LA POTESTA’ ORDINATORIA TRA AUTORITATIVITA’ E AUTOREVOLEZZA
INTRODUZIONE
Il percorso evolutivo dell’esercizio della potestà ordinatoria riflette lo sviluppo dell’azione di governo, intesa originariamente come risultato di attività assolutamente autoritaria assolta dal sovrano, unico titolare del potere di imporre le regole necessarie per garantire la sicurezza generale.
Nel tempo, per effetto dei movimenti di pensiero indirizzati ad affermare il riconoscimento dei diritti dell’uomo come soggetto razionale capace di provvedere al soddisfacimento dei propri bisogni ed alla realizzazione dei propri interessi, è maturata nella coscienza popolare la consapevolezza della inadeguatezza della condizione di suddito sottoposto alla tutela dell’autorità.
Questa consapevolezza ha stimolato nelle componenti sociali produttive l’esigenza di partecipare alla definizione delle regole di convivenza, riconoscendo la prerogativa dell’autorità di provvedere al governo/gestione degli interessi collettivi.
In questa prospettiva l’originario autoritarismo assoluto ha assunto la configurazione di autoritatività, intesa come capacità di adottare, nel rispetto della legge, atti dotati di forza esecutiva, tali da incidere in modo diretto ed immediato nel contesto sociale e nella sfera d’interesse dei destinatari. La forza esecutiva, in sostanza, era giustificata dalla destinazione degli atti autoritativi alla tutela, indiscutibilmente prioritaria, degli interessi della collettività.
Il progressivo consolidamento del riconoscimento dei diritti, unitamente all’affermazione della legge come fonte normativa delle attività pubbliche e private, ha inciso sull’azione esecutiva attraverso la limitazione dell’autoritarietà con l’imposizione dell’obbligo di motivare i provvedimenti e con la previsione della partecipazione degli amministrati ai procedimenti d’interesse.
In concreto, l’applicazione del principio di legalità all’attività amministrativa ha dimensionato l’autoritatività esecutiva al ruolo istituzionale della P.A. in regime di stato di diritto. I principi d’imparzialità e di buon andamento sanciti dalla Costituzione come riferimenti dell’azione amministrativa, evidenziano come la P.A. debba concorrere alla realizzazione della sostanziale eguaglianza dei cittadini attraverso interventi propulsivi nei settori strategici della produttività ed interventi diretti a garantire condizioni affidabili di stabilità in materia di sicurezza e ordine pubblico.
Considerata l’estensione e l’incisività dell’iniziativa privata nella produttività generale, l’efficacia dell’azione esecutiva emerge non soltanto dalla forza autoritativa ma, principalmente, dall’adeguatezza dell’intervento istituzionale come risultante di scelte equilibrate, destinate ad orientare l’indirizzo produttivo ed a prevenire i rischi che nel contesto socio-ambientale possono turbare la sicurezza e l’ordine pubblico.
In questa prospettiva la forza dell’autoritatività sarebbe destinata a stemperarsi qualora l’attività esecutiva risultasse poco affidabile perché indirizzata all’assolvimento meramente formale della legge. Oggi, invece, è necessario che i provvedimenti amministrativi, e le procedure istruttorie degli stessi, lascino trasparire la ragionevolezza delle scelte adottate nella logica di un indirizzo unitario orientato al perseguimento di sicurezza e sviluppo.
In sostanza, nella fase avanzata di realizzazione dello stato di diritto, l’autoritatività esecutiva può ancora assolvere un ruolo produttivo soltanto se integrata dall’autorevolezza, contraddistinta dal coerente perseguimento dell’indirizzo unitario emergente dalla corretta interpretazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Sulla base delle considerazioni esposte, questo studio intende evidenziare come l’evoluzione della potestà ordinatoria, oggi, risulti legata alla progressiva affermazione dell’autorevolezza come modus operandi per l’assolvimento del ruolo di garante della sicurezza affidato all’autorità amministrativa.
Origine della potestà ordinatoria
La potestà ordinatoria nasce nel contesto dello stato assoluto, nel quale il sovrano è titolare del potere di imporre, con piena autonomia di approvazione e di abrogazione, le regole di condotta, di provvedere alla loro esecuzione controllandone l’esatto e puntuale rispetto, di amministrare la giustizia, di garantire la sicurezza dei sudditi: all’interno attraverso il controllo dell’ordine pubblico; all’esterno mediante la difesa dagli attacchi all’integrità del territorio ed alla libertà del popolo.
L’origine dello stato assoluto risale alla pace di Westfalia (1648) che segnò la nascita dello stato moderno, concepito come stato nazionale, ossia entità esponenziale di una comunità allocata su un territorio e governata da una autorità indipendente, avente la missione di garantire la sicurezza generale per tutelare i sudditi nell’esercizio delle attività essenziali per soddisfare i bisogni e per realizzare gli interessi in condizioni di pacifica convivenza. L’autorità sovrana governa attraverso l’esercizio della potestà ordinatoria, gestito in modo dispositivo. Infatti, la condizione di superiorem non recognoscens nonché di legibus solutus consente al sovrano di adottare i provvedimenti ordinatori (sostanzialmente tali nonostante le differenti qualificazioni/denominazioni formali) con la massima autonomia nella determinazione del contenuto e libero dall’obbligo di motivare le proprie scelte -strategiche o contingenti- e le proprie decisioni. L’unico vincolo alla dispositività ordinatoria è di natura etica; il sovrano, in vero, deve governare con saggezza, in modo da rendere percepibile la ragionevolezza dell’ordine, pur senza lasciar trasparire la motivazione, che risale alla logica dell’azione di governo e, come tale, deve rimanere inaccessibile ai sudditi e coperta da impenetrabile segretezza, ritenuta essenziale ed irrinunciabile per l’efficacia della sicurezza.
In sostanza, l’assoluta dispositività nell’esercizio della potestà ordinatoria risultava funzionale al mantenimento della sicurezza in un contesto socio-ambientale in cui l’elemento unificante della comunità era costituito dalla diffusa convinzione che la soggezione alla tutela del sovrano avrebbe consentito ai sudditi la possibilità di agire per la realizzazione dei propri interessi.
L’evoluzione delle relazioni sociali, unitamente all’emergere delle attività produttive come elementi incidenti per il mantenimento della sicurezza, ha fatto maturare nei sudditi l’esigenza di veder riconosciuti i diritti essenziali, ritenuti connaturati all’uomo come essere razionale, dotato di capacità produttiva.
Il percorso per il riconoscimento dei diritti fondamentali, oltre a determinare significativi cambiamenti alle relazioni sociali, ha inciso anche sulla organizzazione dell’esercizio del potere di governo. Infatti, la crescente valenza del ruolo economico e sociale delle componenti produttive ha determinato la nascita di formazioni sociali consapevoli di avere la capacità di affrancarsi dalla soggezione assoluta alla tutela dell’autorità sovrana e di assumere un ruolo significativo ed incisivo nel governo della comunità.
Parallelamente all’evoluzione del pensiero filosofico indirizzato alla individuazione della logica che giustifica il riconoscimento dei diritti fondamentali, tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, nel campo delle dottrine politiche si è sviluppato il costituzionalismo, che auspica lo spostamento della sovranità dal monarca al popolo e concepisce la legge come espressione della volontà popolare.
Le costituzioni ottriate rappresentano il primo concreto tentativo di realizzazione del costituzionalismo che, impiantato sul principio della separazione dei Poteri, disegna l’organizzazione istituzionale secondo un sistema di equilibri e garanzie tra le prerogative dei governanti ed i diritti dei governati. Con la concessione delle costituzioni (ottriate) il sovrano limita l’assolutezza del proprio potere e consente ai sudditi di partecipare alla guida della comunità nazionale; conserva, tuttavia, la prerogativa di governare attraverso il Potere esecutivo. In tale contesto permane la dispositività della potestà ordinatoria, ritenuta essenziale per garantire la sicurezza, specialmente per fronteggiare i rischi nelle situazioni di emergenza[1].
Evoluzione della potestà ordinatoria nella costituzione ottriata
Lo Statuto Albertino (1848) rappresenta il primo tentativo di attuazione del principio della separazione dei Poteri nell’ordinamento italiano. Prevede, infatti, che il Potere legislativo sia esercitato collettivamente (art 3 ST.A.) dal sovrano e dal Parlamento, formato in parte dagli eletti in rappresentanza delle formazioni sociali dotate di riconosciuta capacità produttiva; il Potere giudiziario sia esercitato dai giudici, inquadrati in un ordine speciale, in nome del sovrano (art. 68 ST.A.). Sancisce, inoltre, che il Potere esecutivo appartiene esclusivamente al sovrano (art. 5 ST.A.), che provvede anche ad emanare i decreti ed i regolamenti necessari per l’esecuzione delle leggi (art. 6 ST.A.).
L’appartenenza del Potere esecutivo al Re conferma, in sostanza, che l’assolvimento della funzione di governo continua ad essere prerogativa esclusiva del sovrano, che la esercita tramite il Capo del Governo (nominato dallo stesso sovrano) responsabile dell’azione esecutiva destinata a garantire la sicurezza dell’intera comunità nazionale ed a provvedere alla tutela dei prioritari interessi generali affidati all’amministrazione.
La crescente incidenza degli interventi della P.A. nella produttività generale con provvedimenti limitativi o estensivi dei diritti degli amministrati, ha determinato la sostanziale caratterizzazione della attività amministrativa come attività di polizia, intesa come attività sindacatoria delle iniziative dei sudditi, finalizzata a tutelare l’integrità degli interessi generali. Il perseguimento di questo scopo prioritario giustifica il contenuto dispositivo dei provvedimenti adottati, finalizzato ad attribuire all’autorità amministrativa il più ampio spazio di valutazione senza obbligo di motivare le scelte adottate. Tale dispositività risulta vincolata soltanto dai limiti posti dalla legge a garanzia dei diritti. Questi limiti, tuttavia, non hanno inciso sulla prassi consolidata, secondo cui le prescrizioni normative possono essere superate qualora sussistano specifici o contingenti rischi per l’integrità dell’interesse generale, richiedenti un intervento autoritativo attraverso l’esercizio dispositivo della potestà ordinatoria.
In regime di costituzione ottriata, mentre cresceva l’incidenza delle formazioni sociali produttive, si incrementava il ruolo della legge come strumento concorrente alla determinazione delle scelte politiche d’indirizzo generale e si riconosceva la rilevanza giuridica della pretesa degli amministrati alla legittimità dell’attività amministrativa incidente nella sfera d’interesse dei destinatari dei provvedimenti.
L’attività governativa perdeva, così, l’originaria assoluta autonomia ed imponeva al Capo del Governo di mediare con le assemblee legislative le scelte politiche al fine di armonizzare in senso unitario l’indirizzo dei Poteri legislativo ed esecutivo[2]. Tuttavia, la concreta sintonia tra Governo e Parlamento risultava difficoltosa sia nella realizzazione che nel mantenimento per differenti cause risalenti essenzialmente all’assenza di un rapporto politico che orientasse naturalmente i due organi verso l’individuazione di un indirizzo unitario. Al riguardo, basta ricordare che il Capo del Governo è nominato dal Re, senza la collaborazione delle Assemblee legislative, con il solo vincolo -peraltro non scritto- di manifestare sensibilità per il rispetto dell’equilibrio tra le componenti politiche presenti nelle Camere.
Il contesto ordinativo risultava animato dal confronto tra tendenze contrastanti: di natura riformista, orientate ad incrementare il riconoscimento dei diritti attraverso il rispetto delle posizioni degli amministrati nei confronti della P.A.; di natura controriformista, tendente a conservare la dispositività dell’azione esecutiva in funzione della priorità degli interessi generali rispetto agli interessi degli amministrati, specialmente negli atti autoritativi inerenti alla sicurezza. Tale confronto ha determinato l’incremento dell’esercizio dispositivo della potestà ordinatoria attraverso la formazione di una nuova prassi, riguardante l’esercizio della normazione per decreto.
Questa prassi si è formata per effetto -sia pure riflesso- dell’impatto dell’applicazione del principio della separazione dei Poteri perché, venuta meno la loro appartenenza all’autorità sovrana, l’azione di governo ha perduto l’unità connotata dall’esclusività del potere sovrano ed ha evidenziato la necessità di un equilibrio tra i Poteri legislativo ed esecutivo allo scopo di evitare che il maggior peso di uno di essi stemperasse la ratio politica ed ordinativa del principio della separazione dei Poteri.
segue, la normazione per decreto
L’esigenza di garantire la continuità dell’azione di governo dal rischio di possibile stemperamento derivante dal protrarsi del dibattito parlamentare sulle scelte d’indirizzo dell’attività esecutiva hanno indotto il Governo ad intervenire nell’attività legislativa con provvedimenti normativi adottati in base ad una specifica delega di potere del Parlamento ovvero, in circostanze di emergenza, con specifico decreto (regio decreto legge), immediatamente esecutivo da sottoporre alla ratifica parlamentare.
La normazione per decreto si sviluppa come prassi tenuto conto dell’art. 6 dello ST.A., ove è sancita la natura di fonte secondaria dei regolamenti che possono essere emanati dal Re per l’esecuzione della legge “senza sospenderne l’osservanza o dispensarne”. La tassativa esclusione della possibilità di sospendere o di annullare il rispetto della legge, da parte dell’Esecutivo appartenente al sovrano, chiarisce il rapporto gerarchico tra le fonti normative, che nella logica della separazione dei Poteri dovrebbe costituire il riferimento fondamentale per garantire tra Legislativo ed Esecutivo l’equilibrio necessario per concorrere all’assolvimento delle funzioni di governo.
Non risultando possibile realizzare e mantenere il necessario equilibrio istituzionale, la normazione per delega, o autoritativa con decreto suscettibile di ratifica, è risultata soluzione, per quanto artificiosa, compatibile con il quadro costituzionale poiché la delega preventiva o la ratifica successiva salvano la formale riconducibilità del provvedimento normativo del Governo al Potere legislativo. Sotto il profilo sostanziale la normazione per decreto rivela come possa essere realistico che, in determinate materie ed in particolari circostanze, l’Esecutivo possa operare con autonomia dispositiva estesa fino ad incidere sulle norme primarie (modifica, abrogazione, deroga) allo scopo di garantire la necessaria tempestività dell’azione di governo.
Tuttavia, l’evoluzione politica delle relazioni tra le diverse componenti sociali animate da esigenze differenti rendeva difficile la concertazione di un indirizzo unitario, risultante da un compromesso costruttivo, orientato a determinare e mantenere il sistema produttivo in condizioni di sicurezza e di affidabilità. Di conseguenza, la normazione per decreto si è incrementata progressivamente, attraverso il ricorso alla delega legislativa in tutti i casi in cui la regolamentazione di determinate materie richiedeva l’impiego del patrimonio conoscitivo in possesso degli organi del Potere esecutivo. Si è incrementato anche il ricorso alla decretazione d’urgenza (R.D.L.), originariamente destinata a disciplinare con immediatezza situazioni di emergenza per le quali non risultava adeguata la normativa vigente. Pur se destinata al governo/gestione di situazioni eccezionali ed imprevedibili, la decretazione d’urgenza frequentemente ha portato ad identificare l’eccezionalità con la necessità di approntare una normativa che, qualora gestita con la procedura parlamentare, sarebbe stata approvata con tempestività non adeguata e con contenuti non pienamente rispondenti agli obiettivi del Governo.
La massima espansione della normazione per decreto si raggiunse all’inizio del XX secolo, quando la L. 1601/1922 attribuì al Governo la delega dei pieni poteri per il “riordino del sistema tributario e della pubblica amministrazione”. Questa delega di pieni poteri consisteva nella facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge, per un anno, con l’obbligo di rendere conto al Parlamento dell’uso di tale facoltà.
La potestà normativa del Governo
La formalizzazione della prassi di delegare al Governo pieni poteri ha avuto un significativo impatto sociale nel momento in cui acquisiva consistenza il ruolo della P.A. nel processo produttivo dell’intera comunità. Infatti, pur ritenendo necessario riconoscere all’Esecutivo la potestà di operare con discrezionalità sufficiente per valutare tempi, condizioni e modalità dei provvedimenti, è maturata la consapevolezza diffusa della necessità irrinunciabile della obiettività ed imparzialità dell’azione pubblica, come elementi di sicura affidabilità. Mentre acquisiva consistenza l’estensione all’attività esecutiva del principio di legalità, implicante l’assoggettamento alla legge dell’autorità amministrativa, la L. 31/1/1926 n.100 introduce la disciplina della “facoltà del Potere esecutivo di emanare norme giuridiche”. Questa legge regola l’esercizio della potestà normativa secondaria, introdotta dall’art. 6 ST.A. che già sanciva l’emanazione dei regolamenti attuativi delle leggi nel rispetto dei precetti normativi. Sancisce, inoltre, la potestà del Governo di emanare norme con forza di legge, già affermatasi con la prassi consolidata della normazione per decreto. In sostanza, riconosce al Governo la facoltà di approvare provvedimento normativi di rango primario qualora l’emanazione di norme appropriate non possa avvenire in Parlamento perché richiedenti la conoscenza di materie di competenza dell’Esecutivo, ovvero nei casi in cui situazioni contingenti, da fronteggiare con immediatezza, richiedano l’adozione di norme necessarie per rimediare all’insufficienza ed all’inadeguatezza delle norme vigenti.
Tenuto conto della prassi consolidata sulla normazione per decreto ed allo scopo di confermare l’appartenenza esclusiva della normazione primaria al Potere legislativo, questa legge razionalizza l’esercizio della facoltà dell’Esecutivo di emanare atti con forza di legge e ridimensiona l’originaria dispositività ordinatoria nell’ambito di una autonomia sistematizzata nella logica di un equilibrio tra Legislativo ed Esecutivo funzionale all’applicazione del principio della separazione dei Poteri. In particolare, l’art. 3 della L. 100/1926 statuisce che il Governo, con decreto reale, emana norme aventi forza di legge o per delega indicante i limiti della delegazione, ovvero per ragioni di necessità ed urgenza; in questo caso il R.D.L. deve essere convertito in legge dal Parlamento entro il termine tassativo di due anni. Tale norma, all’epoca, formalizzando l’esercizio della potestà normativa da parte del Governo, riconosceva la maggiore incidenza del peso dell’Esecutivo nella determinazione dell’equilibrio dei Poteri. Tuttavia, non può sottacersi come, oggi, nel quadro generale dello sviluppo del costituzionalismo la L.100/1926 rappresenti il primo passo verso la realizzazione dello stato di diritto. Infatti, le puntualizzazioni che la delega parlamentare debba indicare i limiti della delegazione e che il R.D.L. d’urgenza debba essere convertito tassativamente entro due anni, pena la decadenza, confermano e rafforzano il primato della legge come strumento di individuazione degli obiettivi politici nonché di determinazione dell’indirizzo dell’attività amministrativa.
La L. 100/1926 nella disciplina della decretazione d’urgenza nulla statuisce riguardo alle ordinanze di necessità, ritenute (all’epoca) da autorevoli interventi della dottrina ammissibili anche quando i loro effetti incidano sull’assetto normativo[3].
La mancata inclusione della regolamentazione della potestà ordinatoria d’urgenza nella disciplina della decretazione normativa (d’urgenza), pur sussistendo la eadem ratio, ha evidenziato la natura provvedimentale delle ordinanze, a cui non è possibile riconoscere efficacia normativa. In tale contesto, un’approfondita riflessione sulla compatibilità dell’esercizio dispositivo della potestà ordinatoria con il progressivo consolidamento dell’applicazione del principio di legalità all’attività amministrativa, a fronte del riconoscimento della pretesa degli amministrati alla legittimità dei provvedimenti incidenti sulla capacità produttiva, ha confermato l’estensione illimitata della dispositività della potestà ordinatoria in materia di sicurezza e di ordine pubblico, rafforzando l’orientamento che qualificava la tutela della sicurezza come tipica attività di polizia, finalizzata a tutelare interessi generali prioritari, gestibile con l’esercizio pienamente dispositivo della potestà ordinatoria.
In questa logica, in regime di costituzione ottriata, mentre si approfondiva la ricerca delle modalità per introdurre l’applicazione dei principi dello stato di diritto, in concreto l’ordinamento statale assumeva la configurazione del modello ordinativo dello stato di polizia. In particolare, l’art.2 del T.U.L.P.S. (R.D. n.773/ 1931) attribuiva al Prefetto “nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica la facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”. Secondo questa norma rientra nelle prerogative del Governo adottare con piena dispositività le ordinanze d’urgenza quando tali provvedimenti siano necessari per conservare le condizioni di sicurezza che consentono ai sudditi di gestire i propri interessi. Inoltre, l’art.19 del T.U.L.C.P. (R.D.n.383/1934) attribuiva al Prefetto la potestà di adottare “in caso di urgente necessità, i provvedimenti indispensabili nel pubblico interesse nei diversi rami di servizio”. Questa norma ha determinato la sostanziale riconducibilità di tutta l’attività amministrativa sotto l’incidenza del tipico intervento di polizia, inteso come strumento necessario per la tutela della sicurezza, essenziale per l’ordinato svolgimento delle relazioni sociali ed attuabile con l’esercizio dispositivo della potestà ordinatoria.
La potestà ordinatoria in regime di stato di diritto
La costituzione democratica configura l’assetto ordinativo dello Stato secondo il modello dello stato di diritto. In particolare, sancisce il primato della legge come fonte regolatrice delle attività pubbliche e private e riconosce la tutela dei diritti nei confronti dell’autorità. Inoltre, collega l’Esecutivo al Governo per l’attuazione del programma politico sul quale il Parlamento ha espresso la fiducia.
La P.A., come responsabile della cura/gestione degli interessi della collettività, è stata confermata titolare della potestà di adottare atti autoritativi, che progressivamente hanno perduto l’originaria qualificazione di atti di polizia per assumere quella di atti amministrativi, passando per una fase intermedia in cui il complesso delle attività pubbliche, destinate ad agevolare le attività produttive degli amministrati era qualificato attività di polizia amministrativa.
La prima fase evolutiva dell’ordinamento pubblico verso la configurazione della amministrazione democratica è stata caratterizzata dalla resistenza della concezione dell’attività pubblica come attività di polizia ancorata alla posizione di supremazia generale della P.A.. All’epoca, la dottrina ha fornito un’impostazione sistematica della potestà di polizia distinguendo tra polizia di sicurezza e polizia amministrativa, ed ha posto le premesse per la chiara comprensione della natura e dello scopo dell’attività esecutiva nel contesto ordinativo configurato secondo i principi dello stato di diritto[4].
Il contributo di questa dottrina rivela come (all’epoca) perdurasse una concezione sostanzialmente tutoria dell’attività amministrativa. Gli amministrati continuavano ad essere considerati come soggetti che, per l’esercizio dei diritti, dovevano essere gestiti dall’autorità vigilante sull’esatta osservanza di norme e procedure poste a garanzia degli interessi generali. Pertanto, nei primi decenni di regime democratico, l’Esecutivo ha conservato la veste di tutore degli interessi della collettività. Continuava ad operare attraverso atti di polizia amministrativa destinati a regolamentare la concessione di benefici, prestazioni, autorizzazioni e permessi destinati a consentire ai singoli di assumere iniziative e svolgere attività che -pur pertinenti alla sfera di naturale autodeterminazione individuale- erano ancora ritenute assoggettabili alla valutazione sindacatoria dell’autorità.
La concezione tutoria del ruolo della P.A. si è progressivamente esaurita man mano che si chiariva la corretta interpretazione delle norme costituzionali che, in ossequio al principio di democraticità, sanciscono il collegamento dell’attività amministrativa al potere di direzione politica del Governo (art. 95 Cost.) e impongono l’imparzialità dell’azione amministrativa (art.97 Cost.) destinata a garantire che il perseguimento degli obiettivi istituzionali si realizzi senza alcuna discriminazione arbitraria nei confronti degli amministrati, nel sicuro rispetto del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.)[5].
Esauritasi la funzione tutoria, e la connessa connotazione di attività di polizia amministrativa, è risultato incongruo ed ingiustificato l’esercizio dispositivo dell’attività esecutiva. A fronte della istituzionalizzazione dei compiti della P.A. e della ineludibilità del rispetto dei principi di imparzialità e di eguaglianza, l’autonomia valutativa dell’autorità amministrativa ha subìto un sostanziale ridimensionamento. Infatti, l’assoggettamento al rispetto della legge inequivocabilmente esclude la dispositività sia della scelta del provvedimento da adottare sia della determinazione del relativo contenuto. L’autorità amministrativa, in regime democratico, assolve la funzione esecutiva attraverso l’esercizio discrezionale delle potestà di cui è investita, in linea con l’indirizzo generale del Governo. La discrezionalità, infatti, consiste nell’autonomia di determinare i contenuti (condizioni, modalità, tempi, risorse da impiegare) dei provvedimenti da adottare per l’assolvimento della missione istituzionale nel puntuale rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e nei limiti delle competenze attribuite dalla legge (artt. 97 e 98 Cost.).
In sostanza, l’etica istituzionale, che nello stato assoluto (come già detto) consisteva nel rendere percepibile la ragionevolezza della dispositività ordinatoria in funzione della tutela della sicurezza, in regime democratico è fondata sulla trasparenza, destinata ad evidenziare la legittimità e la congruità delle scelte discrezionali. La Costituzione, diversamente da quanto sancito per l’attività giurisdizionale (art. 111 Cost.), non prevede l’obbligatorietà della motivazione dei provvedimenti amministrativi. Superata l’atavica persistenza della (ritenuta) essenzialità della riservatezza della motivazione dell’attività pubblica per una più efficace garanzia di sicurezza, per effetto della permealizzazione della P.A. attraverso il progressivo riconoscimento del diritto degli amministrati di partecipare ai procedimenti inerenti ai provvedimenti d’interesse, la L. 241/90, e successive modificazioni, ha esplicitato l’applicazione del principio di legalità nell’attività amministrativa, prevedendo anche l’obbligatorietà della motivazione. Inoltre, ha evidenziato l’economicità dei provvedimenti per sottolineare la necessità che essi risultino congrui anche sotto il profilo del rapporto costo-efficacia.
In questa logica, la conformazione al modello ordinamentale dello stato di diritto esclude irreversibilmente ogni possibile giustificazione dell’esercizio dispositivo dell’attività esecutiva ed impone che anche l’attività ordinatoria, in quanto destinata ad incidere sugli interessi degli amministrati, debba trovare fondamento nella legge, che ne determina estensione e limiti.
In questa stessa logica ha trovato legittima collocazione la potestà normativa del Governo[6], secondo le modalità e nei limiti previsti dalla legge per la normazione primaria e secondaria (L. 400/1988). Tali limiti implicitamente chiariscono che i provvedimenti ordinatori, ordinari e straordinari, non possono avere carattere normativo[7] .
La potestà ordinatoria nella Costituzione democratica
L’entrata in vigore della Costituzione ha evidenziato il problema della compatibilità delle ordinanze straordinarie, di necessità ed urgenze, aventi effetto derogatorio sulle norme ordinarie. Il problema è stato tempestivamente percepito dalla dottrina che, rilevata la singolarità di tali ordinanze destinate a provvedere per situazioni eccezionali, ha evidenziato come nella fattispecie il potere di ordinanza abbia carattere “derogatorio necessitato” , non sancito da una norma scritta bensì derivante da una consuetudine, “che si è formata attraverso una diuturna applicazione dei poteri di ordinanza” [8] . Altra dottrina, in merito alle norme disciplinanti la potestà ordinatoria del Prefetto, ha evidenziato come l’art. 19 del T.U.L.C.P.(R.D. n.383/1934), riferendosi ad ogni specie di pubblica emergenza, autorizza “un’ingerenza nella vita sociale fra le più larghe che si possano immaginare”. Allo scopo di evitare che tale ingerenza possa giustificare “ogni sorta di arbitrio”, sottolinea la necessità di definire i limiti dell’esercizio di tale potestà puntualizzando che il provvedimento d’urgenza deve essere temporaneo, fino al perdurare dell’emergenza; non deve introdurre una vasta regolamentazione della materia; non può annullare “leggi o sentenze giudiziarie” ma “può sospenderne l’applicazione in vista di determinate esigenze”[9].
Per definire l’appropriata collocazione della potestà di deroga nell’ ordinamento vigente, coerente con i principi dello stato di diritto, è stato decisivo l’intervento della Corte Costituzionale[10]. La giurisprudenza costituzionale ha chiarito che le ordinanze straordinarie -di necessità ed urgenza- non possono essere in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento, specialmente qualora tali principi siano contenuti in precetti della Costituzione che non consentono possibilità di deroga neanche da parte di legge ordinaria. Invece, nelle materie coperte da riserva relativa di legge, risulta ammissibile che la legge ordinaria attribuisca all’autorità amministrativa l’emanazione di atti incidenti sugli atti normativi, purché la legge indichi criteri appropriati a delimitare la discrezionalità dell’organo investito del potere.
Pertanto, è possibile che una norma ordinaria conferisca all’autorità amministrativa il potere di emettere ordinanza di necessità ed urgenza, purché siano definiti i limiti all’esercizio di tale potere. Ha chiarito, inoltre, che tali ordinanze, anche quando “prevedano, per ragioni di urgente necessità, in deroga alla legge nei limiti dalla stessa consentiti”, non rientrano tra le fonti normative. Gli atti derogatori sono, quindi, provvedimenti il cui contenuto non è prestabilito dalla legge, suscettibili di assumere un contenuto vario “per adeguarsi in modo duttile alle mutevoli situazioni”. In sostanza, le ordinanze derogatorie non possono essere comprese tra le fonti dell’ordinamento giuridico né essere equiparate ad atti con forza di legge per “il solo fatto di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge”.
In definitiva, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che la potestà di deroga non è riconducibile alla potestà normativa, bensì costituisce una potestà amministrativa, esercitatile nei casi previsti dalla legge. L’esercizio della potestà di deroga, quindi, attribuisce all’autorità amministrativa non la facoltà dispositiva necessaria per superare il dettato della legge ordinaria, bensì l’autonomia di intervenire in via autoritativa per fronteggiare situazioni eccezionali che non possono essere gestite con l’attività istituzionale ordinaria. Ciò implica che i provvedimenti derogatori debbano avere efficacia limitata alla soluzione dell’emergenza contingente, senza incidere nel quadro normativo generale. Infatti, la mancata determinazione dei contenuti degli atti derogatori evidenzia come essi siano destinati a rimediare alle conseguenze di eventi eccezionali, però non giustifica l’estensione dell’autoritatività amministrativa fino all’adozione di atti normativi. Peraltro, la puntualizzazione che il contenuto degli atti derogatori debbano essere in linea con i principi generali dell’ordinamento giuridico sembra confermare che tali atti non possano incidere in modo modificativo (innovativo od abrogativo) nel contesto normativo vigente.
In linea con l’orientamento della Corte Costituzionale, la L. 400/1988 nella disciplina della “potestà normativa del Governo” non prevede la potestà di ordinanza, confermando implicitamente che le ordinanze derogatorie hanno natura giuridica di provvedimento amministrativo. Coerentemente, specifiche norme disciplinano le ordinanze di necessità ed urgenza e la potestà di deroga[11]. Tali norme confermano la singolarità della potestà di deroga quale significativa espressione dell’azione pubblica in quanto l’esercizio di questa potestà evidenzia come gli interventi autoritativi siano destinati al soddisfacimento degli interessi della collettività non soltanto nei casi in cui le norme vigenti forniscano indicazioni certe sui compiti affidati alla P.A., bensì anche qualora non si possa prevedere il profilarsi di talune esigenze per le quali non risulti possibile definire le modalità d’intervento. Pertanto, verificata la necessità di un intervento pubblico per prevenire conseguenze pregiudizievoli derivanti da eventi eccezionali, l’attribuzione della potestà di deroga ad alcune autorità costituisce lo strumento più efficace e produttivo per assicurare che l’attività pubblica mantenga continuità logica e sistematica.
Un tentativo di regolamentazione della potestà di deroga
Gli esiti del dibattito della dottrina e l’orientamento della giurisprudenza costituzionale hanno agevolato il progressivo affinamento della regolamentazione delle ordinanze straordinarie e della potestà di deroga fino alla stesura dell’art.5 della L. 225/92 (istitutiva del Servizio Nazionale della Protezione Civile), che per l’architettura sistematica della formulazione potrebbe costituire la disciplina generale della materia.
Questa norma, in particolare, statuisce che il Consiglio dei Ministri delibera lo stato di emergenza che giustifica l’attuazione di provvedimenti adottati “anche a mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico”. Statuisce, inoltre, che le ordinanze derogatorie devono essere motivate. In concreto, sancisce che un atto politico del Governo costituisce la condizione per l’esercizio della potestà di deroga; determina i limiti delle ordinanze in deroga nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico; conferma che le ordinanze hanno natura giuridica di provvedimento amministrativo, specificando che quelle derogatorie devono essere motivate.
La previsione della delibera governativa sullo stato di emergenza sgombra il campo da ogni ipotesi di facoltà dispositiva dell’Esecutivo nell’esercizio della potestà di deroga. Anzi, evidenzia un’inequivocabile responsabilità politica del Governo che deve accertare se sussistano le condizioni per autorizzare la P.A. ad approntare la disciplina per un caso concreto al duplice scopo di fronteggiare una situazione contingente e di controllare un pericolo incombente. Tenuto conto che lo stato di necessità rafforza il dovere di agire per la realizzazione degli interessi della collettività e giustifica l’adozione di provvedimenti anche in deroga a talune norme, la determinazione dei limiti all’esercizio della potestà di deroga conferma che tale potestà deve essere esercitata secondo modalità rispecchianti la continua e coerente aderenza ai principi della correttezza pubblica. Conferma, in sostanza, che l’attività pubblica, anche quando destinata alla gestione di situazioni contingibili ed urgenti, deve essere attuata secondo criteri di logicità, che assicurano unitarietà d’indirizzo ed imparzialità e garantiscono la sostanziale uguaglianza tra tutti i cittadini. La specifica previsione della motivazione, oltre ad evidenziare la natura giuridica di provvedimento amministrativo, conferma l’esigenza di garantire piena trasparenza riguardo alle scelte discrezionali che giustificano l’esercizio della potestà di deroga.
L’architettura complessiva di questa norma rende di plastica evidenza come nel rispetto dei principi dello stato di diritto, risulti possibile disciplinare l’attività pubblica anche in materie di assoluta singolarità, distinguendo le responsabilità politiche del Governo e le responsabilità amministrative delle autorità intervenute.
L’assoluta singolarità della potestà di deroga è confermata dalla previsione che il relativo esercizio è finalizzato esclusivamente a disciplinare gli interventi richiedenti l’esercizio di poteri straordinari, mentre devono essere gestiti in via ordinaria gli interventi che possono essere affrontati con la normale attività istituzionale di singoli enti o amministrazioni ovvero con l’azione coordinata di più enti o amministrazioni (art.2, comma 1 lett. a e b, L.225/92).
La tendenza alla normalizzazione del ricorso alle procedure emergenziali
La determinazione dei principi generali in materia di esercizio della potestà di deroga per la gestione delle emergenze ha stimolato positivamente l’organizzazione pubblica che ha realizzato un sistema operativo che consente di governare/gestire gli interventi di protezione civile con tempestività ed efficacia. L’efficienza conseguita ha rimarcato l’essenzialità dell’esercizio della potestà di deroga come strumento irrinunciabile per l’adozione di iniziative che, qualora assunte nel rispetto delle regole e delle procedure ordinarie, non avrebbero ottenuto effetti risolutivi.
Tuttavia, in mancanza di una consolidata cultura dell’emergenza che consenta di riconoscere le circostanze realmente eccezionali che giustificano le deroghe temporanee e contingenti alle norme ordinarie, è emersa la tendenza a normalizzare il ricorso al regime delle emergenze per fronteggiare situazioni richiedenti un particolare impegno operativo.
La normalizzazione del regime dell’ emergenza si è formata per effetto della prassi che tende a promuovere l’applicazione della normativa emergenziale a situazioni connotate da un elevato grado di rischiosità per gli interessi della collettività ma affrontabili con le risorse ed i mezzi delle strutture ordinariamente competenti (art. 2, comma 1 lett.a e b, L. 225/92). Questa prassi ha determinato il ricorso al regime commissariale derogatorio non soltanto nelle tipiche ipotesi di pericolo (calamità naturali, catastrofi) ma anche nelle situazioni in cui la pericolosità sia riconducibile all’inefficienza ed alla inadeguatezza delle strutture pubbliche[12]. Inoltre, il ricorso sempre più frequente all’esercizio della potestà di deroga ha posto il dubbio sulla configurabilità di un “diritto dell’emergenza” come sistema alternativo all’assetto normativo vigente[13].
segue, estensione della disciplina dell’emergenza ai “grandi eventi”
Nella logica della normalizzazione del regime dell’emergenza trova collocazione l’estensione dell’esercizio della potestà di deroga per fronteggiare i grandi eventi “diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza” (art. 5 bis, comma 5, D.L. 7/9/2001, convertito dalla L. 9/11/2001). Secondo questa norma i grandi eventi concretizzano il pericolo di danni all’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente; pertanto, pur essendo differenti dagli eventi richiedenti la dichiarazione dello stato di emergenza, devono essere gestiti attraverso l’esercizio della potestà di deroga.
La formulazione ampia della norma, unitamente a quanto sancito dall’art. 14 del D.L. 23/5/2008 n.90, come modificato dalla legge di conversione 14/7/2008 n.123, che con una norma di interpretazione autentica ha previsto che i provvedimenti adottati per la gestione delle emergenze e dei grandi eventi non sono soggetti al controllo di legittimità della Corte dei Conti, ha indotto la Presidenza del Consiglio a puntualizzare il concetto di “grande evento”. Un’apposita direttiva[14] specifica che i grandi eventi, pur essendo sostanzialmente diversi dagli stati di emergenza, hanno rispetto ad essi un comune denominatore nell’esigenza di ricorrere all’esercizio di poteri e mezzi straordinari per attuare strategie di intervento che consentono di conseguire obiettivi di preminente interesse pubblico, non raggiungibili in base agli ordinari assetti normativi e procedurali
Esercizio libero della potestà ordinatoria
A fronte di questa puntualizzazione del Governo, risulta significativo l’orientamento di un’autorevole dottrina[15] secondo cui il richiamato art. 5 bis, comma 5, “amplia il catalogo delle situazioni nelle quali è possibile instaurare il regime d’eccezione ed attivare il potere necessitato di ordinanza”. In particolare, questa dottrina precisa che un fatto straordinario giustifica l’instaurazione dello stato di eccezione soltanto se l’evento sia caratterizzato da imprevedibilità. Pertanto, il ricorso ai poteri di emergenza risulta giustificato per fronteggiare un evento improvviso ed imprevedibile, non altrimenti fronteggiabile, ma non per sopperire alle lacune normative. Rileva, poi, che gli “istituti emergenziali… comportano gravi deroghe al principio di separazione dei poteri, alla
forma di governo ed alla stessa garanzia della libertà, … accettabili solo di fronte ad un fatto straordinario che pone in pericolo diritti, beni, e principi giuridicamente riconosciuti”. Sottolinea, inoltre, che “al di fuori di questo essenziale presupposto il ricorso a competenze emergenziali rappresenta uno dei modi attraverso i quali i governanti violano il sistema di limiti e controllo che presidia il loro operato”.
Alla luce di questo orientamento della dottrina, la diffusione delle ordinanze di protezione civile e per grandi eventi desta perplessità sulla legittimità delle norme che prevedono la potestà di deroga, perché l’attribuzione di tale potestà concretizzerebbe l’esercizio libero del potere di ordinanza. La sostanziale libertà del potere di ordinanza sarebbe riscontrabile nella piena autonomia dell’autorità di determinare il contenuto derogatorio e nell’assenza di ogni controllo da parte degli organi preposti a garantire il rispetto della Costituzione. Infatti, le ordinanze derogatorie, pur incidendo per un tempo limitato sull’applicazione di norme di legge, non sono assoggettabili al controllo di legittimità costituzionale. Inoltre, le dichiarazioni dello stato di emergenza e di grande evento sono emanate rispettivamente con delibera del Consiglio dei Ministri e con decreto del Presidente del Consiglio, ossia con atti di governo caratterizzati da autonomia sostanzialmente assoluta che -come tali- sfuggono ad ogni controllo degli organi garanti del rispetto della Costituzione. Infatti, non essendo emanati con DPR sfuggono al controllo del Capo dello Stato; essendo atti privi di efficacia normativa non sono assoggettabili al controllo della Corte Costituzionale. Infine, non può non osservarsi che nella procedura istruttoria di tali atti non è previsto il coinvolgimento, neanche consultivo, del Parlamento.
In sostanza, le perplessità sulla legittimità costituzionale delle norme disciplinanti l’esercizio della potestà di emanare ordinanze necessitate nascono dalla considerazione che l’esercizio libero del potere di ordinanza possa concretizzare il ripristino dell’esercizio dispositivo della potestà ordinatoria, creando una breccia all’applicazione del principio di legalità nei confronti della P.A. e mettendo a rischio la stabilità della struttura dello stato di diritto su cui è stato costruito l’ordinamento costituzionale.
Al riguardo, non può non osservarsi come, diversamente dall’ordinamento statutario nel quale era fondato su una prassi consolidata, oggi l’esercizio dispositivo della potestà di ordinanza avrebbe fondamento giuridico nelle stesse norme che disciplinano estensione e limiti di tale potestà; in particolare, nelle norme che sanciscono l’autonomia politica assoluta del Governo di dichiarare lo stato di emergenza ed i grandi eventi. Ciò, nonostante gli artt. 77 e 78 Cost. sanciscano la centralità del Parlamento per la valutazione delle situazioni straordinarie di necessità[16]. Nel contesto costituzionale le norme ordinarie che disciplinano l’esercizio libero del potere di ordinanza da parte delle autorità amministrative e l’autonomia politica assoluta del Governo in materia emergenziale avrebbero un sostanziale effetto controriformista, destinato a determinare la supremazia del ruolo del Governo nella definizione dell’indirizzo politico. Questo effetto controriformista avrebbe l’effetto collaterale di stemperare l’efficace applicazione dei principi di legalità, buon andamento ed imparzialità, sanciti dall’art. 97 Cost. come riferimenti essenziali per assicurare il funzionamento produttivo e corretto della P.A. e l’equo trattamento degli amministrati[17].
La corretta applicazione di questi principi non può essere assicurata attraverso la definizione dettagliata dei contenuti dei provvedimenti da adottare per gestire situazioni eccezionali. Tali situazioni, invero, richiedono interventi tempestivi, essenziali per garantire la continuità dell’azione esecutiva per la sicurezza generale. Di conseguenza, la corretta applicazione dei richiamati principi costituzionali sull’attività amministrativa è affidata essenzialmente alla sensibilità istituzionale delle autorità competenti, orientata ad interpretare le norme disciplinanti la gestione delle emergenze nel rispetto sostanziale dei principi generali che regolano l’attività esecutiva. Qualora, invece, prevalesse un orientamento interpretativo inteso a rilanciare l’esercizio libero della potestà ordinatoria, si configurerebbe il rischio di realizzare un singolare effetto paradossale. Infatti, mentre in regime di costituzione ottriata l’attribuzione di pieni poteri al Governo avveniva per legge (L. 1601/1922), oggi, invece, in regime di costituzione democratica, sulla base dell’art. 5 delle L. 225/92 e dell’art. 5 bis,comma 5, del D.L. 343/2001, il Governo avrebbe la facoltà di autoattribuirsi i pieni poteri, nonché di autorizzare, con un atto politico assolutamente libero, l’autorità amministrativa ad esercitare in modo sostanzialmente dispositivo la potestà di deroga.
La sentenza n. 115/2011 della Corte Costituzionale
L’esistenza del rischio del consolidarsi di una tendenza controriformista, emergente dall’applicazione delle norme che disciplinano l’esercizio della potestà ordinatoria, sembrerebbe confermato dall’orientamento della giurisprudenza costituzionale, espresso dalla sentenza in titolo. La Corte interviene sulla legittimità dell’art. 54 , comma 4, del D.Lgs. 18/8/2000 n.267, come sostituito dall’art. 6 del D.L. 24/7/2008 n.92, convertito con modificazioni dalla L. 24/7/2008 n.125, nella parte in cui attribuisce al Sindaco la facoltà di adottare provvedimenti di natura ordinatoria per tutelare l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
La questione di legittimità è stata sollevata perché la norma: violerebbe i principi di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità, costituenti il fondamento dell’attività amministrativa; istituirebbe una nuova fonte normativa libera ed equiparata alla legge, in contrasto con principi costituzionali che attribuiscono al Parlamento l’emanazione degli atti aventi forza e valore di legge.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità perché la norma conferisce al Sindaco il potere di emanare ordinanze ordinarie con discrezionalità sostanzialmente illimitata. Nella motivazione richiama una precedente sentenza (n.196/2009) in cui rilevava che le ordinanze adottate sulla base di tale norma consentono l’adozione di “provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana”. Precisato che se correttamente interpretata la norma risulterebbe libera da vizi di legittimità, chiarisce che il potere conferito si presenta come “esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun limite”, salvo quello finalistico “genericamente” indicato nella tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana. In merito, richiama il principio giurisprudenziale consolidato secondo cui in ogni conferimento di poteri amministrativi deve essere osservato il principio di legalità sostanziale, posto a fondamento dello stato di diritto, che non consente “l’assoluta indeterminatezza” del potere conferito, da cui consegue la “totale libertà” dell’autorità investita della funzione. Pertanto, risulta indispensabile che l’esercizio del potere conferito “sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”.
Ciò premesso, la motivazione chiarisce che l’illegittimità della norma è costituita dalla violazione degli artt. 23 e 97 , ed anche dell’art. 3 della Costituzione. In particolare, l’art. 23 Cost. “implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione”. Come già precisato da precedenti sentenze (n. 4/1957 e n.190/2007) “l’art. 23 Cost. impone che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione”. Inoltre, secondo l’art. 23 Cost. i consociati “sono tenuti secondo un principio supremo dello stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge”. Di conseguenza, la mancata previsione, nella norma censurata, di limiti alla discrezionalità amministrativa viola l’art. 23.
Analogamente la violazione dell’ art. 97 Cost., che istituisce una “riserva relativa di legge allo scopo di assicurare l’imparzialità della pubblica amministrazione” è riconducibile al fatto che nella norma censurata l’imparzialità pubblica non è garantita da una previsione normativa posta a “fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza”.
La violazione dell’art.3, comma 1, Cost. deriva dall’incidenza del potere ordinatorio conferito al Sindaco sul principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. In merito, la Corte chiarisce che “gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a secondo delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci”. Di conseguenza, questa disparità di trattamento, in mancanza di un riferimento normativo per valutarne la ragionevolezza, consente all’autorità amministrativa restrizioni diverse e variegate, risultanti da valutazioni non riconducibili ad una “matrice legislativa unitaria”.
La motivazione di questa sentenza fornisce incisive indicazioni sulla essenzialità del rispetto del principio di legalità anche nell’esercizio della potestà ordinatoria ordinaria. Coerentemente con l’orientamento espresso sull’esercizio della potestà di deroga (come potestà ordinatoria straordinaria) nei limiti del rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, anche le ordinanze ordinarie devono essere adottate nei limiti sanciti dalla legge. Infatti, nelle materie coperte da riserva relativa di legge, la riserva è finalizzata a dimensionare la discrezionalità amministrativa all’esigenza di garantire la sostanziale parità di trattamento degli amministrati tenendo conto delle differenti prospettazioni dei singoli casi concreti, legate a situazioni contingenti ambientali/territoriali. In tali casi, il trattamento differenziato risulterebbe corretto rispetto al principio di imparzialità soltanto qualora la discrezionalità fosse la risultante dell’applicazione di criteri valutativi riconducibili ad una fonte legislativa unitaria.
In sostanza, per l’esatta applicazione del principio di legalità, la riserva relativa di legge in materia di imparzialità, impone la determinazione di criteri unitari a cui rapportare l’autonomia discrezionale nei provvedimenti destinati ad incidere su interessi caratterizzati da peculiari elementi concreti che richiedono una ragionevole differenza di trattamento.
Il giudizio di illegittimità della norma è fondato sulla mancata previsione di criteri unitari per apprezzare le situazioni che, nelle diverse circostanze, richiedono l’adozione di provvedimenti finalizzati a garantire l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Anzi, come formulata, la norma, attribuendo autonomia discrezionale sostanzialmente illimitata, sembra ripristinare l’esercizio dispositivo della potestà ordinatoria.
Questa sentenza consente di rilevare come, in regime democratico, la conformazione dell’ordinamento al modello dello stato di diritto, impone che la legge debba individuare gli obiettivi politici ed indicare i criteri di attuazione. Il Governo, sulla base dell’acquisita fiducia parlamentare (art.94 Cost.), oltre a concorrere alla determinazione degli obiettivi, è responsabile dell’esecuzione tramite la P.A., chiamata ad operare secondo modalità rispondenti ai principi di imparzialità e buon andamento, ispiratori dell’attività sia discrezionale che meramente esecutiva. Poiché i contenuti di questi principi sono individuabili attraverso la prudente ricerca di soluzioni per la gestione di situazioni concrete secondo modalità che garantiscano sostanziale uguaglianza di trattamento agli amministrati unitamente al governo corretto ed adeguato degli interessi generali, è necessario ed irrinunciabile che una fonte primaria definisca i criteri unitari a cui le autorità amministrative devono fare riferimento. Infatti, soltanto il rispetto dei parametri fissati dalla legge consente l’esercizio della potestà ordinatoria non in modo dispositivo bensì con la sensibilità istituzionale che lasci trasparire dalla motivazione dei singoli provvedimenti in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana la ragionevolezza della condotta autoritativa, orientata ineludibilmente a garantire l’equo trattamento degli amministrati e l’impiego razionale delle risorse assegnate.
Correttezza e autorevolezza dei provvedimenti ordinatori
Un’ulteriore riflessione su questa sentenza porta a rilevare come l’esercizio della potestà ordinatoria -ordinaria e straordinaria- debba evidenziare l’incisività della sensibilità istituzionale delle autorità, al fine di garantire l’affidabilità del sistema sicurezza, caratterizzata dalla fiducia sulla incisività dell’attività pubblica.
Tale fiducia, alimentata dalla trasparente abitualità all’osservanza della legge, è la risultante di una condotta autoritativa che renda percepibile la capacità di gestire le minacce alla sicurezza con prontezza e con prudente rispetto della legge qualora non risulti possibile impiegare le risorse e le procedure ordinarie.
In tal guisa la sensibilità istituzionale realizza la connotazione soggettiva della correttezza pubblica, che si concretizza nella credibilità dell’autorità, intesa come espressione della capacità di gestire la sicurezza con discrezionalità adeguata -per tempestività ed efficacia- alle contingenze e, al tempo stesso, con correttezza -sicura ed affidabile- nel rispetto dei criteri di buona amministrazione e di imparzialità.
La credibilità si concretizza per effetto dell’ abituale ricorso dell’autorità amministrativa all’autodisciplina della condotta istituzionale attraverso il rispetto sostanziale delle norme che regolano le attribuzioni. In concreto, la credibilità ancorata all’autodisciplina realizza la conformazione plastica della correttezza istituzionale e conferisce autorevolezza all’azione amministrativa.
In tale ambito, l’esercizio della potestà ordinatoria non può essere libero né dispositivo; deve essere, invece, connotato dall’autorevolezza tipica dei provvedimenti discrezionali di cui risulti apprezzabile la legittimità e la correttezza.
Allo scopo di prevenire orientamenti trasformistici intesi a rievocare la natura dispositiva dell’attività pubblica, occorre precisare che l’autodisciplina della condotta istituzionale implica non l’ammissibilità di una libera ricerca delle norme a cui collegare la potestà ordinatoria bensì la corretta interpretazione delle norme che regolano il contenuto e le modalità di esercizio produttivo delle potestà attribuite. In merito, un’autorevole dottrina ha chiarito che il diritto non è la sommatoria delle norme esistenti ma la risultante dell’attività interpretativa delle autorità giudiziaria ed amministrativa[18].
L’interpretazione, infatti, anche quando manchi ovvero risulti insufficiente o inadeguata la norma appropriata, consente di reperire nel contesto normativo di riferimento la disciplina da applicare per risolvere un contenzioso o per perseguire gli obiettivi istituzionali con un provvedimento discrezionale legittimo. L’attività interpretativa, in sostanza, rende possibile che la consolidata sensibilità deontologica guidi l’autorità amministrativa nella ricerca -anche con interpretazioni prudentemente evolutive- di riferimenti normativi essenziali per l’autodisciplina della condotta istituzionale, finalizzata all’assolvimento della missione assegnata.
Oggi, nella fase avanzata della realizzazione dello stato di diritto, per apprezzare il ruolo della P.A. di garante della sicurezza e di organo propulsivo della produttività, la mera applicazione della legge non esaurisce la funzione amministrativa. Sembrerebbe, invece, che attraverso l’interpretazione delle norme disciplinanti l’attività pubblica l’autorità amministrativa possa individuare l’indirizzo unitario, discendente dalla lettura sistematica dei principi generali a cui fare riferimento per il raggiungimento degli obiettivi istituzionali.
In definitiva, l’abituale ricerca dell’indirizzo unitario del Potere esecutivo attraverso l’interpretazione ed il rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico rende possibile realizzare e mantenere tra politica e diritto un equilibrio congruo, essenziale per dare puntuale attuazione al fondamento etico dello stato di diritto che, ancorato sulla conformità alla legge dell’attività istituzionale, oggi sembra rimarcare che la garanzia essenziale dell’uguaglianza solidale dei consociati risieda nell’autorevolezza dell’autorità amministrativa.
In questa prospettiva, sembrerebbe che soltanto l’esercizio autorevole possa rendere la potestà ordinatoria -ordinaria e straordinaria- strumento esecutivo, efficace e produttivo della politica di sicurezza.
ANTONINO LO TORTO
[1] C.GHISALBERTI in “Storia costituzionale d’Italia 1848/1948” Univ. LA TERZA BA 1977, a fronte dell’orientamento liberale dell’epoca che riteneva la costituzione non già un dono elargito dal sovrano ma una convenzione tra questo e la nazione i cui diritti preesistevano alla concessione, evidenzia come nel dibattito svoltosi per la formazione dello statuto Albertino nel Consiglio di Conferenza piemontese prevalse l’opinione di rimanere legati allo schema ideologico dell’octroi francese del 1814 e si volle che apparisse chiaro il carattere spontaneo e volontario dell’elargizione compiuta dal sovrano con la concessione della costituzione. Vol. I,pag.29
Di diverso avviso G.AMBROSINI in “Costituzione Italiana” P.B.EINAUDI TO 1975 “Le costituzioni dell’Ottocento non sono atti di autolimitazione del potere regio, come forse possono indurre a ritenere i preamboli con le formule di perpetuità e irrevocabilità della Costituzione; proprio queste formule testimoniano i limiti oggettivi del potere costituente del sovrano, il quale può sì “concedere” la costituzione, ma è privo della potestà di abrogarla o di limitarla”. Introduzione, pag. VII
[2] In tal senso G. DICOSIMO in “Sulla continuità fra STATUTO e COSTITUZIONE” in Riv. Telematica dell’A.I.C. n.1/2011
[3] A. CODACCI PISANELLI in “Sulle ordinanze di urgenza” in “Scritti di diritto pubblico” Città di Castello 1900,riportata da A. TARANTINO in “La sovranità valori e limiti” MI 1990, pag. 186 e segg. L’A. ha sostenuto l’ammissibilità nel diritto italiano delle ordinanze d’urgenza ricollegandosi al bill d’indennità di origine anglosassone. In estrema sintesi, evidenzia che in tale ordinamento il Governo, in casi eccezionali di necessità, sotto la sua responsabilità adotta atti aventi forza di legge. In tali casi il Parlamento, qualora ritenga opportuno l’uso straordinario di tale facoltà, con apposita legge emana il bill d’indennità che esonera i ministri da ogni responsabilità.
[4] P. VIRGA “La potestà di polizia” MI 1954. L’A. chiarisce che la polizia: nello stato assoluto comprendeva tutto il campo dell’amministrazione interna tranne i settori espressamente esclusi dal sovrano; nello stato di polizia dalle materie di competenza furono escluse le materie riguardanti gli affari esteri, la guerra e le finanze, ed inoltre fu separata l’amministrazione della giustizia dall’amministrazione interna di polizia; nello stato di diritto il potere di polizia si differenzia dagli altri poteri amministrativi, specialmente da quelli inerenti alla funzione sociale dello stato. Chiarisce, altresì, la differenza tra polizia di sicurezza ed amministrativa, precisando che la polizia dii sicurezza è finalizzata a tutelare la collettività contro i pericoli e le turbative che minaccino la sicurezza e l’ordine pubblico, invece la polizia amministrativa è intesa a tutelare la collettività in particolari settori della vita sociale; di conseguenza esistono tante branche della polizia amministrativa quanti sono i servizi ed i beni che nell’interesse generale richiedono un’apposita tutela.
Analogamente, G.B. TUFANELLI “Polizia Amministrativa” in Nss.Dig. Ita., definiva l’attività di polizia amministrativa come attività finalizzata alla conservazione dello Stato, destinata alla tutela dell’ordinamento giuridico.
[5] G. SILVESTRI in “Lo stato di diritto nel XXI secolo” in Riv. Telematica della A.I.C. 26/5/2011, esplicita l’evoluzione dello stato di diritto in stato sociale di diritto. L’A. chiarisce che stato di diritto e stato sociale devono mantenersi in rapporto di “tensione fruttuosa” per evitare l’incontrollato prevalere di interventi amministrativi particolari, non sorretti da previsioni legislative. Sottolinea che lo stato di diritto sopravvive e si riproduce all’interno dello stato sociale “sotto forma di sintesi di eguaglianza dei cittadini e imparzialità della pubblica amministrazione”.
[6] A.M. SANDULLI in “L’attività normativa della P.A.” NA 1970. L’A. in questo studio, attraverso l’analisi di origine, funzione e caratteri, chiarisce la collocazione dei regolamenti nel quadro sistematico dell’ordinamento vigente ispirato dai principi dello stato di diritto e dello stato sociale che impongono l’interessamento dei pubblici poteri alla vita dei consociati non soltanto per garantire loro “coesistenza e convivenza” ma anche per il loro “benessere materiale e morale”. Nello stato democratico il Governo rappresenta la cerniera del sistema politico che congloba la funzione di punto di orientamento, guida, coodinamento dei vari centri di potere operativo con la funzione di ispiratore e promotore dell’attività legislativa, destinata a costituire lo strumento essenziale degli obiettivi prescelti in sede politica. In questo quadro i regolamenti governativi sono diventati una soltanto delle numerose forme di estrinsecazione della potestà normativa conferita alla P.A., destinata a disciplinare non più l’organizzazione, le attività amministrative ed i rapporti tra singole Amministrazioni pubbliche, ma anche, e sempre più diffusamente, rapporti interprivati. L’A. evidenzia, altresì, che nel sistema democratico la potestà normativa riconosciuta ad autorità del complesso apparato Governo-Amministrazione è sempre più espressione di autonomia destinata ad esplicitarsi nel quadro e nell’ambito delineato e delimitato dall’ordine legislativo.
[7] A.M. SANDULLI ope. cit. pag.97.
[8] In tal senso si è espresso M.S. GIANNINI in “Potere di ordinanza ed atti necessitati” in Giurisprudenza completa della Corte di Cass., Sez. Civ. Vol XXVII 1948, 1° quadro pag. 383.
[9] In tal senso C. VITTA in “Diritto Amministrativo” TO 1948 Vol I, pag, 502 e segg.
[10] La Corte Costituzionale si è espressa sulla questione con diverse sentenze, delle quali le più incisive sono: n.8 del 20/6/1956 e n. 26 del 23/5/1961 sulla legittimità dell’art. 2 del R.D. 18/6/1931 n.773; n.4 del 4/1/1977 sulla legittimità dell’art. 20 del R.D. 3/3/1934 n. 383.
[11] G. MARAZZITA in “il conflitto tra autorità e regole: il caso del potere di ordinanza” in Riv. Telematitica A.I.C. n.00 del 2/7/2010. L’A. sviluppa un’approfondita analisi delle norme che disciplinano le ordinanze in deroga.
[12] F. SALVIA in “ Il diritto amministrativo e l’emergenza derivante da cause e fattori interni all’Amministrazione”. Relazione al Convegno dei professori di Diritto Amministrativo dell’emergenza”. Roma 6/7 ott. 2005 Università Roma Tre in Diritto Amministrativo Anno XIII Fasc.4/2005. L’A. evidenzia il delinearsi di un assetto organizzativo per le emergenze che “tende sempre più a perdere gli originari caratteri della precarietà ed eccezionalità per trasformarsi in una complessa e duratura organizzazione extra ordinem che si affianca a quella ordinaria…”.Inoltre, sottolinea che, oggi, l’espansione dell’esercizio della potestà di deroga “deriva…dall’incapacità endemica dell’apparato amministrativo ordinario a risolvere i problemi della normalità… Le ordinanze di emergenza servono in sostanza a legittimare la disapplicazione del diritto esistente, nel convincimento… che solo rompendo le righe, sfuggendo alle strettoie della legislazione esistente e dei normali procedimenti amministrativi sia possibile risolvere i problemi. Non si vogliono in realtà creare organi straordinari più efficienti, ma conferire (secondo una tendenza che è ricorrente in tutti i periodi di crisi) attribuzioni straordinarie agli organi normali”.
[13] C. PINELLI in “Un sistema parallelo. Decreto legge e ordinanze d’urgenza nell’esperienza italiana”. Relazione al Convegno del Gruppo S.Martino, Università di Milano Bicocca, 13 nov. 2009, su “ Recenti novità nell’uso dei poteri normativi del Governo”, in Riv. Telematica A.I.C. . L’A. sottolinea che gli scostamenti dalla legalità sono il risultato “di contingenti valutazioni di convenienza dei governi in carica nel ricorrere a decreti-legge anziché alla presentazione di disegni di legge, o nel dichiarare lo stato di emergenza anziché nell’adottare decreti-legge, e di una inadeguata reazione a tali scelte in sede di controllo giurisdizionale”.
[14] Direttiva del Presidente del Consiglio del 27/7/2010, pubblicato in G.U. 10/8/2010, n.185).
[15] G. MARAZZITA in ope.cit. in nota 11.
[16] G. MARAZZITA in ope.cit in nota 11. L’A. puntualizza al riguardo che sia l’art.77 che l’art.78, nonostante stabiliscano diverse procedure per diverse emergenze, attuano il medesimo principio: la centralità decisionale dell’organo direttamente rappresentativo della sovranità popolare, anche nelle situazioni emergenziali. Creando una soluzione di continuità rispetto all’ordinamento statutario si è voluto fare della forma di governo un principio organizzativo inderogabile in ogni situazione e quindi anche in tema di emergenza”.
[17] G. RAZZANO in “Le ordinanze di necessità e di urgenza nell’attuale ordinamento costituzionale” in Riv. Telematica A.I.C. 9/10/2008. L’A. evidenzia che “l’ampiezza, la diffusione, la frequenza, l’incontrollabilità e la durata degli stati d’eccezione… evidenziano paradossalmente che, in confronto, il contestato art.2 del T.U.L.P.S. è , in fondo, meno lesivo dei diritti e delle garanzie costituzionali”.
[18] A. PIZZORUSSO, “fra jus e regulae” in Giurisprudenza Ita., Vol. CXLVI,1994, Parte IV.
http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/studi_contributi/La_potesta_ordinatoria.htm