LICENZIATO per invio di email diffamatorie verso i superiori - Cass. 18404/2016
[color=red][b]Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 maggio – 20 settembre 2016, n. 18404[/b][/color]
Presidente Nobile – Relatore Manna
Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 26.1.15 la Corte d'appello di Milano rigettava il reclamo proposto da E.P. contro
la sentenza dei Tribunale di Monza che ne aveva respinto l'impugnativa del licenziamento disciplinare
intimatogli da Videotime S.p.A. il 21.5.13 per il contenuto - qualificato come diffamatorio nei confronti di
due dirigenti aziendali - di [color=red][b]una e-mail inviata dal lavoratore a numerosi altri dipendenti della società[/b][/color].
Per la cassazione della sentenza ricorre E.P. affidandosi a due motivi.
Videotime S.p.A. resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 18 co. 10 legge n. 300/70, 1345, 1324,
2727 e 2729 c.c., 421 c.p.c. e 28 co. 40 d.lgs. n. 150/11, per avere la sentenza impugnata negato il carattere
discriminatorio - dovuto all'orientamento sessuale del ricorrente - del licenziamento per cui è causa,
nonostante che numerose e pacifiche circostanze di fatto e risultanze processuali, non considerate dai
giudici del reclamo, deponessero in tal senso; inoltre - si prosegue nel motivo - la Corte territoriale ha
travisato il tenore dei messaggio di posta elettronica oggetto della lettera di contestazione disciplinare.
I! motivo va disatteso perché si colloca all'esterno dell'area di cui all'art. 360 c.p.c.
Invero, ad onta dei rinvio a norme di diritto, in realtà in esso si suggerisce esclusivamente una generale
rivisitazione del materiale istruttorio affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla
sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di
vizio di motivazione.
In altre parole, il ricorso si dilunga nell'opporre al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie
difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non è idoneo a segnalare un vizio denunciabile ai
sensi dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (nel testo, nel caso di specie applicabile ratione temporis, novellato
dall'art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge 7.8.2012 n. 134) né, a maggior ragione, ai sensi degli altri
canali di accesso al giudizio di legittimità tassativamente indicati dall'art. 360 c.p.c.
La nuova formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (applicabile, ai sensi dei cit. art. 54, co. 30, alle
sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di
conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa
sede impugnata) rende denunciabile per cassazione solo il vizio di "omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
In tal modo ii legislatore è tornato, pressoché alla lettera, all'originaria formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5
c.p.c. dei codice di rito del 1940.
Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053 (e dalle successive
pronunce conformi), le S.U. di questa S.C., nell'interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo
notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di "minimo costituzionale", ossia
lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di
legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius
litigatoris.
Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di
motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell'art. 132 co. 2° n.
4 c.p.c.
Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente,
oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua
contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in
detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante
confronto con le risultanze probatorie.
Per l'effetto, il controllo sulla motivazione da parte dei giudice di legittimità diviene un controllo ab
intrinseco, nel senso che la violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c. deve emergere obiettivamente dalla
mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti
acquisiti nel corso dei gradi di merito.
Secondo le S.U., l'omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e,
quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o
modificativo dei diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).
Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. anche
l'omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia
necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all'esito dell'istruttoria
come astrattamente rilevanti.
A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto
storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può
risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza dei dato testuale) o
dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico dei ricorrente ai sensi degli artt. 366
co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.: il ricorso deve non solo indicare chiaramente il fatto storico dei cui
mancato esame ci si duole, ma deve indicare il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale
(emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia
stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.
L'omesso esame dei fatto decisivo si pone, dunque, nell'ottica della sentenza n. 8053/14 come il "tassello
mancante" (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto
a premesse date nel quadro dei sillogismo giudiziario.
Invece, il ricorso in oggetto, oltre a non rispondere ai requisiti prescritti dalla citata sentenza delle S.U.,
invoca una generale rivisitazione nel merito dì tutto il materiale probatorio acquisito in sede di merito, il
che non è consentito innanzi a questa Corte Suprema.
Né può dirsi che i giudici di merito abbiano omesso di esaminare i fatti decisivi che avrebbero consentito di
qualificare come discriminatorio il licenziamento per cui è causa: anzi, hanno espressamente segnalato che
già nel 2010, pur in presenza di un altro addebito obiettivamente grave e pur già conoscendo gli
orientamenti sessuali dell'odierno ricorrente, la società aveva irrogato all'odierno ricorrente una sanzione
conservativa e che in altre occasioni non aveva adottato sanzione alcuna nei suoi riguardi.
2- II secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., dell'art. 18 co. 4° legge n.
300/70, vista l'irrilevanza come giusta causa di licenziamento dei fatto contestato, nonché violazione e falsa
applicazione dell'art. 599 c.p., per avere la gravata pronuncia escluso l'esimente dell'aver agito nello stato
d'ira determinato dall'altrui fatto ingiusto, consistente nelle voci diffamatorie ai suoi danni diffuse
all'interno dell'azienda dai dirigenti che a loro volta si erano poi sentiti diffamati dalla e-mail del ricorrente.
Il motivo è infondato.
Per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, il giudice di merito investito del giudizio circa la
legittimità d'un provvedimento disciplinare deve necessariamente valutare la sussistenza o meno dei
rapporto di proporzionalità tra l'infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto
delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore e di tutti gli altri elementi idonei a
consentire l'adeguamento della disposizione normativa dell'art. 2119 c.c. - richiamato dall'art. 1 della legge
n. 604/66 - alla fattispecie concreta (cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/11; Cass. n. 736/02; Cass. n. 1144/2000).
In altre parole, il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un
licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve verificare che
l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato
motivo di recesso; in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non
semplicemente in astratto) la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il
carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia
idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione
dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto
all'adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass. n. 15058/15; Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass.
n. 16260/04; Cass. n. 5633/01).
A tal fine, sempre secondo costante giurisprudenza, bisogna tener conto di tutti i connotati oggetti e
soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell'intensità dei dolo o del grado della colpa, dei
precedenti disciplinari nonché dì ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del
livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti.
La sentenza impugnata si è attenuta a tali insegnamenti.
[color=red][b]Il fatto oggetto di contestazione disciplinare è stato accertato e poi correttamente inquadrato come giusta
causa in quanto integrante una diffamazione nei confronti di superiori dell'odierno ricorrente (sull'idoneità
di condotte diffamatorie ad integrare, in astratto, giusta causa di licenziamento v., ad esempio, Cass. n.
9395/06; Cass. n. 7091/01; Cass. n. 10511/98).[/b][/color]
Quanto all'irrimediabile lesione del vincolo fiduciario tra le parti, nel caso concreto essa è stata
adeguatamente motivata in ragione del coefficiente doloso e delle modalità usate (scritto anonimo e
creazione d'un falso mittente) per diffondere il messaggio di posta elettronica giudicato diffamatorio.
Infine, in ordine all'invocata esimente di cui all'art. 599 c.p. (co. 2°) per avere il ricorrente agito nello stato
d'ira determinato dall'altrui fatto ingiusto, consistente nelle voci diffamatorie ai suoi danni diffuse
all'interno dell'azienda dai dirigenti che a loro volta erano stati poi diffamati dalla e-mail del dipendente, la
censura si rivela non accoglibile per l'assorbente rilievo che, a monte, l'ingiusta condotta che E.P.
rimprovera ai suddetti dirigenti aziendali non è rimasta provata.
3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese dei giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate
in euro 3.100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di
spese generali e agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d. P. R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n.
228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso
articolo 13.