La BUONA CONDOTTA non ha rilievo nei requisiti per il COMMERCIO - sentenza
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[color=red][b]TAR EMILIA ROMAGNA – BOLOGNA, SEZ. I – sentenza 20 aprile 2016 n. 439[/b][/color]
N. 00439/2016 REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 194 del 2016, proposto da:
Gerardo Scalise, rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Carbonaro, con domicilio eletto presso il suo studio, Via Barberia 20;
contro
Ministero dell’Interno; Questura di Bologna, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, anche domiciliataria in Bologna, Via Guido Reni 4;
per l’annullamento
[b]del provvedimento emesso dalla Questura di Bologna e notificato il 12 ottobre 2015, di revoca dell’esercizio all’attività di vendita a domicilio (respingimento dell’istanza di approvazione dell’elenco degli incaricati per l’esercizio della detta attività);[/b]
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 6 aprile 2016 il dott. Ugo De Carlo e uditi per le parti i difensori Salvatore Carbonaro e Silvia Bassani;
Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
[b]La xxxx s.p.a. aveva richiesto alla Questura di Bologna l’autorizzazione all’attività di vendita a domicilio per i suoi incaricati tra cui il ricorrente e l’autorizzazione era stata rilasciata per tutti i nominativi meno il suo per mancanza del requisito della buona condotta.[/b]
La motivazione del provvedimento fa riferimento ai precedenti penali dello Scalise ed all’esistenza di una recente denuncia.
Impugnava pertanto l’atto lesivo con due motivi nei quali in sintesi si contesta la pregnanza di due condanne per fatti molto risalenti per giustificare la mancanza di buona condotta, oltre all’assoluta irrilevanza della denuncia del 2014 che non ha avuto alcun riscontro processuale. Sottolineava come da anni il ricorrente lavorasse nell’ambito delle vendite in luoghi lontano dall’azienda non avendo mai creato problemi anzi riscontrando un apprezzamento.
Il Ministero dell’Interno si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.
Il ricorso è fondato.
[color=red][b]L’art. 71 D.lgs. 59/2010[/b][/color] in relazione ai requisiti per esercitare un’attività commerciale così dispone:
[i]“1. Non possono esercitare l’attività commerciale di vendita e di somministrazione:
a) coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione;
b) coloro che hanno riportato una condanna, con sentenza passata in giudicato, per delitto non colposo, per il quale è prevista una pena detentiva non inferiore nel minimo a tre anni, sempre che sia stata applicata, in concreto, una pena superiore al minimo edittale;
c) coloro che hanno riportato, con sentenza passata in giudicato, una condanna a pena detentiva per uno dei delitti di cui al libro II, Titolo VIII, capo II del codice penale, ovvero per ricettazione, riciclaggio, insolvenza fraudolenta, bancarotta fraudolenta, usura, rapina, delitti contro la persona commessi con violenza, estorsione;
d) coloro che hanno riportato, con sentenza passata in giudicato, una condanna per reati contro l’igiene e la sanità pubblica, compresi i delitti di cui al libro II, Titolo VI, capo II del codice penale;
e) coloro che hanno riportato, con sentenza passata in giudicato, due o più condanne, nel quinquennio precedente all’inizio dell’esercizio dell’attività, per delitti di frode nella preparazione e nel commercio degli alimenti previsti da leggi speciali;
f) coloro che sono sottoposti a una delle misure di prevenzione di cui alla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, o nei cui confronti sia stata applicata una delle misure previste dalla legge 31 maggio 1965, n. 575, ovvero a misure di sicurezza; (33)
2. Non possono esercitare l’attività di somministrazione di alimenti e bevande coloro che si trovano nelle condizioni di cui al comma 1, o hanno riportato, con sentenza passata in giudicato, una condanna per reati contro la moralità pubblica e il buon costume, per delitti commessi in stato di ubriachezza o in stato di intossicazione da stupefacenti; per reati concernenti la prevenzione dell’alcolismo, le sostanze stupefacenti o psicotrope, il gioco d’azzardo, le scommesse clandestine, nonché per reati relativi ad infrazioni alle norme sui giochi. (34)
3. Il divieto di esercizio dell’attività, ai sensi del comma 1, lettere b), c), d), e) ed f), e ai sensi del comma 2, permane per la durata di cinque anni a decorrere dal giorno in cui la pena è stata scontata. Qualora la pena si sia estinta in altro modo, il termine di cinque anni decorre dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza, salvo riabilitazione. (35)
4. Il divieto di esercizio dell’attività non si applica qualora, con sentenza passata in giudicato sia stata concessa la sospensione condizionale della pena sempre che non intervengano circostanze idonee a incidere sulla revoca della sospensione.”.[/i]
Nel certificato del casellario giudiziale risultano a carico del ricorrente due sentenza della Corte di Appello di Bologna una divenuta irrevocabile in data 3.4.1979 per falsità in titolo di credito ed una sentenza con condanna alla pena di mesi 5 di reclusione con sospensione condizionale della pena e l’altra divenuta irrevocabile in data 23.6.2000 per reato in materia di stupefacenti e detenzione di armi con condanna alla pena di anni 1 di reclusione oltre £ 3.400.000 di multa con sospensione condizionale della pena.
[b]Una simile quadro comporta che, ai sensi del comma 4 dell’art. 71 D.lgs. 59/2010, il divieto non è applicabile al ricorrente poiché non sussistono le condizioni per una revoca della sospensione condizionale della pena. Nel caso di specie non sussistono i presupposti di cui all’art. 168 c.p. per la revoca che infatti non vi è stata.[/b]
Non sussiste alcuna valutazione discrezionale degli fattori ostativi alla concessione dell’autorizzazione poiché altrimenti il legislatore avrebbe fatto ricorso ad uno di quei concetti indeterminati che consentono una valutazione non ancorata a parametri definiti.
Ma anche volendo scendere attuare una valutazione probabilistica tipica delle misure di prevenzione, che è bene precisare non sono mai state applicate al ricorrente, bisogna esaminare diacronicamente condotta altrimenti si rimane legati ad un giudizio che discende da fatti molto indietro nel tempo anche quando non vi è un esplicito divieto.
Il primo reato, per il quale non è stata prodotta la sentenza, risale ad epoca anteriore al 1978 dal momento che la sentenza del Tribunale è del 16.2.1978 e la pena non fu particolarmente rilevante.
Il secondo reato fu giudicato in primo grado dal Tribunale di Bologna in data 21.11.1995 è quindi evidente che costituisce sicuramente un refuso l’indicazione che si trova nel certificato penale circa la data di commissione del reato in materia di stupefacenti ( 21.11.1998 ). La certezza di ciò si ricava dal fatto che il reato è qualificato come art. 71 L. 685/1975, norma che fu abrogata nel 1990 a seguito dell’entrata in vigore dell’attuale Testo unico sugli stupefacenti ( DPR 309/1990 ).
Peraltro il reato connesso in tema di armi è stato commesso il 15.12.1988.
Ciò significa che il ricorrente non risulta aver più commesso un reato dal 15.12.1988.
[b]La rilevanza della denuncia del 2014 è inesistente e comunque risale a contrasti con la fidanzata del figlio ed è ben noto come le denunce in questo caso siano spesso strumentali e la loro rilevanza assumerà consistenza solo dopo un accertamento giudiziale.[/b]
[color=red][b]Il provvedimento è del tutto infondato è deve essere annullato.[/b][/color]
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Condanna il Ministero dell’Interno alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in € 2.000,00 oltre C.P.A. ed I.V.A. e con restituzione del contributo unificato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Bologna nella camera di consiglio del giorno 6 aprile 2016 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Di Nunzio, Presidente
Alberto Pasi, Consigliere
Ugo De Carlo, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 20/04/2016.
Non conosco ovviamente i fatti oggetto del diniego questorile ma posso dire che tali valutazioni, cioè la relazione tra elenco degli incaricati inviato all'Autorità Locale di P.S. e requisiti soggettivi ex art.11 tulps (compresa la "buona condotta") era stata indicata dal ministero dell'interno in una circolare del 1999, solo recentemente rivista.
E' anche vero che i requisiti di "onorabilità" per tali soggetti sono solo quelli dell'art.71 Dlgs 59/2010 e s.m.i. per cui ormai ha poco senso continuare a prevedere l'invio di tali elenchi all'Autorità (locale) di P.S. se poi questa non può fare granchè a fronte di soggetti (come a volte capita) gravati da numerose denunce (anche specifiche per reati commessi proprio approfittando dell'accesso al domicilio delle persone...) ma non da condanne ostative ai sensi del cit. art.71.
Delle due l'una:
1. modificare l'art.19 c.4 Dlgs 114/98 prevedendo che l'A.L.P.S., ricevuti gli elenchi, possa inibire l'attività di tali soggetti qualora gli stessi non abbiano i requisiti ex art.11 tulps;
2. modificare l'articolo 19 cit. in modo che tali elenchi vengano inviati direttamente e solo al SUAP senza più coinvolgere le A.L.P.S.