Data: 2017-01-24 10:37:33

SUPERFICIE ESPOSITIVA negli esercizi commerciali

Si all'uso di edicole o vetrine di appoggio per estendere la superficie espositiva degli esercizi commerciali

[color=red][b]Cons. di Stato, Sez. VI, 17 gennaio 2017, n. 172[/b][/color]

[b]COMMENTO[/b]: http://www.quotidianopa.leggiditalia.it/quotidiano_home.html#news=PKQT0000169604

[b]SENTENZA[/b]

Pubblicato il 17/01/2017
N. 00172/2017REG.PROV.COLL.

N. 08269/2015 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8269 del 2015, proposto da Maurizio Rosatti, rappresentato e difeso dagli avvocati Corrado Diaco C.F. DCICRD60D03I820W, Simona Gambardella C.F. GMBSMN68P62F839F, con domicilio eletto presso Alberto Linguiti in Roma, Viale G. Mazzini, n. 55;
contro
Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Maria Ferrari C.F. FRRFMR59P10F839X, Giacomo Pizza C.F. PZZGCM62L29G190E, con domicilio eletto presso Nicola Laurenti in Roma, via Francesco Denza, n. 50/1;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE IV n. 01576/2015, resa tra le parti, concernente demolizione opere edilizie abusive;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2016 il Cons. Italo Volpe e uditi per le parti gli avvocati Gambardella e Pizza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Col ricorso in epigrafe la persona fisica ivi pure indicata ha impugnato, per l’annullamento, la sentenza del Tar Campania, Napoli, n. 1576/2015, depositata il 17.3.2015, che ha respinto il suo ricorso di primo grado volto all’annullamento della disposizione dirigenziale n. 333 del 25.5.2001 con la quale gli è stata ordinata, ai sensi dell’art. 10, co. 3, della l.n. 47/1985, la demolizione di opere abusive realizzate in Napoli, via Toledo, 306 (consistenti nella costruzione di tre vetrine in ferro e vetri di mt 1,50x1,40x0,50), entro 60 giorni, secondo i criteri indicati dalla Soprintendenza di Napoli, nonché il pagamento di una sanzione pecuniaria di lire 2.000.000, trattandosi di opere eseguite su immobile vincolato ai sensi della l.n. 1089/1939.
In particolare, l’appellante, precisando di essere proprietario dal 1999 di un immobile ad uso commerciale nel palazzo nobiliare sito al civico suindicato e che le tre vetrine asseritamente abusive sono collocate su una parete del corridoio-androne di accesso allo stabile, al servizio dell’esercizio commerciale che ha l’affaccio sul cortile interno al palazzo, in sintesi riferisce (come peraltro già illustrato in primo grado) che:
- all’epoca dell’acquisto le vetrine erano già in situ, poiché anche il dante causa gestiva nell’immobile attività commerciale ed esse erano da sempre al suo servizio;
- le vetrine erano state installate “in epoca lontana e comunque prima degli anni cinquanta” dal dante causa (ossia dall’impresa commerciale “Armenio” che operava nell’immobile sin dai primi del ’900), comunque prima che la Soprintendenza apponesse vincolo sul palazzo in data 30.10.10952;
aggiungendo che, nonostante in primo grado fosse stata accolta la sua domanda cautelare e nonostante che nel corso del giudizio fosse stato prodotto il precedente costituito dalla sentenza dello stesso Tribunale n. 206/2007 col quale, relativamente allo stesso immobile e in caso analogo, era stata annullata un’ordinanza della Soprintendenza partenopea volta alla rimozione di una vetrina collocata sullo stipite destro del portale del palazzo, l’originario ricorso gli era stato respinto perché, in pratica, l’installazione delle tre vetrine risultava sine titulo, dato che tra l’altro il Comune di Napoli è dotato di un regolamento edilizio risalente al 1935 e ancora in vigore (anche ai sensi del quale un’installazione come quella di cui si discute avrebbe richiesto un’apposita autorizzazione), ed il provvedimento comunale censurato era adeguatamente motivato attraverso il richiamo all’art. 10 della l.n. 47/1985.
2. L’appello fonda sui seguenti motivi:
a) error in procedendo e in iudicando, per omessa valutazione della preesistenza delle opere contestate all’imposizione del vincolo sul palazzo, per erronea applicazione degli artt. 10, co. 1 e 3, 31, 34 e 40 della l.n. 47/1985 e per mancata valutazione del fatto che, in realtà, parte ricorrente non aveva assolutamente effettuato alcun nuovo intervento di “restauro e risanamento conservativo” suscettibile di alterate le strutture preesistenti;
b) error in procedendo e in iudicando, per erronea valutazione della sanzione concretamente applicabile alla fattispecie, al più potendosi ammettere solo una sanzione pecuniaria (non già quella del ripristino dello stato dei luoghi) ai sensi dell’art. 10, co. 1, della l.n. 47/1985;
c) error in procedendo e in iudicando, per erronea valutazione dell’incidenza del legittimo affidamento ed omessa considerazione dell’insussistenza di un interesse pubblico attuale alla rimozione delle tre vetrine.
3. Si è costituito il Comune di Napoli resistendo alle avversarie difese e in particolare soffermandosi sul fatto che:
- parte ricorrente non era stata in grado di esibire alcun titolo edilizio di idoneo assenso all’installazione delle tre vetrine e ciò a prescindere da quale fosse esattamente l’anno della loro collocazione in situ;
- in ogni caso, il vincolo era stato imposto sul palazzo (dei Principi di Monaco), una prima volta, addirittura con r.d. 2.11.1917, ossia in epoca sicuramente antecedente l’installazione delle vetrine;
- alcun valore potevano avere, in giudizio, le attestazioni di soggetti terzi – quanto all’epoca dell’installazione delle vetrine – poiché dirimente era in ogni caso l’assenza di un appropriato titolo di assenso edilizio;
- infondato era l’assunto secondo il quale, trattandosi di opere ante 1967, sarebbe stata appropriata nella specie la sola sanzione pecuniaria, e ciò perché il regolamento edilizio partenopeo del 1935 già prevedeva, in ispecie, un provvedimento di assenso che, tuttavia, nel caso in esame mancava del tutto;
- per di più, riguardando l’installazione delle vetrine un immobile vincolato, giammai la sola sanzione pecuniaria sarebbe stata sufficiente, piuttosto occorrendo procedere alla effettiva rimozione dei manufatti;
- vertendosi di illecito a carattere permanente e non potendo la proprietà ignorare l’inesistenza del previo titolo di assenso edilizio, giammai sarebbe stato da essa invocabile un legittimo affidamento, a prescindere dalla vetustà dell’intervento abusivo.
4. Parte ha appellante ha depositato memoria con la quale, riepilogando le difese, si sofferma sul fatto che, in ogni caso, le tre vetrine in contestazione costituiscono opere amovibili e, per di più, sono da sempre approntate in funzione servente, e dunque pertinenziale, dell’esercizio commerciale da essa gestito.
5. In sede di repliche scritte parte appellante, infine, ha contestato l’affermazione del Comune in ordine al fatto che il vincolo sul palazzo risalisse addirittura al 1917 ed affermato che essa era destituita di prova documentale. Di contro essa – rammaricandosi di non averlo potuto fare prima, essendone potuta entrare in possesso solo di recente, nonostante un accesso agli atti risalente addirittura al 2001 – ha prodotto documentazione sulla scorta della quale risulta che la Soprintendenza aveva assentito un progetto per installazione di vetrine nell’androne del palazzo nell’anno 1958.
Con proprie repliche il Comune ha eccepito la tardività dell’avversario deposito documentale effettuato il 20.10.2016 e, in ogni caso, l’esistenza di una differenza tra le vetrine di cui all’ultima produzione avversaria e quelle oggetto del provvedimento impugnato.
6. Occorre richiamare che la Sezione, con ordinanza n. 5072/2015, depositata l’11.11.2015, ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata.
7. La causa, chiamata alla pubblica udienza di discussione del 10.11.2016, è stata ivi trattenuta in decisione.
8. Il ricorso risulta fondato nei soli limiti di seguito indicati.
8.1. Preliminarmente occorre osservare che se, da un punto di vista prettamente tecnico, le repliche dell’appellante di cui al punto 5. supra risultano segnate da tardività di contro, però, la documentazione depositata che le ha accompagnate non è formata da atti esclusivamente di parte, dato che, piuttosto, essi esprimono materiale detenuto da una pubblica amministrazione (statale) presso la quale l’Amministrazione comunale avrebbe ben potuto – doverosamente d’ufficio – volgere le proprie attenzioni istruttorie sol che avesse inteso svolgere i propri accertamenti non soltanto nel proprio esclusivo interesse ma anche (e correttamente) in quello dalla parte privata amministrata. Una parte che, del resto, aveva da tempo segnalato al Comune – in seno al procedimento chiusosi col provvedimento originariamente impugnato – che poco ragionevolmente poteva supporsi che le contestate installazioni fossero totalmente prive di un loro titolo abilitativo.
E’ perciò consentito al Collegio, trattandosi di atti pubblici, prendere in considerazione tale documentazione, prescindendo dall’esame delle note di repliche che essa accompagnano.
Peraltro, detto in via assolutamente incidentale, per quanto versate in atti non nel pineo rispetto dei termini per esse previsti, non può sfuggire che il Comune – per quanto sinteticamente ma non per questo meno appropriatamente ed efficacemente – mostra di avere in ogni caso contraddetto a tali note di repliche con argomentazioni esaurienti. A dimostrazione che il lievemente inciso rispetto dei termini processuali non ha impedito all’ente locale – sul piano difensivo – di formarsi ed esprimere in modo adeguato un convincimento al riguardo.
Ed ancora non deve sfuggire che gli atti da ultimo depositati non erano già nella disponibilità materiale dell’appellante (cosa in sé comprensibile anche se non del tutto giustificabile, visto che si tratta di atti espressivi di connotazioni dell’esercizio commerciale di cui la nuova proprietà ben avrebbe potuto dotarsi già all’epoca in cui essa lo ha rilevato dalla precedente proprietà) sibbene acquisiti dagli uffici pubblici che li detenevano soltanto a seguito di apposito procedimento di accesso, la cui tempistica non può dirsi essere stata propriamente sollecita, per quanto in ragione di fattori non scrivibili alla responsabilità dell’appellante.
8.2. Ebbene questa documentazione testimonia in modo sufficientemente incontrovertibile che le vetrine in contestazione (sebbene in una foggia e dimensione non esattamente corrispondenti da quella loro attuale) sono state assentite dalla Soprintendenza nell’anno 1958.
Il Comune non ha potuto negare questo fatto, in sé, residuandogli solo la possibilità di eccepire, come detto, la non totale corrispondenza morfologica tra le vetrine odierne e quelle consentite dall’Autorità statale, responsabile del rispetto del vincolo apposto sull’edificio, sul finire degli anni ’50 dello scorso secolo.
La documentazione – tenuto conto dell’Autorità statale che l’ha formata o comunque esaminata a e valutata all’epoca – testimonia indirettamente anche un fatto ulteriore, ossia che il vincolo sul fabbricato fu apposto o poco prima della formazione della documentazione stessa (secondo una tesi che pure è emersa nel corso del giudizio) o molto prima (cioè nel 1917 come sostiene il Comune resistente).
Come che sia a questo specifico riguardo, però, il dato in sé (momento esatto dell’apposizione del vincolo) risulta del tutto irrilevante una volta che sia constatabile che l’Autorità statale preposta alla cura del vincolo ha permesso, all’epoca, l’installazione di vetrine lungo l’ingresso-androne di accesso al cortile interno del palazzo ex nobiliare.
8.3. Non stupisce che, a Napoli, sia stato permesso che la struttura di ingresso ad un palazzo d’epoca e di rilevante interesse venisse arredata con strutture non coerenti con la morfologia della struttura architettonica e costruttiva dell’edificio quanto piuttosto giustificate da una funzione servente rispetto all’attrattività della clientela da parte di un esercizio commerciale posto al livello stradale interno dell’edificio stesso.
E’ sufficientemente noto, invero, che in quella città non è affatto costume infrequente (e da epoche risalenti) che esercizi commerciali usino estendere – col permesso della Amministrazione – la loro superfice espositiva ricorrendo alla tecnica di edicole o vetrine in appoggio a pareti o porzioni di pareti (degli edifici che ospitano tali esercizi) che poco hanno a che fare – in termini di stretta e diretta prossimità – con gli usci e gli ingressi degli esercizi stessi. Una pratica che, del resto, ben può comprendersi ove si consideri che altrettanto frequentemente, in quella città, esercizi commerciali sono dislocati non proprio sulla pubblica quanto piuttosto in aree morfologicamente interne a fabbricati privati le cui corti, però, finiscono comunque per essere proiezione della pubblica via, aperte come sono al transito e passeggio del pubblico, possibile cliente degli esercizi commerciali in questione.
[b]L’assenso amministrativo alla collocazione di tali edicole e vetrine espositive, dunque, altro non esprime se non il consenso a che esercizi commerciali non propriamente esposti – per la collocazione della loro sede – alla normale vista dei passanti possano nondimeno compensare il loro deficit di conoscibilità ed attrattività (causato dalla dislocazione dei locali commerciali) mediante il ricorso ad ideali e distanti proiezioni delle loro (fisicamente) normali potenzialità espositive.[/b]
Anche nel caso di specie, in verità, le contestate vetrine altro non esprimono che una fenomenologia coerente con la prassi sopra ricordata, suscettibile peraltro di costituire di per se stessa una componente caratteristica e caratterizzante dell’arredo commerciale urbano, di antica tradizione specie nel centro città.
[b]8.4. Se, dunque, le contestate vetrine risultano esistere da non poco tempo (e questo grazie proprio ad atti della stessa pubblica amministrazione) e da non poco tempo risultano esposte agli occhi di tutti, appare singolare per un verso che gli Uffici investigativi dell’Amministrazione cittadina solo ora si siano accorti della loro presenza e, per altro verso, che alla recente discoperta (recente solo questa, però) l’Amministrazione abbia reagito – senza prima documentarsi appropriatamente, anche attraverso consultazione degli archivi di altri pubblici Uffici la cui ragionevole competenza poteva essere prevedibile con un minimo di diligenza – in modo talmente rigoroso da giungere addirittura all’impugnato ordine di loro rimozione totale e, in più, alla pur contestata irrogazione di sanzione pecuniaria conseguente al fatto che le vetrine appoggiano su pareti di edificio storico.[/b]
[color=red][b]Più equilibratamente – tenuto altresì conto dell’indubbio legittimo affidamento ingeneratosi nell’attuale proprietà dell’esercizio commerciale in questione proprio in conseguenza della risalente presenza delle vetrine in argomento – l’Amministrazione avrebbe dovuto semmai chiedere al titolare di tale esercizio la riduzione delle vetrine ad uno stato (per dimensioni e materiali impiegati) quanto più prossimo a quello loro originario, ricavabile dai rilievi emergenti dalla documentazione che testimonia l’assenso amministrativo alla loro presenza.[/b][/color]
Del resto, in una cosa la prospettazione del Comune resistente non sembra poter essere ragionevolmente eccepita e cioè che la non corrispondenza dimensionale ed estetica delle vetrine attuali a quelle originariamente assentite è plausibilmente da ascrivere a manipolazioni – queste sì prive di propri assensi amministrativi preventivi – delle vetrine esterne risalenti ad epoca successiva a quella nella quale essere vennero assentite per la prima volta.
8.5. In conclusione, l’appello merita parziale accoglimento e, per l’effetto, la sentenza impugnata deve essere riformata, con annullamento del provvedimento impugnato in primo grado, nel senso – sinteticamente detto – che le vetrine contestate meritano di rimanere in situ sebbene ricondotte al loro stato originariamente assentito.
A questi fini, nella prospettiva dell’ottemperanza, alla parte privata e alle Amministrazioni interessate non mancherà modo di porre in essere gli atti di rispettiva competenza conseguentemente occorrenti.
9. Tenuto conto dei diversi aspetti che hanno connotato il caso in questione e dell’esito complessivo del giudizio cui si è pervenuti, ricorrono giustificati motivi per compensare integralmente fra le parti le spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie in parte il ricorso, riformando conseguentemente la sentenza impugnata ed annullando perciò il provvedimento originariamente impugnato in primo grado, nei termini di cui in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2016 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro, Presidente
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Andrea Pannone, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Italo Volpe, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Italo Volpe Sergio Santoro





IL SEGRETARIO

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