Data: 2015-12-13 08:41:49

OCCUPAZIONE SUOLO PUBBLICO e potere della PA - SENTENZA

OCCUPAZIONE SUOLO PUBBLICO e potere della PA - SENTENZA

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[color=red][b]T.A.R. Lazio Roma, Sezione II-ter, 2 dicembre 2015 sent. 13654[/b][/color]

FATTO

[color=red][b]Le parti ricorrenti espongono di essere titolari e gestori di aziende per il commercio su aree pubbliche con relativa autorizzazione per l’esercizio di tale forma di commercio e per la somministrazione di alimenti e bevande, con posteggio assegnato a turno (c.d. rotazione) in zone centrali della città di Roma nell’ambito della rotazione integrativa c.d. “bibite e sorbetti” istituita con Delibera GM nr. 4828/1989; la compatibilità della regolamentazione dei posteggi a rotazione con la disciplina vincolistica è stata più volte accertata e confermata anche in giudizio da diverse pronuncie di questo Tribunale, nonché dalle deliberazioni regolamentari comunali succedutesi nel tempo (quali l’O.S. n. 247 del 30 luglio 1996, le DCC n. 114 del 25 febbraio 2003 e n. 332 del 5 giugno 2003, nonché con riferimento al regolamento sul commercio su area pubblica del Comune di Roma ex delibera Consiglio Comunale nr. 35/2006, adottata in conformità alle esigenze di tutela di cui all’art. 52 del codice dei beni culturali). [/b][/color]
Riferisce che, di recente, con deliberazione nr. 96 del 9 aprile 2014, la Giunta Capitolina ha approvato, ai sensi dell’art. 52 del Dlgs 42/2004, e della Direttiva Ministeriale del 10.10.2012 (c.d. Direttiva Ornaghi), un accordo di collaborazione ex art. 15 della l. 241/90 tra Roma Capitale e MIBAC, per l’istituzione di un tavolo tecnico del decoro al fine di procedere all’individuazione delle aree pubbliche ove interdire, o sottoporre a specifiche condizioni, l’esercizio del commercio, definire le linee di indirizzo per la tutela del patrimonio culturale e del decoro della Città di Roma; le relative risultanze avrebbero dovuto formare la base per l’adozione dei piani di riordino del commercio su area pubblica e rilocalizzazione di quelle ritenute non compatibili con le esigenze di tutela del patrimonio culturale, nonché della successiva normativa regolamentare afferente gli specifici settori trattati; il tavolo avviava i propri lavori, concludendone solo la parte relativa alle seguenti aree pubbliche: 1 – Area archeologica centrale – Circo massimo – Tridente; 2. Piazza Navona – Piazza della Rotonda / Pantheon); durante i lavori del tavolo, interveniva il Sindaco di Roma che ne sollecitava la conclusione con note del 30.06.2014 e del 25.07.2014, rappresentando l’urgenza di procedere alla rilocalizzazione temporanea delle postazioni commerciali dichiarate incompatibili e relative ad alcune aree di interesse, come quelle del Colosseo, dei Fori Imperiali e di Piazza Venezia; nelle more, la Giunta aumentava i canoni applicabili alle occupazioni di suolo pubblico (delibera nr. 39 del 23 luglio 2014), per poi prendere atto, immediatamente dopo, delle determinazioni del tavolo tecnico per il decoro, con deliberazione nr. 233 del 30 luglio 2014.
L’attività della parte ricorrente rientrava tra quelle dichiarate incompatibili; la delibera prevedeva per la sola categoria degli Urtisti la necessità di rilocalizzarne le attività in aree ritenute equivalenti a quelle d’origine, mentre nessuna indicazione in tal senso veniva offerta per le altre attività; il 4 agosto 2014 veniva sottoscritto l’accordo; veniva poi emanata, in sua attuazione, la DD nr. 1927 del 17 settembre 2014, con la quale si formalizzava la proposta di rilocalizzazione temporanea dei posteggi commerciali siti nelle aree individuate nella DGC n. 233/2014, anche con valore di comunicazione di avvio del procedimento per consentire agli interessati di presentare controdeduzioni sulle aree designate,
Per la categoria delle tipologie commerciali “Posteggi isolati fissi” e “ Posteggi anonali” (totale otto operatori), veniva previsto lo spostamento in via di Carlo Felice, mentre per soli tre venditori di fiori si manteneva la possibilità di operare nella zona del c.d. “Tridente”.
Avverso i predetti atti e provvedimenti, parte ricorrente deduce:
I) violazione dell’art. 97 Cost.; violazione di ogni principio e norma in tema di buon andamento della P.A.; violazione di legge; eccesso di potere; contraddittorietà; illogicità manifesta; perplessità (l’azione amministrativa sarebbe contraddittoria perché l’adozione degli atti impugnati segue di poco la revisione del regolamento COSAP operato con la deliberazione n. 39 del 23.7.2014 che ha disposto l’aumento di canoni applicabili alle occupazioni di suolo pubblico, così valorizzando le attività commerciali con posti fissi nel Centro Storico; altrettanto contraddittoria sarebbe la decisione avversata rispetto alla previsione di realizzare una struttura adibita a centro servizi nel terrapieno adiacente al Colosseo); (II) Violazione e falsa applicazione della l. 241/90 e della LR Lazio nr. 33/1999, violazione di ogni principio e norma sul giusto procedimento e sul diritto di partecipazione al procedimento amministrativo, violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del Dlgs 42/2004, dell’art. 97 della Cost., di ogni principio e norma di buon andamento della P.A., dell’accordo ex art. 15 della l. 241/90 del 17 aprile 2014, violazione di legge, eccesso di potere sotto diversi profili (il Tavolo tecnico per il decoro, istituito in applicazione dell’accordo ex art. 15 della l. 241/90 tra il MIBAC e Roma Capitale in data 17 aprile 2014, ne avrebbe violato le previsioni che avevano scandito precisi adempimenti e fasi procedimentali; le sue determinazioni sarebbero state assunte senza la partecipazione degli interessati, né delle loro associazioni o rappresentanze, come peraltro imposto dall’art. 35 della LR 33/1999; a maggior violazione delle garanzie di partecipazione, alla sola categoria degli Urtisti è stato concesso di presentare una relazione sulla delocalizzazione, non anche alle associazioni che rappresentano gli interessi dei venditori di generi alimentari; sussisterebbe carenza d’istruttoria sulla rilocalizzazione delle aree, non essendone state individuate di economicamente equivalenti, come prescritto dall’art. 52 del dlgs 42/2004, la cui applicazione dovrebbe essere condotta alla luce di specifici criteri di salvaguardia delle attività interessate come imposto da specifici ordini del giorno al Governo, che sono elencati in atti; nessun’adeguata considerazione delle specifiche delle attività svolte è stata svolta nel tavolo tecnico se non per la già menzionata categoria degli Urtisti; il DM del 17.09.2013, che interdice l’attività nell’area del c.d. “Tridente”, richiamato tra le premesse istruttorie del Tavolo tecnico, è sub judice in quanto oggetto di gravame con il ricorso pendente nr. 12944/2013; l’eccesso di potere discenderebbe anche dal fatto che altre attività non risultano interdette, come fiorai, occupazioni di tavolini, giornalai; agli Urtisti viene anche concesso di occupare 12 mq in via del Lavatore, in virtù di una loro ritenuta specificità merceologica; la tradizionale posizione dei ricorrenti da oltre cinquant’anni nella collocazione che occupa renderebbe ancora più illogico ed abnorme il suo spostamento; (III) violazione e falsa applicazione degli artt. 52 del Dlgs 42/2004, 28 dlgs 114/1998, 42 dlgs 267/2000; dell’art. 97 della Cost.; dell’accordo ex art. 15 della l. 241/90 del 17 aprile 2014; violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili (i motivi dedotti subb I e II implicano illegittimità derivata anche della Delibera nr. 233/2014, recante la presa d’atto delle risultanze del tavolo tecnico; essa sarebbe comunque illegittima in via autonoma perché la relativa competenza sarebbe stata del Consiglio comunale, trattandosi di un regolamento e non della Giunta; il tavolo tecnico avrebbe dovuto pronunciarsi anche su soluzioni definitive per conciliare l’esigenza di tutela del patrimonio culturale del decoro della Città di Roma con il commercio su area pubblica, ma la presa d’atto è stata adottata senza che questa parte delle decisioni del Tavolo fosse stata definita; le decisioni dello spostamento avrebbero dovuto seguire e non precedere l’esecuzione di importanti interventi infrastrutturali come il piazzale di fronte al Colosseo ove si prevede la realizzazione di un importante centro di servizi e solo all’esito di tali interventi avrebbe potuto valutarsi l’eventuale incompatibilità delle attività esistenti; sussisterebbe contrasto con precedenti atti, quali lo stesso accordo, nei quali si prevedeva che il tavolo tecnico si dovesse pronunciare anche sulle rilocalizzazioni; in mancanza di tali adempimenti, la delibera nr. 233/2014 ha di fatto provveduto in autonomia configurando un vero e proprio atto di “revoca” mascherata delle autorizzazioni già assentite; (IV) violazione e falsa applicazione dell’art. 15 della l. 241/90, violazione dell’art. 97 della Costituzione e violazione di legge, eccesso di potere sotto diversi profili (illegittimo in via derivata sarebbe anche l’accordo tra MIBAC e Roma Capitale del 4 agosto 2014, prot. QH/52831 del 5 agosto 2014, con cui sono state assunte le dichiarazioni di compatibilità ed incompatibilità delle postazioni commerciali su area pubblica, nonché le relative prescrizioni di natura tecnica e territoriale; l’accordo sarebbe comunque nullo per difetto dei requisiti di forma, mancando la firma digitale imposta dall’art. 15, comma 2 bis, della l. 241/90; ne deriverebbe l’invalidità della DD n. 1927/2014 che individua provvisoriamente le localizzazioni temporanee per gli odierni ricorrenti; (V) violazione dell’art. 97 della Cost., del Dlgs 42/2004, art. 52, comma 1 ter, LR Lazio n. 33/1999, art. 44, comma 3 bis, delibera CC n. 35/2006, art. 23; violazione di legge; eccesso di potere; difetto di istruttoria; illogicità manifesta; contraddittorietà, sviamento di fatto, perplessità (la DD n. 1927/2014 sarebbe illegittima in via derivata e per vizi propri, essendo mancata ogni istruttoria volta alla definizione delle postazioni di delocalizzazione delle attività, quali il Lungotevere Oberdan, che è area a forte scorrimento veicolare, con pressocchè nullo traffico turistico; il Lungotevere Testaccio è fuori da qualsiasi transito turistico; il Lungotevere Maresciallo Diaz è parimenti interessato da traffico veicolare ove l’unico afflusso di avventori può verificarsi in occasione di partite di calcio o manifesrtaizoni canore, del tutto episodiche; il segmento di via Piramide Cestia è pure a forte scorrimento veicolare, senza significative presenze di turisti; non sarebbe stata valutata l’equivalenza in termini di redditività; la DD impugnata enuncia di aver osservato parametri quali “i significativi flussi di utenza”, connessi alla “scarsa presenza di tale tipologia commerciale”, della “non sussistenza di particolari esigenze di vigilanza e controlli finalizzati al contenimento di fenomeni lesivi della sicurezza e dell’ordine pubblico”; del “rispetto della libera circolazione pedonale e veicolare”; della “tutela del patrimonio storico, artistico e architettonico”; dell’insussistenza di “una densità commerciale e antropica tale da pregiudicare la sostenibilità ambientale”; ma di tali criteri non sarebbe data alcuna referenza o dimostrazione concreta; anzi, la via Carlo Felice soffrirebbe di scarso flusso di utenza, problemi di vigilanza e di sicurezza nel traffico veicolare e così via).
Con motivi aggiunti è stata quindi impugnata la D.D. n. 1365 del 16.06.2015, pubblicata il 24.06.2015, con la quale è stata disposta la ricollocazione per 18 mesi dell’attività dei ricorrenti.
Deduce che con DD 1927 del 17 settembre 2014 (impugnata con il ricorso) era stata formalizzata la proposta di rilocalizzazione delle attività interessate nelle aree individuate dalla Deliberazione GC nr. 233/2014, con valore di comunicazione di avvio del procedimento; per quanto riguarda le tipologie di attività dei ricorrenti si prevedeva il loro trasferimento in presso il Lungotevere Oberdan, da Piazza del Fante a Ponte Risorgimento – lato dx verso Ponte Risorgimento; Lungotevere Testacio a Ponte Sublicio lato sx; Lungotevere M.llo Diaz altezza via Capo Prati lato Tevere; via della Piramide Cestia da Piazza Albania a Porta S. Paolo lato dx verso Porta San Paolo; i ricorrenti partecipavano al procedimento presentando le proprie controdeduzioni ed, unitamente agli altri operatori economici ed associazioni di categoria, formulavano proposte conciliative dei diversi interessi; le osservazioni venivano valutate nella riunione della Conferenza dei servizi indetta da Roma Capitale con il MIBACT nella riunione del 9.3.2015 e venivano respinte con un documento recante la relativa valutazione; con la DD impugnata, si prevedeva altresì che la ricollocazione si prevede dovesse avere durata temporanea di 18 mesi in attesa della definizione dei piani di riordino delle attività commerciali su area pubblica, in corso di elaborazione.
Avverso tale atto, deducono (I) illegittimità in via derivata e motivi propri costituiti (II) dalla mancanza della competenza degli uffici a svolgere attività pianificatoria quale quella in esame spettante al Consiglio, (III) gli uffici avrebbero dovuto solo valutare le osservazioni e non decidere sulle delocalizzazioni, decisione di livello politico il cui esame era in corso come da vari inviti degli Assessori competenti in atti, cui avevano fatto seguito specifiche proposte delle associazioni di categoria e che non risulta concluso; in ogni caso, le conclusioni cui sono giunti gli uffici trascurano le proposte delle associazioni; solo gli Urtisti hanno avuto la possibilità di presentare loro proposte; (IV) l’art. 52 del dlgs 42/2004 consentirebbe o la ricollocazione in aree equivalenti o il pagamento di un indennizzo, non misure temporanee e non su aree equivalenti; le aree in questione sono state valutate senza effettiva istruttoria, specie in punto di equivalenza di redditività; alcune attività continuerebbero ad essere consentite nelle aree interdette, specie con riguardo alla zona del “Tridente”; (V) le determinazioni del Tavolo Tecnico avrebbero dovuto costituire la base per l’elaborazione degli specifici piani di commercio per l’attività su area pubblica, che non solo non sono stati formulati, ma i lavori del Tavolo tecnico si sono arrestati senza procedere oltre e le determinazioni di delocalizzazione hanno costituito solo la risposta di Roma Capitale ad esigenze proprie; (VI) manca ogni risposta alle controdeduzioni formulate nel procedimento; (VII) il termine temporale del 10 luglio 2015 per il trasferimento; (VIII) la delocalizzazione sarebbe viziata da difetto di istruttoria ed inidoneità ad accogliere le attività del ricorrenti, non essendo né prossime alle aree originarie, né in possesso di caratteri di fruizione turistica paragonabili a quelli originari. Con un secondo atto per motivi aggiunti, parte ricorrente ha quindi impugnato gli stessi atti già oggetto di gravame censurandone l’illegittimità per conseguenza della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 52, nei commi 1 bis ed 1 ter, del dlgs 42/2004, dichiarata dalla Corte Costituzionale con sentenza nr. 140/2015, che ne comporterebbe la nullità ex art. 21 septies della l. 241/90 e per difetto assoluto di attribuzione.
Resistono al ricorso ed ai motivi aggiunti Roma Capitale ed il MIBAC, che, costituitisi, chiedono il rigetto del gravame, per articolate ragioni di censura, difendendo la legittimità degli atti impugnati.
In particolare, quanto alle censure dedotte con il secondo atto per motivi aggiunti, deducono che la Regione Lazio ha aderito all’accordo di programma ed alle risultanze del tavolo tecnico per il decoro giusta deliberazione della GR Lazio n. 365 del 21 luglio 2015, recante l’approvazione dello schema di intesa tra Regione Lazio, MIBAC e Roma Capitale, ai sensi dell’art. 52 del dlgs 42/2004, cui ha fatto seguito la specifica intesa, pure prodotta in copia, sottoscritta il 21 luglio 2015 mediante firme digitali (con relativo rapporto di verifica), dovendosi quindi ritenere sanato il procedimento anche alla luce delle conseguenze derivanti dalla sentenza nr. 140/2015 della Corte Costituzionale.
Parte ricorrente ha depositato in giudizio una perizia dell’Arch. Maria Carla Brencigaglia, avente ad oggetto il raffronto tra precedente e nuova postazione di parcheggio.
Si è costituito ad opponendum il CODACONS che resiste al ricorso ed ai motivi aggiunti, di cui chiede il rigetto, difendendo la legittimità degli atti impugnati.
Nella camera di consiglio del 29 luglio 2015, è stata respinta la domanda cautelare.
Con un terzo atto per motivi aggiunti sono stati impugnati sia i provvedimenti già oggetto di gravame, sia la deliberazione nr. 365/2015 della Regione Lazio che la successiva intesa; e gli altri atti e provvedimenti con i quali l’Amministrazione comunale ha deciso di installare, nell’area archeologica, quattro chioschi e due bar, nonché la nota prot. RA/435222 del 17 luglio 2015 del Sindaco di Roma dal contenuto sconosciuto.
Detti provvedimenti sarebbero illegittimi (I) in via derivata, (II) per elusione della sentenza della Corte Costituzionale nr. 140/2015, ed eccesso di potere sotto diversi aspetti; i provvedimenti che la Regione avrebbe approvato aderendovi sarebbero solo quelli relativi al tavolo tecnico, ma non anche i provvedimenti successivi adottati da Roma Capitale sulla delocalizzazione in via autonoma dal MIBAC e dalla stessa Regione, che dunque resterebbero immuni dalla sanatoria dell’intesa; (III) la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 52 del dlgs 42/2004 sarebbe incostituzionale per le stesse ragioni di cui alla sentenza nr. 140/2015 della Corte Costituzionale; (IV) gli atti della Giunta Regionale sarebbero illegittimi per difetto di istruttoria ed eccesso di potere in quanto non sarebbe precisamente indicato l’atto da sanare o i relativi vizi; la Regione non avrebbe realmente esaminato gli atti richiamati in delibera, non ad essa allegati; la motivazione dell’adesione della Regione, fondata sull’esistenza di disegni di legge intesi ad assicurare a Roma Capitale ampia autonomia in materia di commercio, sarebbe illogica ed insufficiente; (V) l’eccesso di potere già censurato degli atti impugnati sarebbe confermato dalle notizie di stampa secondo cui, a seguito dell’allontanamento delle attività quale quella della parte ricorrente, è stato necessario allertare la Protezione Civile per rifornire d’acqua i turisti; inoltre, Roma Capitale starebbe per dotare le aree archeologiche dalle quali le attività come quelle di parte ricorrente sono state spostate, di rivenditori d’acqua e bar.
Si è costituita la Regione Lazio che resiste al ricorso per motivi aggiunti.
Resistono al ricorso per motivi aggiunti anche Roma Capitale, il MIBAC, ed il CODACONS.
Alla pubblica udienza del 22 ottobre 2015 la causa è stata trattenuta in decisione

DIRITTO

Nell’odierno giudizio, la parte ricorrente si duole dell’illegittimità degli atti e dei provvedimenti impugnati con i quali è stata disposta la rilocalizzazione temporanea per 18 mesi dell’attività commerciale, condotta su area pubblica, ai fini di tutela del patrimonio culturale ed urbano di particolari zone della Città di Roma, corrispondenti all’Area archeologica centrale.
Secondo le ragioni del gravame non sussisterebbero i presupposti per disporre la rilocalizzazione, non essendo stato completato il lavoro preparatorio del tavolo tecnico (fermatosi alle sole zone centrali di Roma di cui si è dato cenno nelle premesse narrative e non essendosi pronunciato sulle altre direttive impartite dall’accordo ex art. 15 della l. 241/90 tra Roma Capitale e MIBAC), non essendo stati approvati conseguentemente i piani del commercio che sarebbero gli strumenti appropriati per risolvere i problemi di compatibilità tra le esigenze di protezione del patrimonio storico, artistico e culturale di Roma Capitale e quelle di esercizio delle attività degli esercenti; nonché sussistendo gravi perplessità in ordine alla idoneità della zona prescelta per la delocalizzazione in ordine alla compensazione economica delle attività spostate, sotto diversi profili.
Parte ricorrente contesta, inoltre, la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, con ogni conseguenza in ordine all’istruttoria ed alla motivazione dei provvedimenti.
Attesa la ripartizione dei motivi di gravame in quattro atti, ricorso e tre motivi aggiunti, per chiarezza espositiva il Collegio esaminerà le censure secondo l’ordine logico pregiudiziale che è loro proprio, raggruppandole secondo le tematiche proposte, con alcuni rilievi preliminari che è opportuno anteporre, avendo una portata generale che è comune e sottesa a numerose tra le censure dedotte.
In tal senso si osserva quanto segue:
a) l’atto puntuale ed individuale, immediatamente lesivo per i ricorrenti, è la D.D. n. 1365 del 16.06.2015, che dispone la rilocalizzazione temporanea dell’attività; gli altri provvedimenti impugnati, elencati nell’epigrafe e variamente richiamati in parte narrativa, hanno un valore generale (quanto al tavolo del decoro ed ai relativi accordi) ed istruttorio (laddove si occupano dell’esame delle osservazioni variamente proposte nel procedimento da parte degli interessati) e dunque possono essere impugnati unitamente all’atto conclusivo del procedimento;
b)alcun rilievo possiede la circostanza che l’attività di parte ricorrente sia stata collocata nell’area oggi ritenuta incompatibile, da lungo tempo e con pareri favorevoli degli uffici preposti, quindi con implicita o esplicita valutazione di compatibilità con l’ambiente urbano circostante, perché le scelte dell’Amministrazione che oggi vengono contestate si sono succedute all’esito di una più generale attività di revisione delle posizioni esistenti, motivata da esigenze di interesse pubblico di nuovo apprezzamento e frutto di una complessa fase di confronto tra le P.A. variamente interessate.
La precedente valutazione di compatibilità del manufatto e dell’attività svolta da parte ricorrente con l’ambiente urbano era, invero, presupposto del legittimo titolo in forza del quale la stessa parte ricorrente ha sempre esercitato; ma, all’evidenza, ciò di cui si discute nell’odierna controversia è proprio la condizione di legittimità o meno della delocalizzazione temporanea dell’attività, il cui titolo legittimo non comporta un diritto assoluto ed incondizionato di insistenza nel medesimo luogo, attesa la natura del titolo, esposto fisiologicamente a motivate revisioni dell’interesse pubblico (ai sensi dell’art. 9 e dell’art. 10, del regolamento OSP in vigore, sono previste articolate possibilità di riesame della concessione di occupazione di suolo pubblico, nel rispetto delle norme generali sull'azione amministrativa; vedasi, di recente, TAR Lazio, Roma, II ter, nr.10797/2015 dell’11 agosto 2015).
Possono essere adesso più chiaramente trattate le censure dedotte nell’odierno giudizio, tra le quali va data precedenza a quelle variamente proposte in ordine alla violazione dell’art. 52 del codice dei beni culturali che, investendo l’esercizio del potere alla sua radice, possiedono carattere pregiudiziale.
I) Come già ritenuto sinteticamente nella sede cautelare (unitamente ad altri ricorsi analoghi a quello odierno), gli atti ed i provvedimenti impugnati trovano il proprio fondamento normativo nella disposizione di cui all’art. 52 del dlgs 42/2004, il cui primo comma prevede che “con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l'esercizio del commercio”.
Tale disposizione riconnette la disciplina di tutela dei beni aventi rilievo storico, artistico e culturale (che è disciplina qualificante il regime di protezione e fruizione di tali beni, costitutiva di un loro speciale “status” di conformazione delle attività di conservazione, manutenzione, destinazione e disposizione), con quella – di ordine commerciale – che presiede la regolazione delle attività di libera iniziativa economica, per quanto qui interessa, su area pubblica.
Nel caso di specie, l’esercizio di tale potere è stato svolto in accordo tra le amministrazioni interessate, che hanno posto in essere un procedimento condiviso, nelle forme ed agli effetti di cui all’art. 15 della l. 241/90, all’interno del quale sono stati rappresentati gli interessi pubblici alla cui cura sono preposte le stesse Amministrazioni procedenti, ed è stato valorizzato (sia pure in termini oggetto di contestazione da parte degli odierni ricorrenti), anche un contributo partecipativo delle attività private interessate.
Ia) Non è inopportuno rammentare che il delicato rapporto tra protezione dell’ambiente cittadino con caratteri di rilevanza storico, artistica, culturale ed ambientale e la disciplina della libertà di iniziativa economica è stato oggetto di una copiosa giurisprudenza secondo la quale, nonostante la costante riduzione normativa dei limiti ai quali assoggettare la seconda, residua ancora uno specifico potere della P.A. di individuare su base territoriale ambiti e forme di protezione dell’ambiente urbano che si sostanzino in una interdizione – qualitativa o quantitativa – allo svolgimento di attività commerciali alle condizioni di legge (sul punto, si rinvia alla sentenza del Consiglio di Stato nr. 3802 del 17 luglio 2014, in ordine al rapporto tra le esigenze di protezione di cui si è detto e le diverse e successive normative di liberalizzazione delle attività commerciali susseguitesi in ambito sia nazionale che comunitario a far tempo dal DL n. 223/2006, con riferimento alla direttiva 2006/123/CE, al decreto legislativo nr. 59/2010, fino ai più recenti decreti “Salva Italia” – D.L. 201/2011, conv. con legge n. 214/2011, e “Cresci Italia” -DL n. 1/2012, conv. con l. n. 14/2012; vedasi anche le sentenze con le quali questa Sezione si è uniformata a tale orientamento, tra le quali T.A.R. Lazio, Roma, II ter, 13 agosto 2015, nr. 10802 ai cui richiami si rinvia per ulteriori approfondimenti).
[color=red][b]Ib) Deve ulteriormente soggiungersi che, notoriamente, la concessione OSP per l’esercizio di un’attività di tipo commerciale non costituisce un diritto soggettivo pieno e perfetto alla fruizione della superficie concessa, essendo soggetta ad una permanente regolamentazione della P.A. relativa non solo all’”an” della sua concessione, ma anche all’utilizzo dell’area e la sua revocabilità per ragioni di interesse generale, tra le quali rientra certamente anche l’esigenza di tutela del decoro dell’ambiente urbano circostante, e la sicurezza pubblica. [/b][/color]
Ciò non implica, naturalmente, un indiscriminato potere della P.A. stessa di rimuovere situazioni fondate su legittimi titoli amministrativi a suo tempo concessi, specie in riferimento a circostanze consolidate o risalenti nel tempo come quelle degli odierni ricorrenti, dovendosi pur sempre valutare adeguatamente gli interessi pubblici sopravvenuti rispetto a quelli a suo tempo apprezzati quando il titolo veniva rilasciato.
Secondo l’impianto normativo di riferimento, tale riesame va condotto a regime in forma di pianificazione e con le necessarie garanzie (che costituiscono il limite esterno dell’esercizio del potere) di equivalenza tra le collocazioni precedente e successiva e di indennizzo, condizioni sulle quali si ritornerà oltre.
Ic) Alla luce di tali premesse, non può condividersi l’assunto della difesa di parte ricorrente secondo cui sosterrebbe la domanda di annullamento la recente pronuncia della Corte Costituzionale nr. 140/2015 nella parte in cui ha inciso sui commi 1 bis ed 1 ter dell’art. 52 cit..
Tale decisione non ha pregiudicato la possibilità di disporre la delocalizzazione di attività come quella della parte ricorrente, facendo ricorso all’esercizio di potestà discrezionali non imperniate sulle disposizioni colpite dall’incostituzionalità.
Va chiarito che i commi dichiarati incostituzionali costituiscono una interpolazione della norma di recente fattura (per l’effetto del D.L. 8 agosto 2013, n. 91, convertito con modificazioni dalla L. 7 ottobre 2013, n. 112 e del D.L. 31 maggio 2014, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 29 luglio 2014, n. 106), laddove quest’ultima, nella stesura originaria (GU n.45 del 24-2-2004 - Suppl. Ordinario n. 28) era limitata al solo primo comma.
Per effetto delle aggiunte, la fattispecie legislativa originariamente “povera” (e dunque per ciò dotata di maggiore portata precettiva e più ampi effetti costitutivi del potere in capo alla PA) si è “arricchita” di ulteriori specificazioni e limitazioni che non hanno alterato il senso originario della previsione e della natura del potere amministrativo da essa fondato, concorrendo solamente a strutturarne l’esercizio attraverso determinati adempimenti (come l’effettuazione dei procedimenti di riesame da compiersi ai sensi dell'articolo 21-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, circa le autorizzazioni e le concessioni di suolo pubblico che risultino non più compatibili con le esigenze di tutela presupposte) e nella previsione di adeguate garanzie nei confronti delle attività commerciali coinvolte (laddove, in caso di revoca del titolo, ove non risulti possibile il trasferimento dell'attività commerciale in una collocazione alternativa equivalente in termini di potenziale remuneratività, al titolare e' corrisposto da parte dell'amministrazione procedente l'indennizzo di cui all'articolo 21-quinquies, comma 1, secondo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, nel limite massimo di un dodicesimo del canone annuo dovuto).
Id) Pertanto, anche se si volesse aderire alla tesi della parte ricorrente secondo la quale la pronuncia della Corte Costituzionale nr. 140/2015 avrebbe reso retroattivamente inapplicabili alla fattispecie in esame le previsioni normative incise dalla dichiarazione di incostituzionalità, non solo non ne deriverebbe la fondatezza della pretesa, ma addirittura diverrebbero inutilizzabili quelle specifiche previsioni di tutela in esse contenute, come l’obbligo di individuare una collocazione alternativa equivalente in termini di rimuneratività, che si sostanziano in previsioni di protezione per la stessa parte ricorrente e che peraltro quest’ultima ampiamente invoca a proprio vantaggio a fondamento di buona parte delle censure dedotte nel presente ricorso (e che saranno esaminate oltre).
Ma, ciò che più conta, dalla tesi della rimozione retroattiva delle disposizioni in esame non scaturirebbe il venir meno delle facoltà delle PA coinvolte di procedere al riesame delle posizioni non più compatibili con gli indirizzi di tutela e la conseguente caducazione automatica degli atti impugnati: tale potere è invero immanente nelle responsabilità delle P.A. coinvolte, e costituisce espressione della più generale potestà di riesame ed autotutela decisoria della P.A. che trova autonomo fondamento nell’art. 21 quinquies della l. 241/90 (non a caso esplicitamente richiamato nel comma 1 ter); potere che le disposizioni aggiunte all’art. 52 del Dlgs 42/2004, dunque ben lungi dal fondare ex novo, si limitano a richiamare e dare per presupposto, avendo svolto, in sostanza, il legislatore della riforma del predetto art. 52 un mero ruolo di tipo propulsivo al fine di orientare il governo delle procedure di tutela nel senso di assicurare la più ampia tutela agli operatori interessati e, nel contempo, indurre le amministrazioni titolari del potere ad un più attento ed attualizzato riesame degli interessi pubblici ad esse affidati.
Ie) In ogni caso, dalla sentenza della Corte Costituzionale nr. 140/2015 non discende l’annullamento delle disposizioni di cui ai commi 1 bis ed 1 ter, ma solo il completamento della relativa fattispecie normativa con la previsione dell’intesa Stato- Regioni; intesa che, nella fattispecie in esame, è stata immediatamente siglata tra le amministrazioni procedenti e la Regione Lazio, nei termini di cui agli atti richiamati dalla difesa delle resistenti e di cui si è dato cenno nella parte narrativa della presente sentenza.
Più precisamente, l’intesa è stata siglata, giusta deliberazione della GR nr. 365 del 21 luglio 2015, con l’accordo sottoscritto in pari data (il cui art. 2 recita: “con il presente atto la Regione Lazio, ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui all’art. 52 del D.lgs 22 gennaio 2004, n. 42…nel testo da considerarsi integrato dall’addizione di procedura discendente dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 140/2015, formalizza il proprio avviso favorevole in ordine alle risultanze congiuntamente determinate da Roma Capitale e dal Mibact ….costituendo ciò espressione della formale intesa di competenza prevista dalla stessa disposizione”), allo scopo, reso esplicito, di integrare il procedimento del “tavolo tecnico per il decoro”, conformandone lo svolgimento e le conclusioni al procedimento previsto dal menzionato art. 52 come novellato dall’intervento manipolativo-additivo della Corte Costituzionale.
If) Che l’accordo in questione abbia completato, ancorchè successivamente, l’iter procedimentale previsto dalla novellata disposizione di cui all’art. 52 cit. non può essere seriamente revocato in dubbio, secondo le argomentazioni sulle quali si sono ampiamente diffuse la difesa di Roma Capitale e l’Avvocatura Generale, che trovano piena condivisione da parte del Collegio .
L’intesa è, invero, un modulo di consenso tra più amministrazioni che è caratterizzato dall’”idem placitum” come tale raggiungibile senza particolari oneri formali, anche ex post ed a sanatoria, dovendosi avere riguardo al piano sostanziale degli interessi pubblici la cui cura è affidata alle amministrazioni che sono chiamate al coordinamento delle loro iniziative e responsabilità.
Sotto questo profilo, l’invocazione, da parte di un soggetto leso dall’accordo, di una violazione formale dei tempi o delle modalità della sua conclusione, si risolve in una censura meramente cartolare, priva di effettività di tutela per gli interessi di cui si chiede protezione giuridica: potrebbe venire in rilievo una violazione del modulo del consenso laddove, in concreto, si facesse valere la contraddittorietà interna dell’intesa, la sua inefficacia ai fini di cura degli interessi pubblici o altre ragioni di doglianza riferibili alla violazione della posizione giuridica dell’amministrazione partecipante all’accordo.
Ig) Nessuna di queste circostanze è dedotta nell’odierno giudizio, con la conseguenza che le determinazioni inerenti la decisione di dislocare le attività dei ricorrenti si rivelano immuni dalle censure formulate in ordine alla violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento alle disposizioni esaminate e che le doglianze variamente proposte in ordine alla violazione del regime delle competenze per l’assenza del coinvolgimento della Regione Lazio, essendosi quest’ultima adeguata all’accordo ed alle risultanze del tavolo tecnico. Ne deriva altresì che è infondato l’ultimo dei ricorsi per motivi aggiunti, poiché affidato a ragioni essenzialmente formali incapaci di superare la chiara e consapevole manifestazione di volontà della Regione di aderire all’accordo.
Infatti, quanto alla doglianza secondo cui i provvedimenti che la Regione avrebbe approvato aderendovi sarebbero solo quelli relativi al tavolo tecnico, ma non anche i provvedimenti successivi adottati da Roma Capitale sulla delocalizzazione, si tratta di un argomento privo di rilievo, posto che la Regione, sulla base della disposizione “corretta” dall’intervento della Corte Costituzionale esercita una potestà lata di pianificazione, non di provvedimento puntuale in ordine alla rilocalizzazione temporanea di specifiche attività individualmente identificate; è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale della disposizione di cui al comma 1 dell’art. 52 del dlgs 42/2004 per le ragioni sopra ampiamente esposte; quanto alla circostanza che gli atti della Giunta Regionale sarebbero illegittimi per difetto di istruttoria ed eccesso di potere in quanto non sarebbe precisamente indicato l’atto da sanare o i relativi vizi, la censura è smentita in punto di fatto dalla semplice lettura degli atti; del tutto ipotetica è la ulteriore doglianza secondo la quale la Regione non avrebbe realmente esaminato gli atti richiamati in delibera, non ad essa allegati; infine ogni censura in ordine alla sufficienza della motivazione dell’adesione della Regione all’accordo è inammissibile vertendosi in ordine al merito politico delle scelte di governo.
II) Quanto alle altre censure dedotte, nessuna di esse è in grado di sorreggere la domanda di annullamento degli atti impugnati.
[b]Infondato è il primo motivo di ricorso, con cui si lamenta la contraddittorietà dell’azione amministrativa per contrasto con la revisione del regolamento COSAP operato con la deliberazione n. 39 del 23.7.2014 che ha disposto l’aumento di canoni applicabili alle occupazioni di suolo pubblico: affinchè venga in rilievo un fenomeno riconducibile all’eccesso di potere per contrasto tra atti e provvedimenti della medesima amministrazione, è necessario che gli atti asseritamente contraddittori siano afferenti alla tutela del medesimo interesse pubblico affidato alla PA procedente, oppure che l’esecuzione degli atti, laddove attinenti ad interessi differenti, determini un conflitto esecutivo (che si verifica quando l’adempimento di uno condizioni o impedisca l’osservanza dell’altro). Nessuna di queste condizioni si verifica nella fattispecie dedotta in giudizio, posto che la deliberazione sulla revisione delle tariffe COSAP, avente peraltro una portata ed un’efficacia di genere più ampio dell’ambito anche temporale della dislocazione temporanea, è rivolta a perseguire uno specifico riequilibrio tra il valore economico che la fruizione commerciale di un’area pubblica consente al titolare dell’OSP ed il provento per l’amministrazione che rappresenta il corrispettivo a vantaggio della collettività per compensare la sottrazione dell’area medesima alla fruizione collettiva. In questo senso, la revisione delle tariffe COSAP implica certamente un apprezzamento di valore dell’area, ma tale giudizio è di tipo astratto e generale, non implica neppure indirettamente un apprezzamento di compatibilità delle attività su di esse condotte, che dipende da altri presupposti fattuali. [/b]
Neppure può considerarsi contraddittoria la decisione avversata rispetto alla previsione di realizzare una struttura adibita a centro servizi nel terrapieno adiacente al Colosseo; invece, l’esigenza dell’Amministrazione di predisporre attrezzature idonee a servire il flusso turistico in maniera ordinata e strutturata conferma, e non smentisce, la necessità di liberare le aree circostanti i monumenti da attività che sono ritenute, per modalità di vendita (e con apprezzamento che ha valore di merito amministrativo, non sindacabile in sede giurisdizionale se non per vizi logici che nella specie non sussistono), non equivalenti alle diverse strutture che sono in programma.
Analogamente, è del tutto irrilevante ai fini di causa la circostanza di fatto (evidenziata nell’ultimo atto per motivi aggiunti e dedotta a conferma del vizio di eccesso di potere) che la Protezione civile abbia dovuto distribuire rifornimenti d’acqua ai turisti nei luoghi di riferimento, durante il periodo estivo, posto che l’Amministrazione non nega l’esigenza di assicurare un servizio di ristoro, ma sta solo operando allo scopo di individuare le opportune modalità della sua organizzazione.
III) Con il secondo argomento di ricorso, viene censurata l’illegittimità degli atti per violazione delle norme sul giusto procedimento e dell’art. 52 del Dlgs 42/2004 sotto diversi profili.
IIIa) Secondo l’ordine logico e pregiudiziale delle questioni, è preliminare l’esame dei profili di competenza interna quanto alle determinazioni con le quali si sono individuate le aree di dislocazione temporanea delle attività dei ricorrenti.
Secondo la difesa dei ricorrenti, la delocalizzazione e, prima ancora, la scelta delle aree ove trasferire le attività quali quelle dei ricorrenti, avrebbe dovuto essere disposta dall’organo consiliare e non dal dirigente del settore.
Il gravame, anche su tale punto, è infondato.
Come sarà meglio oltre chiarito, gli atti in esame hanno disposto una delocalizzazione temporanea; ancorchè esercitati in relazione a plurimi destinatari e categorie di commercianti, essi restano per natura atti di gestione vera e propria che sono di competenza del dirigente preposto all’ufficio, in quanto consistono nella variazione temporanea di un provvedimento ampliativo avente ad oggetto l’esercizio del commercio su area pubblica, quanto al solo aspetto dell’area pubblica sulla quale esercitare il titolo.
Avendo riguardo agli effetti ed alle condizioni di esercizio del potere, tale elemento del provvedimento ampliativo, così come il titolo stesso a suo tempo rilasciato, ha natura e consistenza di provvedimento individuale, tanto che all’atto del suo originale rilascio, la scelta del suolo pubblico sul quale localizzare l’attività non era stata operata con deliberazione collegiale di indirizzo politico, ma era intrinseca al rilascio del titolo, assorbita dalla relativa competenza dirigenziale.
IIIb) Stabilito che non è stato violato il regime di riparto interno delle competenze secondo il principio di separazione tra indirizzo e gestione proprio dello Statuto dell’Ente locale, vanno adesso esaminate le altre censure relativa allo svolgimento del procedimento vero e proprio.
Secondo un primo profilo, parte ricorrente lamenta che il Tavolo tecnico per il decoro, istituito in applicazione dell’accordo ex art. 15 della l. 241/90 tra il MIBAC e Roma Capitale in data 17 aprile 2014, ne avrebbe violato le previsioni perché le sue determinazioni sarebbero state assunte senza la partecipazione degli interessati, né delle loro associazioni o rappresentanze, come peraltro imposto dall’art. 35 della LR 33/1999.
Le determinazioni del Tavolo tecnico laddove individuano le attività incompatibili costituiscono la necessaria premessa per specificare l’interesse oppositivo dei singoli, che infatti sono stati coinvolti nel procedimento nella fase esecutiva del progetto di intervento che ha preso le mosse dalle risultanze del confronto tra le PA che si è condotto a livello istruttorio.
Va precisato che le memorie e le osservazioni sono state acquisite dall’Amministrazione capitolina solo dopo la conclusione del Tavolo tecnico del decoro e che quest’ultimo contiene già le previsioni in ordine alla delocalizzazione; tuttavia, attesa la finalità programmatica e pianificatoria del Tavolo (le cui determinazioni invero vincolano le Amministrazioni che ne hanno convenuto l’istituzione, e che devono quindi essere tradotte in specifici atti a rilievo esterno), le relative previsioni costituiscono la base istruttoria, o meglio la vera e propria “proposta” interna sulla quale avviare e svolgere il confronto partecipativo. Pertanto, non potrebbe convenirsi circa un’asserita inutilità dell’apporto partecipativo svolto solo dopo la conclusione dei lavori del Tavolo: sia perché all’esito del relativo procedimento – laddove ne fosse sorto il presupposto contenutistico – l’Amministrazione procedente avrebbe ben potuto rivedere le proprie determinazioni se del caso riconvocando il Tavolo; sia perché, come si vedrà meglio oltre, la natura provvisoria della dislocazione di cui si discute non esclude, anzi in qualche modo agevola, che il confronto partecipativo possa (e debba) continuare, in vista dell’assunzione delle determinazioni definitive vere e proprie che confluiranno nei Piani di riordino del commercio su aree pubbliche.
Si osserva, inoltre, che le osservazioni e le memorie proposte nel corso del vero e proprio procedimento amministrativo svolto dagli uffici competenti, si sono sostanziate in una prospettazione di ragioni ostative all’impostata dislocazione di tipo giuridico, ovvero le medesime ragioni di censura valorizzate nel presente giudizio dai diversi mezzi di gravame, ma al contempo è mancata una ragionata individuazione di siti alternativi nei quali eventualmente potersi ricollocare, specie in punto di analoga redditività del flusso turistico.
Quest’ultima tematica è stata invece oggetto di una serie di proposte rivolte ad assessori della Giunta, secondo un diverso modulo di confronto “parallelo” a quello degli uffici, e non sono confluite nel procedimento amministrativo.
Più precisamente, osserva il Collegio che la determina di indizione della conferenza dei servizi per la valutazione delle osservazioni degli interessati, nr. 231/15, è datata 3 febbraio 2015 (prot. 7308); agli atti sono allegati inviti alle associazioni di categoria per partecipare alle apposite riunioni alle date ivi meglio indicate, tutti anteriori alla conferenza dei servizi di cui si tratta; quest’ultima ha tenuto i propri lavori come da verbale del 9 marzo 2015 e si è conclusa nel senso contestato da parte ricorrente.
Le varie proposte allegate agli atti (tra le quali lo studio tecnico dell’Arch. Maria Carla Brencigaglia, datato 20 marzo 2015 e quelle sottoscritte dalle associazioni Confesercenti, APRE ed APVAD, del 17 settembre 2014, del 10 febbraio 2015, del 23 marzo 2015, dell’8 giugno 2015) sono rivolte agli organi politici di riferimenti (Sindaco ed Assessori competenti) e costituiscono – come dedotto dalla stessa difesa di parte ricorrente – un vero e proprio procedimento parallelo, inteso ad una valutazione politica della individuazione delle aree da utilizzare in via temporanea, di natura quindi alternativa al procedimento osservato dagli uffici.
Va ritenuto che, fermo restando che ogni iniziativa proveniente dall’organo politico o da singoli titolari di cariche elettive è libera, e può in ogni tempo essere rivolta agli uffici dell’Ente per sollecitare l’esercizio dei poteri di gestione, non è viziato da difetto di motivazione il provvedimento che, disponendo di interessi pubblici afferenti all’ambito della gestione dell’Ente locale, non tenga conto di osservazioni e proposte rivolte agli organi politici del Comune, ma da questi non sottoposte agli uffici o comunque non utilizzate per l’esercizio di attività di indirizzo di loro competenza.
Ciò in quanto la responsabilità del procedimento amministrativo, con i suoi corollari in ordine all’obbligo di includere nella motivazione dell’atto finale le necessarie valutazioni circa le proposte e le osservazioni partecipative dei privati coinvolti o portatori di interessi oppositivi, quando attiene a materie rientranti nella gestione, esclude interferenze di rappresentanti politici dell’Ente, i quali hanno competenza solo di indirizzo. Invero, secondo l’impianto del dlgs. 267/2000 la rappresentanza esterna dell’Ente, quanto al profilo delle attività gestionali, è del dirigente e non dell’assessore; e quindi è del dirigente la competenza ad adottare atti a rilevanza esterna o con effetti per i terzi e per i destinatari dell’attività amministrativa, incluso il dovere di valutazione delle osservazioni e degli apporti partecipativi dei soggetti coinvolti nel procedimento.
Si deve quindi affermare che, ai fini dell’esercizio delle prerogative e delle facoltà di partecipazione dei privati al procedimento amministrativo, è necessario che le relative proposte ed osservazioni siano acquisite agli atti del responsabile del procedimento e nessuno rilievo possiedono, quanto all’obbligo di motivazione, le prospettazioni o le proposte fornite all’assessore o ad altri esponenti politico-istituzionali dell’Ente che non siano state da questi trasmesse agli uffici, nei termini propri dell’istruttoria in corso.
Che, infine, ad una specifica categoria, quella degli Urtisti, sia stato riservato uno specifico trattamento differenziato, non costituisce un elemento di invalidità delle risultanze del tavolo tecnico, posto, da un lato, che la categoria in questione possiede specifiche caratteristiche storiche identitarie e di presenza nelle zone d’interesse che non è irragionevole considerare meritevole di uno specifico rilievo anticipando la loro partecipazione alla fase prodromica costituita dal menzionato tavolo tecnico, e, dall’altro che tale specifica considerazione non ha comportato una lesione immediata e diretta delle prerogative di partecipazione al procedimento degli odierni ricorrenti.
[b]Ne deriva l’infondatezza dei profili di censura con i quali si prospetta il difetto di motivazione dell’atto finale rispetto alle memorie procedimentali, posto che sul piano del merito amministrativo vero e proprio i ricorrenti non hanno offerto delle effettive alternative, o comunque le hanno proposte all’organo politico e non risulta che quest’ultimo le abbia a sua volta riversate nel procedimento in corso ad opera degli uffici o abbia esercitato attività di indirizzo politico nei termini e nei limiti propri di tale genere di competenza. [/b]
IIIc) Quanto alla carenza d’istruttoria circa la rilocalizzazione delle aree, non essendone state individuate di economicamente equivalenti, come prescritto dall’art. 52 del dlgs 42/2004, la cui applicazione dovrebbe essere condotta alla luce di specifici criteri di salvaguardia delle attività interessate come imposto da specifici ordini del giorno al Governo, che sono elencati in atti, la censura è infondata, perché le aree sono state individuate nel procedimento, e anche con la partecipazione delle parti interessate, ancorchè esse non siano risultate di gradimento dei titolari delle attività; sull’equivalenza potenziale delle aree di riferimento si tornerà meglio oltre.
IIId) Quanto alla circostanza che il DM del 17.09.2013, che interdice l’attività nell’area del c.d. “Tridente”, richiamato tra le premesse istruttorie del Tavolo tecnico, sia sub judice in quanto oggetto di gravame con il ricorso pendente nr. 12944/2013, essa non costituisce una ragione di illegittimità degli atti impugnati, non risultando comunque oggetto di sospensione interinale o di altre misure cautelari.
IIIe) Quanto alla ulteriore circostanza dedotta secondo la quale il tavolo tecnico avrebbe dovuto pronunciarsi anche su soluzioni definitive per conciliare l’esigenza di tutela del patrimonio culturale del decoro della Città di Roma con il commercio su area pubblica, ma la presa d’atto è stata adottata senza che questa parte delle decisioni del Tavolo fosse stata definita, si tratta di una doglianza priva di effettivo rilievo, perché le attività di recepimento delle determinazioni del Tavolo tecnico non sono concluse e dunque si tratta di un procedimento in itinere, che deve ancora sostanziarsi nell’adozione dei piani del commercio, ai quali seguirà la collocazione definitiva delle attività interessate (in questo senso, vale osservare che l’Avvocatura ha depositato la nota del suo coordinatore, prot. 87231 del 22 luglio 2015, dalla quale emerge che i lavori stanno proseguendo, essendo prevista la ripresa delle attività dal mese di settembre 2015, dopo l’avvenuta approvazione del Catalogo per l’Arredo Urbano Commerciale da parte del medesimo tavolo).
IV) Parte ricorrente deduce altresì l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto l’ accordo ex art. 15 della l. 241/90 tra MIBAC e Roma Capitale demandava al Tavolo tecnico la decisione sulle rilocalizzazioni, mentre la delibera nr. 233/2014 ha di fatto provveduto in autonomia configurando un vero e proprio atto di “revoca” mascherata delle autorizzazioni già assentite; ne deriverebbe altresì l’illegittimità dell’accordo tra MIBAC e Roma Capitale del 4 agosto 2014, prot. QH/52831 del 5 agosto 2014, con cui sono state assunte le dichiarazioni di compatibilità ed incompatibilità delle postazioni commerciali su area pubblica, nonché le relative prescrizioni di natura tecnica e territoriale.
Va ritenuto che, sebbene non priva di rilievo, la censura è inidonea a sostenere la domanda di annullamento.
Invero, le determinazioni del Tavolo tecnico costituiscono, come si è più volte evidenziato, un modulo istruttorio di esame degli interessi coinvolti a valenza interna, le cui determinazioni sono rivolte alle amministrazioni che ne hanno promosso la costituzione.
Ne deriva che, attesa la natura temporanea della delocalizzazione di cui si tratta, i relativi provvedimenti sono stati adottati da Roma Capitale e dal MIBAC nell’esercizio di funzioni che sono proprie delle amministrazioni procedenti, e la cui competenza non è derogata dall’accordo ex art. 15 della l. 241/90, che costituisce solo una modalità del loro esercizio (fermo restando che ogni altra valutazione in ordine al rapporto tra scelta delle aree e formulazione dei Piani del commercio potrà essere svolta solo all’esito dell’adozione di questi ultimi).
V) Quanto ai dedotti profili di illegittimità per difetto dei requisiti di forma (per mancanza della firma digitale ex art. 15, comma 2 bis, della l. 241/90) la censura è inammissibile per difetto di interesse, posto che non è lesiva per le prerogative delle parti ricorrenti la mancanza del requisito della sottoscrizione della firma elettronica tra le PA, non essendo dubbia la riferibilità della volontà espressa nell’atto alle Amministrazioni titolari dell’interesse pubblico tutelato.
VI) Parte ricorrente si duole della mancanza di ogni istruttoria volta alla definizione delle postazioni di delocalizzazione delle attività, quali la via Carlo Felice, ove sono collocati gli odierni ricorrenti, delle quali non sarebbe stata valutata l’equivalenza in termini di redditività.
Secondo parte ricorrente i parametri enunciati nella determinazione impugnata (quali “i significativi flussi di utenza”, connessi alla “scarsa presenza di tale tipologia commerciale”, la “non sussistenza di particolari esigenze di vigilanza e controlli finalizzati al contenimento di fenomeni lesivi della sicurezza e dell’ordine pubblico” e così via), sarebbero stati solo enunciati, non anche sostanzialmente applicati.
Così come già indicato in precedenza, la scelta delle aree di destinazione è stata esercitata dall’Amministrazione resistente sulla base di un procedimento nel quale le parti ricorrenti hanno versato osservazioni proprie solo di tipo giuridico – oppositivo in ordine al mantenimento nelle postazioni d’origine, con argomentazioni che sono analoghe alle censure dedotte nell’odierno giudizio e che si sono rivelate infondate.
Attese tali circostanze, i limiti di coerenza e ragionevolezza della scelta discrezionale della P.A. possono ritenersi rispettati essenzialmente avendo riguardo alla temporaneità della misura (e dunque richiamando l’attenzione dell’Amministrazione a quel necessario sforzo, tuttora dovuto, di completamento delle procedure del Tavolo tecnico e dei Piani di riordino del commercio nell’ambito del quale, peraltro, le parti interessate possono svolgere un efficace ruolo propositivo) ed all’inesistenza di un termine di comparazione alternativo in ordine al quale valutare la sufficienza e la congruità del percorso motivazionale della scelta.
Quanto alla “equivalenza” della nuova collocazione rispetto alla precedente, il Collegio condivide le deduzioni difensive di Roma Capitale, secondo la quale tale connotazione costituisce un predicato potenziale dell’area di destinazione, che trova un limite nella facoltà di indennizzo (che la parte può richiedere, laddove tale potenzialità in concreto non si riscontri) e che dunque implica che nella dislocazione non è necessario assicurare l’identico valore economico della postazione originale (se fosse così intesa, la norma avrebbe praticamente portata nulla o comunque sarebbe inapplicabile, anche attesa la difficoltà concreta di individuare con certezza i livelli reddituali precedenti), specie dovendosi avere riguardo alla più volte menzionata natura temporanea del trasferimento dell’attività.
Oltre questi limiti, la corrispondenza tra le scelte delle Amministrazioni procedenti, i parametri che sono indicati in atti, e le specifiche esigenze di tutela che la categoria dei ricorrenti involve, non è censurabile in termini di legittimità con doglianze essenzialmente incidenti su valutazioni di piena opportunità e merito amministrativo.
Peraltro, proprio perché trattasi di apprezzamenti di merito amministrativo, in ordine a tali aspetti resta salva ogni valutazione ulteriore delle Amministrazioni resistenti che potrà scaturire da motivate sollecitazioni e proposte delle parti interessate (proposte già avanzate all’amministrazione come in precedenza già evidenziato, in ordine alla cui valutazione sono espressamente fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione); queste ultime potranno altresì confrontarsi con l’Amministrazione ai fini di una diversa scelta delle forme, dei luoghi e delle condizioni cui assoggettare l’esercizio dell’attività per renderlo compatibile con le esigenze di protezione dell’area monumentale ed archeologica, interesse peraltro non confliggente con quello del commercio, posto che quest’ultimo risente positivamente della valorizzazione dell’ambito monumentale, che costituisce uno specifico valore aggiunto per i commercianti su area pubblica.
Per tutte queste ragioni, dunque, il gravame va respinto, ancorchè sussistono giuste ragioni per compensare le spese di giudizio tra le parti, attesa la particolarità della fattispecie.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter)
[b]definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto e sui motivi aggiunti, li respinge. [/b]
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2015 con l'intervento dei magistrati:
Renzo Conti, Presidente
Maria Laura Maddalena, Consigliere
Salvatore Gatto Costantino, Consigliere, Estensore

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Data: 2016-01-07 16:14:46

Re:OCCUPAZIONE SUOLO PUBBLICO e potere della PA - SENTENZA

SUOLO PUBBLICO posteggio di mercato - mancato pagamento NO RUOLO

In un quesito sottoposto al Servizio Anci risponde un comune chiede di sapere, al fine di effettuare una corretta procedura amministrativa, come comportarsi nei confronti degli operatori che non pagano il canone di concessione del posteggio relativo ai banchi di mercato.

http://buff.ly/1JZCMia

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