DIVIETO ASSOLUTO DI LICENZE in Roma Centro - legittima deroga a liberalizzazioni
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[color=red]TAR LAZIO – ROMA, SEZ. II TER – sentenza 7 ottobre 2015 n. 11504 (è stato proposto appello) [/color]
N. 11504/2015 REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 12121 del 2014, proposto dalla Società PASTAMORE Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Andrea Ippoliti, con domicilio eletto presso lo studio dello stesso in Roma, Via G. Nicotera, n.29;
contro
ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Rosalda Rocchi, con domicilio eletto presso gli Uffici dell’Avvocatura Capitolina in Roma, via Tempio di Giove, n. 21;
per l’annullamento, previa sospensione,
[b]– della nota prot. CA/127257/14 del 16.09.14 recante il diniego al rilascio di licenza per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, in Roma via in Arcione 71/a-b;[/b]
– ove possa occorrere: – della comunicazione prot. CA/116980 del 20.8.2014, recante motivi ostativi; – per la disapplicazione e/o annullamento della D.C.C. n.35 del 2010, con particolare riferimento agli articoli 10 e 11; – per l’annullamento o disapplicazione del Regolamento per l’esercizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande – studi preliminari, logiche e obiettivi”, redatto dal Dipartimento VIII Politiche per il Commercio e le attività produttive di Roma Capitale ed allegato alla D.C.C. n. 35/10, nella parte in cui possa interpretarsi ostativo alla istanza della ricorrente;
– nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente ai provvedimenti impugnati che possa interpretarsi ostativo alla ricorrente.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Vista l’ordinanza n. 5387 del 2014 che ha fissato l’odierna pubblica udienza per la trattazione del merito della causa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio 2015 il Cons. Mariangela Caminiti e uditi per le parti i difensori presenti, come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La società Pastamore Srl ha presentato istanza per il rilascio di autorizzazione all’apertura di un esercizio di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande in Roma, via in Arcione n. 71/a-b e in riscontro a ciò Roma Capitale con nota prot. n. 116980/14 del 20.8.2014 ha comunicato i motivi ostativi richiedendo una serie di documenti. La società in data 9 settembre 2014 ha prodotto i documenti richiesti ed ha replicato alle considerazioni dell’Amministrazione, contestando anche alcune conclusioni dell’orientamento sulla materia di questa Sezione e del Consiglio di Stato.
[b]Espone che in seguito con nota in data 16 settembre 2014, prot. n. 127257, Roma Capitale ha comunicato il diniego del rilascio di tale licenza di somministrazione, sul presupposto di quanto già comunicato con i motivi ostativi (ricadente nel rione Trevi, c.d. Ambito 1, con applicabilità della Delibera C.C. n. 35 del 2010 che prevede in tale zona il divieto assoluto di rilascio di nuove licenze), senza considerare quanto opposto con le controdeduzioni avanzate dalla società.[/b]
1.1. Avverso tale provvedimento la società ha proposto ricorso denunciando la illegittimità dello stesso in quanto Roma Capitale non si sarebbe adeguata alle leggi statali sulle c.d. Liberalizzazioni (entro 31 dicembre 2012) con ricadute negative sulle iniziative dei privati; inoltre sostiene che tali leggi nazionali avrebbero reso inefficaci e non più cogenti le disposizioni della Del.C.C. n. 35 del 2010 in materia di regolamentazione del rilascio delle licenze per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande.
Allega al ricorso i seguenti articolati motivi di impugnazione con cui denuncia: – L’Illegittimità in via propria e derivata con riferimento al principio comunitario della libera concorrenza e del principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata; illegittimità del diniego per difetto di istruttoria e di motivazione; illegittimità degli articoli 10 e 11 della DCC n. 35 del 2010; violazione e falsa applicazione degli articoli 31 e 34 della legge n.214 del 2011 e dell’art. 1, comma 1 della legge n.27 del 2012; violazione falsa applicazione dell’art. 1 della legge n.131 del 2013; violazione del principio del tempus regit actum; eccesso di potere per violazione del principio di elasticità dei poteri; vessatorietà, sviamento, travisamento dei presupposti di fatto e diritto, illogicità, arbitrarietà, ingiustizia manifesta, violazione del principio di proporzionalità ed adeguatezza; ove possa occorrere disapplicazione della legge regionale n. 21 del 2006 (art. 4 e 5) per violazione e falsa applicazione degli articoli 31 e 34 della legge n.214 del 2011 e dell’art. 1, comma 1, della legge n.27 del 2012; violazione falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 131 del 2003 ( primo, terzo, quarto, quinto, sesto, settimo e ottavo mezzo);
– L’Illegittimità per violazione dell’art. 10 bis della legge n.241 del 1990 (secondo mezzo);
– L’Illegittimità per violazione dell’art. 1 del d.l. n. 1 del 2012 e del Dl n. 201 del 2011; eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e diritto; difetto di istruttoria, illogicità, arbitrarietà, ingiustizia manifesta ( nono mezzo).
1.2. Con riferimento alla prima serie di motivi parte ricorrente deduce, nella sostanza, la illegittimità del Regolamento di cui alla Del.C.C. n. 35 del 2010, in relazione agli articoli 10 e 11, considerandoli in palese contrasto con la normativa statale che ha stabilito una preclusione per i comuni di sancire divieti generalizzati all’apertura di nuove attività commerciali perché violativi dei principi comunitari di libertà di stabilimento e costituzionali di libera iniziativa economica. Lamenta che Roma Capitale non avrebbe adeguato il predetto Regolamento alle nuova disciplina e che il provvedimento di diniego impugnato, successivo all’entrata in vigore della legge n. 214 del 2011 nonché della successiva legge n. 27 del 2012, sarebbe illegittimo in quanto sulla base del principio tempus regit actum l’Amministrazione avrebbe dovuto tenere conto di tali norme nonché dell’ulteriore prescrizione per le regioni e gli enti locali di adeguare i propri ordinamenti (entro il 30 settembre 2012), con l’onere di operare un nuovo bilanciamento tra le esigenze di liberalizzazione e tutela della concorrenza e le esigenze di tutela di valori quali la salute, l’ambiente e i beni culturali (art. 31 del d.l. n. 201 del 2011). Tale valutazione dovrebbe essere compiuta ex novo dal Comune sulla base di analisi aggiornate e, nelle more della valutazione da compiersi ai sensi delle prescrizioni dei decreti sulle c.d. Liberalizzazioni, Roma Capitale non potrebbe negare l’autorizzazione sul presupposto del mero riferimento al Regolamento DCC n. 35 del 2010, esercitando un potere del tutto vincolato, ma al contrario avrebbe dovuto compiere una istruttoria seria e analitica con una valutazione rigorosa e maggiormente pertinente e svincolata da norme non più cogenti, alla luce anche di recenti pronunce di questa sezione. Parte ricorrente contesta anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 3802 del 2014 – che ha ritenuto ragionevole l’applicazione regolamentare da parte del Comune e conforme ai principi nazionali e comunitari in materia di libera iniziativa economica – ritenendola erronea in quanto le regioni e i comuni non avrebbero facoltà discrezionali in materia di concorrenza, materia di competenza esclusiva dello Stato, dovendo pertanto ottemperare all’obbligo impartito volto all’adeguamento dei precetti alla nuova normativa. La tutela della concorrenza sarebbe materia riservata alla competenza esclusiva dello Stato e destinata a prevalere immediatamente, ovvero dopo l’infruttuosa scadenza del termine di adeguamento, per l’espansione sulle eventuali disposizioni regionali contrastanti (primo mezzo).
Parte ricorrente poi deduce la violazione dell’art.10 bis della legge n. 241 del 1990 in quanto il diniego impugnato richiamerebbe i motivi ostativi (mera fotocopia) senza menzionare le osservazioni proposte dalla ricorrente (secondo mezzo).
La società censura altresì la carenza di istruttoria e di motivazione in quanto non risulterebbe effettuata ex novo la perimetrazione di aree interdette e la previsione di limitazioni di insediamento, con evidente inerzia dell’Amministrazione in assenza di una attività generale pianificatoria da effettuare caso per caso con riferimento alla fattispecie concreta; da qui la necessità di un riesame da parte del Comune sulla domanda alla luce di una concreta apertura di istruttoria (terzo mezzo).
Inoltre la ricorrente censura la illegittimità del Regolamento di cui alla Del.C.C.n. 35 del 2010 basato su studi preliminari facenti riferimento ai dati sugli esercizi di somministrazione non aggiornati (come in premessa della Del. C.C. n. 35 del 2010), mentre la valutazione degli interessi richiesta dal d.l. n. 201 del 2011 dovrebbe essere condotta su dati attuali, tenendo conto del turn-over degli esercizi in questione, con evidente illegittimità del provvedimento impugnato e degli atti prodromici di riferimento (quarto mezzo).
Aggiunge altresì che la Del.C.C. n. 35 del 2010 utilizzerebbe come parametro di riferimento il solo numero di soggetti residenti in determinate zone non tenendo in considerazione i soggetti fluttuanti, quali i domiciliati e i turisti, il che sarebbe sufficiente per inficiare l’illegittimità del provvedimento impugnato (quinto mezzo).
E ancora sarebbe illogico, arbitrario e irrazionale il riferimento alla “pressione antropica” caratterizzante determinate zone di Roma, indicata nella Del.C.C. n. 35 del 2010, quale presupposto per inibire il rilascio di autorizzazioni in dette zone, considerando che la stessa sarebbe limitata solo ai bar e ristoranti e non anche ai centri commerciali, negozi d’abbigliamento, cinema, gioiellerie, grandi uffici, alberghi, banche, senza particolari controlli per l’apertura di questi ultimi nel centro storico (sesto mezzo).
Nel caso in cui si ritenesse legittima la Del.C.C. n. 35 del 2010, comunque l’art. 11, comma 7 della stessa, che prevede la revisione triennale degli Ambiti, sarebbe stato violato e falsamente applicato in assenza di tale revisione nel 2013, tenuto conto della successiva adozione del diniego impugnato (settimo mezzo).
Inoltre nel contemperare gli interessi della collettività e quello privato, senza sacrificare l’interesse della libera attività economica privata, la Pa avrebbe dovuto considerare che la ricorrente già esercita nei locali attività di laboratorio di gastronomia calda da asporto e di vendita di prodotti appartenenti al settore alimentare, quindi un esercizio già aperto, con un impatto minore e diverso rispetto ad una nuova apertura (ottavo mezzo).
Infine sarebbe illegittimo il comportamento dell’Amministrazione che avrebbe richiesto alla ricorrente una serie di documenti, prodotti ed allegati alle controdeduzioni, ma non presi in considerazione dall’Amministrazione stessa nel diniego gravato (nono mezzo).
Si è costituita in giudizio Roma Capitale per resistere al ricorso ed ha depositato documentazione.
Con ordinanza n. 5387 del 2014 è stata fissata l’udienza pubblica per la trattazione nel merito del ricorso.
In prossimità della odierna pubblica udienza Roma Capitale ha depositato memoria difensiva con la quale ha controdedotto alle censure di parte ricorrente con articolate argomentazioni sulla legittimità delle norme regolamentari e sull’operato dell’Amministrazione in relazione all’atto impugnato.
Con memoria conclusionale parte ricorrente ha replicato alle considerazioni dell’Amministrazione, insistendo con ulteriori argomentate considerazioni a sostegno della propria posizione.
Alla pubblica udienza del 7 maggio 2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
2. Nell’odierno giudizio si controverte in ordine alla legittimità del diniego opposto da Roma Capitale alla società ricorrente riguardo il rilascio di autorizzazione all’apertura di un locale di somministrazione di alimenti e bevande in via Arcione n.71/ a-b, nel Rione Trevi.
2.1. A motivo del diniego, il provvedimento richiama la nota recante i motivi ostativi (prot.CA/116980 del 20.8.2014), precedentemente notificata, e precisa:“considerate inoltre le memorie scritte prodotte oltre la scadenza del termine ultimo per la presentazione in data 09/09/2014 con prot. CA/123997 e non idonee ad interrompere l’avvio del procedimento di diniego, si comunica …..Ai sensi del Regolamento per l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande di cui alla Determinazione Consiglio Comunale n. 35 del 16/03/2010, negli Ambiti indicati al comma 4 dell’articolo 10, tra cui l’Ambito n.1 – Zona Urbanistica 1° – Centro Storico in cui ricade Via in Arcione 71/a-b (Rione Trevi), non è consentito il rilascio di autorizzazioni per nuove attività di somministrazione di alimenti e bevande. Considerato inoltre che, anche alla luce delle norme e dei principi dettati dal Legislatore negli anni 2011 (D.L.n.201/2011, con legge n. 214/2011 – c.d. Decreti “Salva Italia”) e 2012 (D.L.n.1/2012, convertito con legge n. 14/2012 – c.d. Decreto “Cresci Italia”) in assenza della conseguente normativa regionale, la recente sentenza del Consiglio di Stato n. 3802/2014 ha ritenuto legittima e, comunque, ragionevole, l’applicazione della Disciplina capitolina approvata nel 2010 (D.C.C. n. 35/2010) in tema di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, in particolare negli Ambiti in cui vige il diniego di rilascio, in quanto ‘…. tuttora conforme ai principi nazionali e comunitari posti a tutela della concorrenza e dell’iniziativa economica’ …..”.
2.2. Parte ricorrente ha dedotto articolate e argomentate censure – come sopra riportate – volte a far valere sia l’illegittimità della Delibera C.C. n. 35 del 2010 per l’intervenuto mutamento del quadro normativo nazionale e comunitario, nella parte in cui impedisce l’apertura di nuove attività di somministrazione di alimenti e bevande negli Ambiti predefiniti, sia in generale vizi propri dell’atto di diniego impugnato per carenza d’istruttoria ed eccesso di potere, sotto più profili, in quanto non sussisterebbe in concreto una valutazione oggettiva della situazione dell’area, con richiami ai riferimenti contenuti nella predetta Delibera basati su dati non più attuali.
2.3. Con riferimento alla prima serie di motivi – attinenti alla illegittimità della Delibera C.C. n. 35 del 2010, per il contrasto delle norme recate dagli art. 10 e 11 con l’intervenuto mutamento del quadro normativo nazionale e comunitario – osserva il Collegio che la questione è stata già affrontata dalla Sezione nella fase di prima applicazione della normativa (sentenze n. 3203 del 2012 e n. 6721 del 2013, seguite da altre pronunce, tra le quali la n. 9016/2013, alle cui motivazioni si rinvia) rilevando il carattere innovativo del quadro normativo nazionale, come delineatosi con la disciplina sulle c.d. Liberalizzazioni, rispetto alle prescrizioni vigenti al momento della introduzione della predetta regolamentazione comunale e regionale. In tal caso nelle more di un adeguamento della pianificazione comunale si è ritenuta la necessità per l’Amministrazione di effettuare adeguate valutazioni di ogni istanza, senza l’automatica applicazione dei divieti di apertura di nuovi esercizi, ai sensi della predetta Delibera C.C. n. 35 del 2010.
In relazione a ciò il Collegio dà atto che il Consiglio di Stato si è orientato in diverso avviso (sentenza sez. V, 17 luglio 2014, n. 3802, che ha riformato la predetta sent. n.6721/2013), sostenendo che non vi sono “differenze sostanziali di contenuto, per quanto qui interessa, nella legislazione nazionale e comunitaria susseguitasi a far tempo dal D.L. n. 223/2006, dalla direttiva 2006/123/CE e dalla relativa legge di recepimento (decreto legislativo n. 59/2010) fino ai più recenti decreti “Salva Italia” (D.L.n. 201/2011, conv. legge n. 214/2011) e “Cresci Italia” (D.L. n. 1/2012, convertito con legge n. 14/2012)”.
Orbene il provvedimento impugnato richiama espressamente la predetta Delibera n. 35 del 2010 nonché la sentenza del Consiglio di Stato n.3802 del 2014 e comunque contiene una motivazione specifica che conferma per l’area dove ricade l’esercizio l’applicabilità del divieto di rilascio di nuove autorizzazioni per la somministrazione di alimenti e bevande nell’Ambito 1 – Zona Urbanistica 1a – Centro Storico (Rione Trevi) – anche alla luce delle norme e principi dettati dal Legislatore negli anni 2011 e 2012 in materia di c.d. Liberalizzazioni (pur in assenza di adeguamento della normativa regionale), ritenendo comunque legittima e ragionevole l’applicazione della disciplina di cui alla Deliberazione C.C. n. 35 del 2010, richiamando all’uopo la sentenza n. 3802 del 2014 del Consiglio di Stato.
2.4. Tale ulteriore conferma dell’applicabilità del divieto di rilascio di nuove autorizzazioni nel suddetto Ambito 1 impone al Collegio l’esame della individuazione delle disposizioni in materia costituenti l’impianto normativo nella sua evoluzione e l’interpretazione fornita al riguardo dalla giurisprudenza anche costituzionale.
Partendo dall’art. 117, quarto comma, della Costituzione va rilevato che la materia del commercio rientra tra quelle di competenza legislativa esclusiva delle Regioni (cfr. Corte Cost. sent. n. 288 del 2010) e il D.Lgs. n. 114 del 1998, recante la riforma della disciplina del commercio, agli art. 6 e 10, con riferimento alle problematiche relative ai centri storici ha stabilito la competenza delle Regioni per definire gli indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali. In particolare, la legge regionale 29.11.2006, n. 21 – emanata dopo l’introduzione delle norme in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci, di derivazione comunitaria (d.l. n.223 del 2006) – ha previsto all’art. 5 la competenza dei comuni riguardo la determinazione dei criteri per lo sviluppo degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, con l’indicazione anche delle condizioni per il rilascio delle autorizzazioni per singole zone del territorio comunale. Nello specifico tale normativa regionale ha stabilito – in conformità al principio di differenziazione stabilito dall’art. 118, primo comma, della Costituzione e dall’articolo 16, comma 1, dello Statuto – che il Comune di Roma, in considerazione dell’alta rilevanza artistico-monumentale, del crescente livello dei flussi turistici e delle particolari caratteristiche demografiche e strutturali, può determinare i criteri ed utilizzare gli indici o parametri numerici anche in deroga agli indirizzi regionali, con particolare riferimento alla Città storica, così come definita nel proprio Piano regolatore urbanistico (art. 5).
Nella ricognizione delle norme occorre osservare che con il d.lgs. 26 marzo 2010, n.59 il Legislatore, in attuazione della Direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, in relazione alla fattispecie della somministrazione degli alimenti e bevande, dopo aver indicato che l’apertura degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, di cui alla legge 25 agosto 1991, n. 287, è soggetta ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente per territorio ha disposto all’art. 64 che “al fine di assicurare un corretto sviluppo del settore, i comuni, limitatamente alle zone del territorio da sottoporre a tutela, adottano provvedimenti di programmazione delle aperture degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico … , ferma restando l’esigenza di garantire sia l’interesse della collettività inteso come fruizione di un servizio adeguato sia quello dell’imprenditore al libero esercizio dell’attività” (comma 3) ed ha specificato, altresì, che “tale programmazione può prevedere, sulla base di parametri oggettivi e indici di qualità del servizio, divieti o limitazioni all’apertura di nuove strutture limitatamente ai casi in cui ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi di controllo in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità; in ogni caso, resta ferma la finalità di tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale e sono vietati criteri legati alla verifica di natura economica o fondati sulla prova dell’esistenza di un bisogno economico o sulla prova di una domanda di mercato, quali entità delle vendite di alimenti e bevande e presenza di altri esercizi di somministrazione” (comma 3).
Va rilevato che nella sequenza delle norme in materia di c.d. Liberalizzazioni, anche la normativa successiva a quella già indicata – art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, conv. con mod. dalla legge n. 214 del 2011, come modificato dal d.l. n. 1 del 2012 e dal successivo d.l. n. 69 del 2013 – ripropone il contenuto delle precedenti norme (art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 e art. 64 del d.lgs. n. 59 del 2010) e al generale principio di libera apertura di nuovi esercizi antepone la deroga dei limiti e vincoli “connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012, potendo prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali ”.
[color=red][b]2.5. La regolamentazione comunale in materia è stata introdotta con la Deliberazione C.C. n. 35 del 16 marzo 2010, che ha approvato la disciplina per l’esercizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande, ai sensi della legge regionale 29 novembre 2006, n. 21 e del regolamento regionale 19 gennaio 2009, n. 1. Tale regolamentazione è comunque intervenuta successivamente all’entrata in vigore delle predette originarie disposizioni che hanno recepito i principi comunitari in materia di c.d. Liberalizzazioni e, sulla base di quanto di seguito indicato, risulta conforme alle fonti normative sovraordinate nonché a quelle che si sono succedute nel tempo, anch’esse riproduttive dei principi originari e delle finalità di cui al d.l.n. 223 del 2006 e del d.lgs. n. 59 del 2010.[/b][/color]
Innanzitutto dall’esame di tale regolamentazione va evidenziata la finalità che la Deliberazione C.C. n. 35 del 2010 stessa indica di perseguire – significativa della conformità alle finalità delle fonti sovraordinate – ossia “contemperare l’interesse dell’imprenditore al libero esercizio dell’attività, e quello della collettività ad un servizio commerciale adeguato, nonché di garantire la migliore e capillare localizzazione delle attività, tale da rispondere alle necessità del territorio del Comune di Roma. Intende inoltre salvaguardare le zone di pregio artistico, storico, architettonico, archeologico ed ambientale, anche attraverso la presenza di attività di somministrazione qualitativamente adeguate” (art. 1, comma 2). Nello specifico nell’Allegato 2 della Deliberazione stessa sono indicate le logiche e gli obiettivi del Regolamento e i contenuti dello stesso ed è descritto il procedimento seguito per l’individuazione della zonizzazione del tessuto urbano, dei requisiti dell’esercizio (strutturali e di qualità), nonché le valutazioni effettuate sulla base dei dati relativi alla densità territoriale degli esercizi, alla popolazione e ad altri elementi e fattori determinanti.
In particolare dal punto di vista applicativo l’art. 3 del Regolamento subordina l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande al rilascio di un’autorizzazione amministrativa o alla presentazione di una dichiarazione di inizio attività o di una comunicazione ai sensi dell’art. 11, comma 12, l.r. n. 21 del 2006. Il successivo art. 10 del medesimo Regolamento prevede poi che, ai fini della regolamentazione delle attività di somministrazione sono individuati gli Ambiti territoriali caratterizzati dalla presenza di particolari condizioni di concentrazione delle attività commerciali e di elevati livelli di pressione antropica e/o di eventuali vincoli di tutela ai sensi della normativa vigente in materia ambientale, archeologica, monumentale, culturale, paesaggistico-territoriale e storico-artistica (comma 4) ed in tali Ambiti – nella specie del Municipio I – Ambito 1 – ai sensi dell’art. 11, comma 1, del Regolamento, non è consentito il rilascio di autorizzazioni per nuove attività di somministrazione di alimenti e bevande.
[b]Del resto le norme nazionali come sopra indicate consentono che l’ente territoriale legittimamente può porre limiti all’esercizio dell’attività economica che siano adeguati, proporzionali e ragionevoli e comunque volti a garantire la conformità delle dinamiche economiche ai principi della Costituzione, con particolare riferimento alla utilità sociale (cfr. Corte cost. 20 luglio 2012, n. 200).[/b]
Come già rilevato la potestà legislativa “regionale” in materia di commercio è sancita dalla Costituzione (art. 117, quarto comma) e alla stessa i Comuni devono attenersi.
[b]Nella fattispecie è vero che la Regione Lazio non ha proceduto all’adeguamento nel termine prescritto – tra l’altro ordinatorio – e, quindi, ad attuare le prescrizioni del legislatore primario nell’ambito della propria regolamentazione al fine di renderla conforme, ove già non lo fosse, ai principi sulle c.d. Liberalizzazioni. Tuttavia in mancanza di espresse norme regionali, l’Amministrazione ha continuato ad applicare le disposizioni regolamentari già adottate, ritenendole conformi ai principi comunitari e nazionali posti a tutela della concorrenza e dell’iniziativa economica, come sopra evidenziato dal confronto delle norme.[/b]
Del resto le pur argomentate considerazioni di parte ricorrente, tra l’altro non supportate da dati oggettivi sulla reale situazione dell’area interessata, comunque situata nel “Centro Storico” di Roma, non appaiono convincenti di fronte alle valutazioni operate dalla complessa e articolata Deliberazione – atto presupposto a quello impugnato in via principale – comprensiva di allegati, elenchi, tabelle e degli esplicitati obiettivi ivi indicati (rispondenti ai principi nazionali e comunitari, come già evidenziato), che riportano l’iter logico seguito dall’Amministrazione nel definire tali divieti in coerenza con l’esigenza, prefigurata dalla norma primaria, di tutelare valori primari di sostenibilità ambientale e sociale con la salvaguardia dei valori storico-artistici del contesto del territorio di riferimento, come confermato anche dalla richiamata sentenza del Cons. di Stato n. 3802 del 2014.
Né l’ulteriore censura sollevata da parte ricorrente sulla mancata revisione triennale degli Ambiti e delle disposizioni ad essi relativi, da parte dell’Amministrazione, di cui all’art. 11, comma 7 del Regolamento può rilevare quale vizio dell’atto di diniego impugnato: in particolare tale norma prevede che “gli ambiti e le disposizioni ad essi relative sono soggetti a revisione triennale in relazione agli eventuali mutamenti degli elementi fattuali sottesi alla loro individuazione monitorati dai municipi territorialmente competenti, ovvero in caso di sopravvenute ragioni di pubblico interesse”. Con tale norma la stessa Amministrazione prevede, in un contesto di limitazione, un importante e necessario elemento strutturale dell’esercizio del potere, volto ad attualizzarne l’adeguamento allo scopo di assicurare una sempre rinnovata ponderazione degli elementi del contesto (così da ridurre il rischio di proteggere indirettamente rendite di posizione degli operatori commerciali già insediati e poter migliorare il servizio all’utenza, costituita sia dalla clientela, che dai residenti e dai turisti). Tuttavia il mancato adeguamento lamentato da parte ricorrente – sia pur doveroso ma condizionato ad eventuali mutamenti della situazione di fatto o per ragioni sopravvenute di pubblico interesse (non dimostrati) – è tutelabile con gli ordinari rimedi anche processuali concessi dall’ordinamento, nella specie non attivati.
Tra l’altro occorre rilevare che sul tema del generale obbligo di adeguamento disposto dal legislatore nazionale si è espressa la Corte costituzionale in occasione di ricorsi presentati da alcune Regioni e significativa è la richiamata sentenza n. 200 del 2012 secondo cui l’intervento statale in tema di regolazione delle attività economiche “deve essere inquadrato nel campo delle competenze statali di portata trasversale relative alla tutela della concorrenza ed opera non stabilendo regole, ma piuttosto introducendo disposizioni di principio, le quali, per ottenere piena applicazione, richiedono ulteriori sviluppi normativi, da parte sia del legislatore statale, sia di quello regionale, ciascuno nel proprio ambito di competenza; il legislatore nazionale non ha occupato gli spazi riservati a quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole regioni continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi stabiliti a livello statale; inoltre, il principio della liberalizzazione non è stato affermato in termini assoluti, ma si è previsto che venga modulato per perseguire gli altri principi indicati dallo stesso legislatore, in attuazione delle previsioni costituzionali (sentt. n. 388 del 1992, 401, 430 del 2007, 160, 167 del 2009, 45, 152, 247, 270 del 2010)”. Inoltre secondo la Corte costituzionale “in virtù della tecnica normativa utilizzata, basata su principi e non su regole, il legislatore nazionale non ha occupato gli spazi riservati a quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole regioni continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi stabiliti a livello statale. Inoltre, il principio della liberalizzazione non è stato affermato in termini assoluti, né avrebbe potuto esserlo in virtù dei vincoli costituzionali, ma si è previsto che venga modulato per perseguire gli altri principi indicati dallo stesso legislatore, in attuazione delle previsioni costituzionali”, sicché aggiunge ancora la Corte costituzionale che il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche richiede “che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore statale ha elencato….. Complessivamente considerata, essa non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale”.
[b]Da quanto premesso appare esclusa la presenza di profili di inconciliabilità della regolamentazione comunale in questione rispetto al quadro normativo di rango primario evocato dalla ricorrente in ragione del necessario contemperamento del principio di “liberalizzazione” delle attività commerciali con interessi di tutela che rilevano preminente attenzione e salvaguardia, così da indurre profili di recessività dello stesso, anche con riferimento alla circostanza dell’attuale svolgimento di attività di laboratorio nel locale in questione, non potendosi condividere la tesi della ricorrente secondo la quale la richiesta di apertura di un esercizio di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande non costituirebbe una apertura ex novo, attesa la diversità delle due attività.[/b]
[color=red][b]In tal senso il limite all’apertura e trasferimento delle attività di somministrazione, come disposto dalla Deliberazione C.C. n. 35 del 2010, risulta così adeguato agli obiettivi come sopra delineati e anche ragionevole perché garantisce la più adeguata localizzazione delle attività, salvaguardando le aree di maggiore valenza artistico-monumentale con il perseguimento anche dell’utilità sociale.[/b][/color]
Pertanto dalla ricostruzione del quadro normativo e dalla interpretazione che di esso è stato fornito dalla giurisprudenza ne consegue la infondatezza della serie di censure con le quali è stato dedotto il contrasto dell’atto di diniego impugnato con le norme sulla liberalizzazione delle attività economiche e i principi elaborati in materia dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa.
2.5. Con riferimento agli altri vizi propri dell’atto impugnato censurati dalla società, con riguardo la carenza istruttoria e motivazionale e dei presupposti, va rilevato che l’Amministrazione, sia pure con motivazione sintetica, ha disposto il diniego del rilascio di autorizzazione per l’apertura di locale si somministrazione in Via in Arcione, n. 71/a-b, ricadente nel Ambito 1-Rione Trevi ed ha confermato l’applicabilità della norma regolamentare richiamata (art. 10 Del.CC. n.35 del 2010), considerandola legittima anche alla luce della normativa sulle c.d. Liberalizzazioni e “ragionevole” l’applicazione della stessa nell’ area di riferimento – Ambito 1, notoriamente di pregio.
Va rilevato che la “ratio” della motivazione del diniego, con la conferma dell’applicabilità delle prescrizioni contenute nella Deliberazione richiamata e quindi della persistente legittimità dei presupposti alla base della stessa, non può considerarsi incisa dalle insufficienze riscontrate dalla ricorrente anche riguardo la valutazione effettuata su dati non attuali del turn-over degli esercizi in questione (tra l’altro non dimostrati), in quanto non può di per sé venire in rilievo un mero collegamento numerico tra esercizi chiusi o trasferiti e licenze assentibili, perché non è configurabile un “contingente” di esercizi assentibili, ma occorre riferirsi alle complesse logiche e finalità alla base della disciplina regolamentare, che ha tenuto conto di molteplici elementi e fattori nel definire tali divieti in coerenza con l’esigenza, prefigurata dalla norma primaria, di tutelare valori primari di sostenibilità ambientale e sociale per salvaguardare le aree di maggiore valenza artistico-monumentale presenti nel territorio di riferimento in un contesto di assoluta unicità, nei confronti del quale la tutela è piena.
2.6. Infine con riferimento ai profili di illegittimità del provvedimento di diniego e del comportamento dell’Amministrazione per il mero richiamo ai motivi ostativi – senza menzionare le osservazioni proposte dalla società ricorrente – e per la mancata considerazione nel diniego gravato dei documenti, prodotti ed allegati alle controdeduzioni, si rileva che l’atto impugnato ha indicato di aver “considerato(e) le memorie scritte prodotte oltre la scadenza del termine ultimo per la presentazione in data 09/09/2014 con prot. CA/123997 e non idonee di interrompere l’avvio del procedimento di diniego”.
Al riguardo occorre richiamare l’orientamento della giurisprudenza secondo cui l’art. 10-bis, della legge n. 241 del 1990 nello stabilire l’obbligo per l’Amministrazione nei procedimenti ad istanza di parte di inviare il c.d. “preavviso di rigetto”, non impone nel provvedimento finale la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso ossia una esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative svolte e nel caso di specie le osservazioni dell’interessato, per la gran parte di contestazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 3802 del 2014, appaiono inadeguate a superare le motivate considerazioni poste a sostegno del diniego e preannunciate alla medesima con il preavviso ex art. 10 bis, della legge n. 241 del 1990, in assenza altresì di comprovati dati sulla condizione specifica e attuale del sito e dell’Ambito di riferimento da smentire le valutazioni deliberate dall’Amministrazione (cfr. Tar Friuli-Venezia Giulia, 10 dicembre 2013, n. 644 ). Del resto il dovere della Pa di esaminare le memorie prodotte dall’interessato a seguito della comunicazione del preavviso di rigetto non comporta la confutazione analitica delle allegazioni presentate dall’interessato, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso (pertinente in tal caso è il richiamo espresso nell’atto impugnato di aver “considerate ….le memorie scritte prodotte oltre la scadenza del termine ultimo per la presentazione” nonché l’affermazione della conferma della vigenza della disciplina regolamentare comunale, anche alla luce della normativa sulle c.d. Liberalizzazioni e di quanto sostenuto dal Consiglio di Stato nella richiamata sentenza n. 3802 del 2014, che rendono nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative) (cfr. ex multis, Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 10 aprile 2015, n. 866; Tar Campania, Salerno, sez. I, 9 gennaio 2015, n. 53; Tar Sardegna, 19 settembre 2014, n. 720; Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 6 febbraio 2014, n. 395).
3. Conclusivamente, il ricorso è infondato e va respinto, ancorché sussistano evidenti ragioni di equità per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti, in ragione della complessità della materia e dell’evoluzione giurisprudenziale.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 7 maggio e 2 luglio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Renzo Conti, Presidente
Mariangela Caminiti, Consigliere, Estensore
Maria Laura Maddalena, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 07/10/2015.