consentendone la proposizione anche a fronte di un provvedimento (esplicito o implicito) di diniego.
Massimamente significativa dell’assoluta informalità che permea ormai il regime delle azioni è poi la dibattutissima sentenza n. 15 resa dalla stessa adunanza plenaria sulla scia. Con una costruzione da “cattedrale gotica” drasticamente (e, a mio avviso, poco coerentemente) demolita dalla manovra legislativa di agosto, la pronuncia è di estrema rilevanza sul piano processuale. Accanto alla conferma dell’azione di adempimento (ad opportuno completamento dell’azione impugnatoria del silenzio diniego di provvedimenti inibitori), la sentenza, per riuscire a garantire la tutela cautelare prima della formazione dei provvedimento implicito di rigetto nonostante i limiti di cui all’art. 34, comma 2 (che, come noto, salvo il caso di silenzio inadempimento, preclude la tutela quando il potere non sia stato ancora esercitato) costruisce, sulla scorta della distinzione tra condizioni dell’azione e condizioni della decisione, un’azione di accertamento dell’inutilizzabilità della scia, che, pur ammissibile, non sarebbe poi procedibile, ma, che, qualora nelle more intervenga il silenzio diniego, si converte in azione di annullamento e di adempimento.
Un percorso in parte analogo è stato recentemente compiuto dalla IV Sezione dello stesso Consiglio di Stato, che, con la sentenza 23 febbraio 2012 n. 985 (Pres. Numerico, Est. Veltri) ha affermato l’ammissibilità di un ricorso avverso il silenzio inadempimento, che, pur proposto quando quest’ultimo non era ancora maturato, è arrivato alla decisione quando tale circostanza si era prodotta. La sentenza, pur dando atto che, alla stregua delle regole generali, il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, configurando un uso abusivo degli strumenti di tutela, lo trattiene in decisione in considerazione della difficoltà incontrata nella specie dal ricorrente di individuare il termine entro il quale effettivamente l’amministrazione doveva provvedere.
La vicenda induce ad una brevissima digressione sulla giurisprudenza che si sta recentemente sviluppando in tema di abuso di processo. Oltre alla decisione appena richiamata, si segnalano altre due recenti pronunce del Consiglio di Stato sul tema. Nella più recente (2 marzo 2012 n. 1209, Pres. Trotta, Est. Castiglia) la IV sezione ha ritenuto “configurabile un abuso del processo nel caso in cui la P.A., disattendendo una ordinanza cautelare (relativa ad un giudizio proposto da un candidato di un concorso giudicato non idoneo alla prova relativa alle capacità psico-attitudinali) che imponeva di reiterare l’accertamento attitudinale, non ha provveduto a ciò ma ha poi proposto appello avverso la sentenza. In tal caso, infatti, senza necessità di proporre e coltivare l’appello, a salvaguardia delle proprie ragioni la P.A. avrebbe avuto a disposizione lo strumento – rapido, economico e dovuto– della rinnovazione del giudizio. Non avendo fatto questo l’Amministrazione ha posto in essere un comportamento contraddittorio che finisce per violare il divieto generale di venire contra factum proprium”. Con una precedente sentenza (7 febbraio 2012 n. 656, Pres Trovato, Est. Caringella), la V sezione ha ritenuto integrare abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione della giurisdizione. La sentenza precisa in particolare che “Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto, ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale, sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte” e che “Il divieto di abuso del diritto, in quanto espressione di un principio generale che si riallaccia al canone costituzionale di solidarietà, si applica anche in ambito processuale, con la conseguenza che ogni soggetto di diritto non può esercitare un'azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte, sì che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo Si giunge, così, all'elaborazione della figura dell'abuso del processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa”.
Tornando alle misure di semplificazione legate alla disciplina delle azioni, si segnala che il codice riconosce espressamente al giudice investito dell’impugnazione (o dell’azione di accertamento del silenzio) la possibilità di pronunciarsi sulla legittimità dell’atto (o comportamento) dell’amministrazione ai soli fini del risarcimento (art. 30) e la giurisprudenza (Cons. St., sez. V, 12 maggio 2011 n. 2817, Pres. Baccarini, Est. Bianchi) ha affermato che tale potere non è condizionato ad una specifica domanda di parte, in quanto la richiesta di risarcimento per equivalente deve ritenersi compresa in quella del risarcimento in forma specifica attraverso l’annullamento.
4.
Il codice conferma poi la decisione con mero decreto sull’estinzione (per mancata riassunzione, perenzione o rinuncia) o l’improcedibilità (per sopravvenuto difetto di interesse, mancata integrazione del contraddittorio o altre ragioni ostative alla pronuncia di merito: artt. 35 e 85).
5.
Alle misure di semplificazione deve essere parimenti ricondotta la conferma dello strumento dei motivi aggiunti per l’impugnazione di atti connessi , anche presupposti, a quello impugnato (espressamente limitata evidentemente al primo grado): nella già citata sentenza sez. IV, 23 febbraio 2012 n. 985, il Consiglio di Stato afferma significativamente che nell’ambito del codice del processo amministrativo, i motivi aggiunti costituiscono il "grimaldello processuale" a disposizione delle parti per condurre davanti al giudice l’intera vicenda amministrativa, pur quando essa si presenti in una sequenza di atti e fatti dotati di autonoma rilevanza ed efficacia lesiva. Essi sono ammessi anche nel giudizio sul silenzio, atteso che il codice prevede ormai espressamente che "se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l'oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l'intero giudizio prosegue con tale rito", in tal modo prediligendo – anche nel giudizio sul silenzio – un’impostazione che ha riguardo al complessivo rapporto e non al singolo episodio
Lo strumento rende però spesso più complessa la decisione (che risulta la sommatoria di più decisioni) e, per l’effetto, l’eventuale appello (che, ovviamente, si “gonfia”).
5.
Alla stessa esigenza di concentrazione rispondono la necessaria riunione dell’opposizione di terzo all’appello (art. 109) e la possibilità di proporre nell’ambito del giudizio di ottemperanza, anche in unico grado se esso sia proposto in Consiglio di Stato, l’azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché l’azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilita' o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione (art. 112).
6.
Rientra ancora tra le misure di semplificazione la previsione di un limite all’imposizione dell’obbligo di integrazione del contraddittorio se la causa è manifestamente inammissibile, improcedibile o infondata (art. 49).
7.
Ad indubbie istanze di semplificazione risponde inoltre l’intera disciplina della tutela cautelare, nelle tre forme (collegiale, monocratica interinale e monocratica ante causam) previste dal titolo II del libro II del codice, con la massima attenzione al contraddittorio.
Le disposizioni che più direttamente rilevano ai nostri fini attengono alla possibilità di notifica a mezzo fax delle istanze di tutela monocratica, anche senza autorizzazione del giudice (ferma comunque la necessità di notifica per le vie ordinarie nei successivi 5 giorni: artt. 56 e 61); alla possibilità di introdurre con l’istanza cautelare richieste istruttorie e/o di integrazione del contraddittorio (art. 55, comma 12); all’obbligo di fissazione del merito contestualmente alla concessione della cautela (artt. 55, comma 11); alla generalizzazione della possibilità di risolvere la cautela con una sollecita fissazione dell’udienza di merito (art. 55, comma 10); alla possibilità di decisione immediata del merito quando ricorrano i presupposti per l’adozione della sentenza in forma semplificata e sempre che, naturalmente, non rappresentino l’esigenza di proporre motivi aggiunti e/o ricorsi incidentali, ovvero regolamento di competenza o di giurisdizione, con l’espressa precisazione che in questi ultimi due casi il giudice assegna un termine non superiore a 60 gg. per la proposizione del regolamento, e che, in ogni caso, nel disporre il rinvio, fissa contestualmente la data per il prosieguo della trattazione (art. 60).
Con riferimento alla decisione in forma semplificata, occorre richiamare l’attenzione su alcune questioni di tipo strettamente processuale, che l’utilizzo dello strumento sta ponendo. La prima investe la possibilità per il Collegio di decidere nel merito in forma semplificata anche in caso di rinuncia alla richiesta cautelare: la risposta sembra dover essere positiva, nell’ottica dei principi generali di economia processuale che presiedono allo strumento (se il Collegio, in qualunque modo investito della controversia, la ritiene matura per la decisione, non è nella disponibilità delle parti impedirlo, sempre che, naturalmente, non rappresentino l’esigenza di proporre motivi aggiunti e/o ricorsi incidentali, ovvero regolamento di competenza o di giurisdizione). La seconda, più complessa, investe la possibilità/necessità di decidere comunque interinalmente sulla richiesta cautelare se il tempo comunque necessario per il deposito della sentenza semplificata può consentire il prodursi di danni gravi e irreparabili per il ricorrente: se l’effettività della tutela imporrebbe la soluzione positiva, il rischio delle ricadute di un appello cautelare sulla decisione in corso di estensione e di deposito spingerebbe in senso opposto, inducendo piuttosto a suggerire la possibilità del Collegio di pubblicare nelle more il dispositivo della pronuncia adottata (più resistente all’appello).
8.
Con riferimento alle prove, il codice, pur confermando l’ammissibilità della CTU, ne ha disposto la straordinarietà, privilegiando (anche a fini economici) lo strumento della verificazione (art. 19).
A proposito delle prove e del favor per l’informalità, è interessante segnalare una recentissima decisione della IV sezione del Consiglio di Stato, che, invocando l’atipicità dei mezzi di prova nel processo amministrativo, ha ritenuto di potersi avvalere in sede di ottemperanza dei dati ricavabili dall’esito di un altro giudizio, deciso, con sentenza non ancora depositata, dallo stesso Collegio nella medesima camera di consiglio (sentenza 20 gennaio 2012, n. 257, Pres. Numerico, Est. Forlenza).
9.
Proseguendo l’excursus delle disposizioni di semplificazione, merita poi richiamare la previsione della priorità nella trattazione dei ricorsi vertenti su un’unica questione (art. 73), anche a seguito di rinuncia a tutti gli altri motivi ed eccezioni, sempre che le parti concordino sui fatti di causa (l’uso dello strumento è evidentemente molto improbabile) .
10.
Tra le misure di semplificazione sostanziale del sistema, può essere ricondotta anche l’introduzione delle repliche (art. 73), che, se correttamente utilizzate, dovrebbero evitare o quanto meno significativamente ridurre, le discussioni.
A questo riguardo è opportuno sottolineare l’esigenza del massimo rigore nel pretendere l’osservanza dei termini processuali, imposto dal principio di parità delle armi e, quanto meno in sede cautelare, da quello di garanzia di una maggiore effettività della tutela, evidentemente legato ad una più piena cognizione della controversia da parte dell’organo giudicante.
Il tema è stato da ultimo oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali, che hanno correttamente affermato la perentorietà dei termini di cui all’art. 73: in particolare, la V sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 23 febbraio 2012 n. 1058 (Pres. Barra Caracciolo, Est. Poli), ha rilevato che, mentre il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 46, co. 1, c.p.a., per la costituzione in giudizio nel rito ordinario “non ha carattere decadenziale (fatta salva per il giudizio di appello l’eccezione recata dall’art. 101, co. 2, c.p.a.), essendo posto a tutela della parte intimata” (per garantirne le possibilità di difesa), “in ogni caso la costituzione in giudizio non può intervenire oltre il termine di trenta giorni (computato a ritroso dalla data di celebrazione dell’udienza di discussione), individuato dall’art. 73, co. 1, c.p.a. per il deposito delle memorie difensive illustrative, avente carattere perentorio e “la violazione dei termini sanciti dal menzionato art. 73, co. 1, c.p.a. conduce all’inutilizzabilità processuale degli atti di costituzione in giudizio e delle memorie, con la conseguente inammissibilità delle domande, eccezioni in senso stretto e prove colà introdotte (o allegate); con la decadenza delle facoltà processuali previste dal codice sotto comminatoria di un termine; e, qualora la parte costituitasi tardivamente risulti vincitrice, con la possibilità di configurare le eccezionali ragioni per la compensazione delle spese di giudizio, ex artt. 26, co. 1, c.p.a. e 92, co. 2, c.p.c.”. Analogamente, il CGA, con sentenza 17 gennaio 2012, n. 64 (Pres. Virgilio, Est. Anastasi) ha ritenuto che “E’ inammissibile la costituzione dell’Amministrazione resistente effettuata mediante una memoria depositata oltre il termine di 30 giorni prima dell’udienza ex art. 73 c.p.a.; in tal caso è inapplicabile l’art. 54 c.p.a. (il quale prevede che la presentazione tardiva di memorie può essere eccezionalmente autorizzata dal collegio quando la produzione nel termine di legge risulta estremamente difficile), ove la P.A. resistente non abbia allegato alcuna particolare difficoltà a costituirsi (nella specie è stato rilevato che la P.A. aveva ricevuto la notifica dell’appello ben sette mesi prima della data in cui aveva depositato la memoria)”; che è altresì “inammissibile la costituzione in giudizio di una parte resistente in udienza con il solo mandato, al fine di svolgere oralmente le proprie difese”, in quanto “tale possibilità, che era stata in passato ammessa dalla giurisprudenza, è da ritenere venuta meno con il codice del processo amministrativo, atteso che l’art. 56, comma 7, c.p.a. nel disciplinare il giudizio cautelare, ha espressamente disposto che «Nella camera di consiglio le parti possono costituirsi» ai fini della trattazione orale, mentre con l’art. 73 dello stesso codice non ha introdotto analoga previsione per l’udienza di discussione e che, secondo il criterio interpretativo a contrario (o dell’ubi voluit), deve dedursi che la costituzione della parte intimata in udienza pubblica non sia oggi più ammissibile, nemmeno ai soli fini della discussione orale, diversamente dalla costituzione nella camera di consiglio cautelare”.
Sarebbe peraltro opportuno assicurare un’uniformità di comportamento da parte dei diversi organi giudiziari: si passa invero da uffici che “spillano” gli atti tardivi, per evitarne la lettura non giustificata ad uffici che comunque li sottopongono integri ai giudici, che, pur senza ammetterli formalmente, possono quindi “leggerli”, a collegi che, con l’assenso delle parti, li ammettono in modo generalizzato. Non è un modus operandi coerente con la logica regolatrice del codice.
11.
Con riferimento alle impugnazioni, oltre alla già ricordata concentrazione dell’opposizione di terzo con l’eventuale giudizio di appello, si segnala la previsione della trattazione in camera di consiglio degli appelli avverso le decisioni dei TAR che hanno declinato la propria giurisdizione o la propria competenza (art. 105), nonché la circoscrizione dei casi in cui in caso di accoglimento dell’appello, la causa è rimessa al primo giudice, che il codice espressamente limita alle ipotesi in cui è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero è stata dichiarata la nullità della sentenza o riformata la sentenza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio (art. 105).
Non si può invece considerare una misura di semplificazione, se non sotto il richiamato profilo generale della chiarezza delle regole, la previsione dell’onere di censurare in appello i singoli capi della sentenza contestati e, soprattutto, di riproporre nei termini per la costituzione le eccezioni e i motivi assorbiti (art. 101), cui fa in certo qual modo da contraltare la possibilità di proporre appello incidentale anche sui capi non appellati con l’appello principale (art. 96).
12.
Una specifica attenzione presenta ai nostri fini la disciplina del giudizio di ottemperanza. Oltre alla già richiamata possibilità di introduzione dell’azione risarcitoria, anche nel caso in cui il giudizio sia in saturato dinanzi al Consiglio di Stato, si segnalano in particolare la regola della decisione in forma semplificata, la possibilità di nomina immediata del commissario ad acta, la concentrazione nel giudizio di ottemperanza delle questioni relative a quest’ultima, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario e la possibilità (già in diversi casi utilizzata) di utilizzare tale giudizio per chiedere chiarimenti sulle modalità di ottemperanza (artt. 112 e 114). Con riferimento a tale ricorso resta peraltro ancora aperto il tema della competenza a decidere sull’inottemperanza ai decreti di decisione dei ricorsi straordinari (stante l’oggettiva anomalia di affidare ai TAR l’attuazione di decisioni sostanzialmente rese dal Consiglio di Stato).
Profili di maggiore complessità introdotti dal Codice.
Da ultimo, sembra opportuno fare un brevissimo accenno al delicato e dibattuto tema della competenza territoriale inderogabile, visto da molti con estremo sfavore, come misura di “complicazione” del codice, soprattutto in riferimento al rischio che, dopo anni di attesa, le parti (e in primis il ricorrente) si trovino a dover riassumere il processo davanti ad un altro giudice, ripartendo da zero nell’ordine di ruolo.
Nella ricerca di una soluzione idonea a conciliare l’esigenza di garanzia del giudice naturale (alla base della regola della inderogabilità) con quella di evitare il suddetto rischio senza caricare gli organi e gli uffici giudiziari di inutili “controlli” su tutti i fascicoli, sembra corretto ipotizzare che, nei casi in cui non vi sia stata decisione cautelare (che, si ricorda, il giudice può rendere soltanto se ritenga la propria competenza: art. 55), la parte (anche ricorrente) che abbia un dubbio sulla competenza, possa chiedere al Presidente di portare la questione al collegio limitatamente a tale profilo. Si eviterebbero così eccessivi aggravi per i magistrati e per gli uffici, spostando sugli interessati l’onere di attivarsi per non essere esposti al rischio (peraltro raramente sussistente) di avere atteso invano il proprio turno dinanzi a un giudice incompetente. Senza rinunciare al giudice naturale.
http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/studi_contributi/MATERA_3.htm