[color=red][b]Chi non si ferma all'ALT DELLA POLIZIA compie "resistenza a pubblico ufficiale"[/b][/color]
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http://www.asaps.it/nuovo/downloads/files/art_pag_14_cent_160.pdf
http://www.lucidi.net/Download.aspx?nFILE=LEGGI/CP/GIURISPRUDENZA_ART_337_CP.pdf
http://www.piemmenews.it/index.php?option=com_mtree&task=viewlink&link_id=2866&Itemid=3
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http://renatodisa.com/2014/06/23/corte-di-cassazione-sezione-iv-sentenza-del-23-maggio-2014-n-21025-condannati-in-concorso-per-i-reati-di-resistenza-ex-art-337-lesioni-oltraggio-il-primo-alla-guida-ed-il-secondo-come-passeg/
http://www.leccenews24.it/cronaca/senza-documenti-non-si-ferma-all-alt-della-polizia-indagato-per-resistenza-a-pubblico-ufficiale.htm
http://www.altalex.com/documents/altalex/news/2007/11/19/forzamento-di-un-posto-di-blocco-e-reato-di-resistenza-a-pubblico-ufficiale
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Resistenza a pubblico ufficiale - Non fermarsi all’Alt delle Forze di Polizia - Fuga in condizioni di pericolo - Sussistenza del reato.
Cass. Pen., sez. 2, sentenza n. 35826 del 1° ottobre 2007
La condotta di chi non si ferma all’alt intimato dalle Forze di Polizia concretizza una situazione di generale pericolo (es. la fuga ad alta velocità in ambienti ad alta densità abitativa) che determina una minaccia indiretta atta ad ostacolare la regolare esplicazione della pubblica funzione e, pertanto, integra la fattispecie del reato di resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.).
Fuga posta in essere da chi non si ferma all’alt dei Carabinieri e sua rilevanza penale
1. La vicenda processuale.
In data 2005 il Gip del Tribunale di Palermo dichiarava non doversi procedere nei confronti di L.F., in ordine al reato di cui all’art. 337 c.p. (resistenza a un pubblico ufficiale) perché il fatto non sussiste, disattendendo in tal modo la richiesta di emissione di decreto penale formulata dal Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale. Questi, successivamente, deducendo l’erronea applicazione della legge penale, ricorreva alla Corte d’Appello di Palermo la quale, con ordinanza del 17/11/2006, qualificata correttamente l’impugnazione come ricorso per Cassazione, trasmetteva gli atti per competenza alla Suprema Corte.
L’addebito mosso all’imputato era di non avere ottemperato, mentre era alla guida del suo ciclomotore, “…all’alt intimatogli dai Carabinieri con paletta d’ordinanza e di essersi dato a precipitosa fuga ad altissima velocità per le strette strade del centro storico, ponendo così in pericolo l’incolumità dei militari e dei terzi utenti della strada…”.
Il giudice di primo grado, nell’evidenziare che il delitto di resistenza a p.u. si sarebbe concretizzato “…ove l’imputato per forzare il posto di blocco avesse diretto il veicolo contro i Carabinieri che intendevano fermarlo…”, riteneva insussistente la fattispecie del reato in argomento non avendo di fatto l’imputato posto in essere alcuna “…attività minacciosa o violenta all’indirizzo dei militari operanti per opporsi a costoro mentre compivano un atto dell’ufficio…”.
Il PM nel ricorrere avverso la decisione del Gip del Tribunale di Palermo evidenziava che nella fattispecie di cui al cit. art. 337 c.p. non è richiesto che la violenza o la minaccia siano necessariamente dirette contro il pubblico ufficiale ma più semplicemente che siano esercitate con il fine ultimo di ostacolare o frustrare l’esplicazione della pubblica funzione.
La Suprema Corte, avallando tale interpretazione formulata dal PM ricorrente, ha sottolineato che ogni comportamento idoneo ad impedire l’esercizio di un dovere d’ufficio manifesta, sotto il profilo psicologico dell’azione, la volontà di “…opporre una forza di resistenza positiva all’attività del pubblico ufficiale…”.
Con riferimento all’elemento materiale della fuga la Corte di Cassazione medesima ha, inoltre, affermato che laddove, come nel caso di specie, il soggetto si sottrae alla Pubblica Autorità con modalità tali da manifestare il chiaro proposito d’interdire od ostacolare al pubblico ufficiale il compimento del proprio ufficio, viene ad integrarsi la fattispecie del reato di resistenza a p.u. .
L.G., prosegue la Corte medesima, non fermandosi all’alt intimatogli, ha avuto modo di darsi successivamente alla fuga percorrendo ad alta velocità le strette vie del centro storico di Palermo, frequentate da molta gente, “…determinando così una situazione di generale pericolo, concretizzatasi in una minaccia indiretta che ostacolò la regolare esplicazione della pubblica funzione…”.
Con tali motivazioni, dunque, la Suprema Corte provvedeva ad annullare la sentenza impugnata disponendo il rinvio degli atti per un nuovo esame al Tribunale di Palermo.
2. Il reato di resistenza a un pubblico ufficiale.
L’art. 337 del codice penale prevede che “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
Il bene-interesse tutelato da tale autonoma fattispecie incriminatrice è la libertà di azione dei pubblici poteri nella fase di esecuzione delle decisioni già adottate. Quest’ultimo si completa ed integra, nella fattispecie de qua, con il bene-interesse relativo alla necessità di garantire la sicurezza e la libertà di azione dei pubblici funzionari contro le altrui azioni violente.
Il delitto di resistenza a p.u. è reato comune (chiunque può, infatti, essere il soggetto attivo del delitto di resistenza) ed istantaneo(1) (che si consuma nel momento in cui viene realizzata la minaccia od esercitata la violenza).
Elementi essenziali della condotta delittuosa sono la violenza e la minaccia; la resistenza diviene rilevante esclusivamente allorquando l’azione del soggetto privato si estrinsechi in una qualsiasi azione intimidatoria o aggressiva, idonea a condizionare l’esatta volontà del pubblico ufficiale, intralciandone o precludendone l’opera.
Per integrare tale reato è, dunque, necessaria una condotta materiale attiva ossia un’azione di per sé idonea ad impedire, intralciare ed a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto d’ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Non è determinante, ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa, che l’atto di ufficio possa comunque essere eseguito dall’aggredito.
In relazione all’azione violenta ovvero alla minaccia, devesi evidenziare che esse, per integrare la fattispecie di reato in argomento, devono essere usate durante il compimento dell’atto di ufficio, per impedirlo; ove, invece, precedano il compimento dell’atto del pubblico ufficiale si versa nell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 336 c.p. (violenza o minaccia a pubblico ufficiale).
Tra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e quello di violenza o minaccia (art. 336 c.p.) ricorre un’unica altra fondamentale differenza, fra le molteplici analogie (di cui più avanti perché rilevanti per il presente approfondimento) che si sostanzia nel diverso finalismo dell’azione violenta o minacciosa; nel primo caso, ferma restando la libertà di determinazione del soggetto passivo, l’azione è diretta ad impedire il compimento dell’atto doveroso mentre nel secondo caso essa mira a coartare la volontà del pubblico ufficiale affinché compia un’azione od una omissione contrarie ai doveri del suo ufficio(2).
“Violenza” e “minaccia” sono elementi genericamente indicati nella legislazione penale come mezzi per commettere una pluralità di reati, talora come elementi costitutivi di essi (artt. 336, 337, 609 bis, 610, 628, 629 c.p.), talaltra come circostanza aggravante di autonome ipotesi di reato (artt. 341, 385, 393 c.p.).
In merito la dottrina e della giurisprudenza hanno recentemente avuto modo di affermare che, contrariamente ad ogni apparenza lessicale, trattasi di un binomio inscindibile di una vera e propria endiadi, poiché in effetti non fa riferimento a concetti ontologicamente distinti, e perciò scindibili, ma di due diverse manifestazioni di uno stesso fenomeno: la violenza intesa come elemento idoneo a coartare l’altrui volontà, elemento che può assumere la forma di violenza fisica o di violenza psichica (o morale che si sostanzia, dunque, nella minaccia).
La minaccia, di cui parla l’articolo 337 c.p., può essere costituita da qualsiasi mezzo idoneo ad opporsi all’atto di ufficio (o di servizio) che si sta compiendo ed è integrata anche nel caso che si manifesti in modo indiretto (cioè all’indirizzo di soggetto diverso dal P.U. o i.p.s.) purché la pubblica funzione ne risulti impedita o soltanto ostacolata.
In sostanza, ciò che conta è che la minaccia e la violenza siano idonee a turbare l’esercizio della funzione pubblica.
La stessa Corte di Cassazione(3), a suo tempo, fece sua la tesi secondo la quale “…la violenza e la minaccia dell’agente è idonea ad integrare l’elemento materiale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale sia che si estrinsechi sulla cosa, sia che si estrinsechi nei confronti di persona diversa dal pubblico ufficiale, sia che si estrinsechi sulla persona dell’agente medesimo come mezzo diretto a coartare la volontà del pubblico ufficiale…” (es. la minaccia di suicidio).
In epoca più recente il giudice di legittimità si è nuovamente pronunciato a riguardo(4) affermando che “…per la configurabilità dell’elemento oggettivo del reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p. - n.d.a.) è necessario che la condotta costituisca un impedimento concreto per l’esercizio del pubblico ufficio, con sviamento delle finalità previste normativamente, ovvero di turbamento del buon andamento, frustando in particolare la continuità dell’attività della pubblica amministrazione…”. Alla luce di tale tesi, il cui elemento portante è l’offensività oggettiva della condotta criminosa, la violenza o la minaccia possono integrare detta condotta anche se esercitate su persona diversa dal pubblico ufficiale, potendo essere dirette anche su cose o sulla stessa persona dell’agente.
Da ultimo, devesi segnalare che il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, per il caso di violenza, assorbe soltanto quel minimo che si concreta nelle percosse e non già quegli atti che, esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali. Proprio in questa ultima ipotesi l’ulteriore delitto di lesione, stante il suo carattere autonomo, è in grado di concorrere con quello di resistenza.
Soggetto passivo del reato in argomento deve essere, come anticipato, necessariamente un pubblico ufficiale oppure un incaricato di pubblico servizio. A questi si possono aggiungere, come soggetti passivi, tutti coloro i quali, eventualmente, prestino assistenza al pubblico ufficiale od i.p.s.(5).
3. Il dolo - cenni.
Per dolo si intende la consapevolezza e la volontà di commettere un reato. Il dolo è elemento soggettivo ed essenziale del reato: soggettivo giacché riguarda uno stato psicologico ed essenziale in quanto è necessario al fine di qualificare correttamente ciascuna ipotesi di reato.
Nel reato di resistenza a p.u. l’elemento psicologico richiesto per integrare la fattispecie penale è il dolo c.d. “specifico” che si sostanzia in una finalità ulteriore che accompagna tutti gli elementi del fatto tipico, che devono sussistere affinché si integri la fattispecie di reato, ma che non è necessario che si realizzi per aversi il reato.
Nel caso di specie è richiesto il dolo specifico poiché il soggetto attivo del reato si prefigge lo scopo di impedire che l’agente pubblico esegua l’atto del proprio ufficio o servizio (art. 337 c.p. “…opporsi…, …mentre compie un atto di ufficio o di servizio…”). Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale l’elemento psicologico consiste, infatti, nella coscienza e volontà di precludere al pubblico ufficiale, attraverso una condotta minacciosa e violenta, l’atto d’ufficio ritenuto pregiudizievole per i propri interessi.
In sostanza, in tale fattispecie delittuosa il dolo specifico si concretizza nel fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, di talché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione.
E proprio per il fatto che nei reati a dolo specifico l’oggetto del dolo risulta ben più ampio di quello nei reati a dolo generico, si determina che esso ricomprende sia il fatto concreto, corrispondente a quello descritto dalla norma incriminatrice, sia l’evento, che l’agente deve perseguire come scopo ma la cui realizzazione è, come detto, irrilevante per la consumazione del reato.
4. Aggravanti, scriminanti, concorso tra reati.
L’art. 339 c.p. prevede al comma 2, per il delitto in esame, talune circostanze aggravanti(6) che si applicano quando la violenza o la minaccia sono commesse:
- da più di cinque persone riunite e mediante uso di armi, anche solo da parte di una di esse;
- da più di dieci persone riunite, in tal caso anche senza uso di armi(7).
L’art. 4 del decreto Legislativo Luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 dispone, per contro, che non si applicano le disposizioni di cui agli artt. 337 e 339, comma 2, c.p. quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato(8) abbia dato causa al reato preveduto nell’articolo 337 c.p. eccedendo con atti arbitrari i limiti delle proprie attribuzioni.
La scriminante di che trattasi, già presente nel codice Zanardelli del 1889, non era stata prevista nel successivo codice penale Rocco con l’evidente intento, superiore e più importante per il legislatore fascista, di tutelare in ogni caso l’autorità pubblica. Successivamente, con il ripristino della legalità democratica, l’istituto della reazione legittima ad atti arbitrari di un pubblico ufficiale fu reinserito nuovamente con la precisa finalità di garantire la libertà dei privati contro gli eccessi dei pubblici funzionari(9). Il legislatore, pertanto, ha ritenuto, con il citato decreto legislativo luogotenenziale, iniqua la punizione di tutte quelle condotte che costituiscono una naturale reazione psicologica ad atti arbitrari, caratterizzati da vessazione, sopruso, prevaricazione e prepotenza, posti in essere da coloro i quali, invece, dovrebbero tutelare la legalità più di ogni altra persona.
Tale causa di non punibilità presuppone, dunque, secondo la giurisprudenza maggioritaria, non soltanto l’oggettiva illegittimità dell’atto (viziato da incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), ma quel quid pluris, identificabile nell’atteggiamento del pubblico ufficiale che compie l’atto, caratterizzato da capriccio, malanimo, dispetto, sopruso, ostilità, derisione, prepotenza.
In ultima sintesi, la scriminante prevista dall’articolo 4 del D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944 n. 288 ricorre quando il fatto delittuoso sia causato da un comportamento arbitrario del p.u. che ecceda i limiti e le finalità del potere attribuitogli nel pubblico interesse.
In tema di concorso di reati si segnala, come anticipato in precedenza, che risponde congiuntamente del reato di lesioni personali e di quello di resistenza a p.u. colui il quale percuota con pugni e calci un rappresentante delle Forze dell’Ordine, per opporsi al fatto che questi eserciti le di lui funzioni. Ciò in quanto il reato di resistenza contempla la punibilità della condotta violenta atta ad impedire l’esercizio di potestà pubbliche; l’esito della condotta medesima, laddove comporta l’insorgere di lesioni in danno del soggetto passivo del reato, integra la relativa fattispecie delittuosa (es. reato di lesioni personali - art. 582 c.p.).
In tema di concorso con altri reati si può aggiungere che, anche il reato di evasione aggravata e quello di resistenza a pubblico ufficiale, possono risultare compatibili tra di loro, nonostante anche in questo caso siano diversi i beni giuridici tutelati dalle norme che li prevedono. Ben può, a parere di chi scrive, ipotizzarsi un concorso materiale(10) tra questi due delitti, giacché la violenza o minaccia indirizzata verso il pubblico ufficiale è caratterizzata dalla qualità del soggetto passivo contro cui è rivolta l’azione violenta o intimidatrice e dalla finalità di tutela della pubblica amministrazione. Al contrario, invece, il reato di evasione, anche nell’ipotesi del tentativo, non può assorbire come aggravante quello di resistenza a pubblico ufficiale, che tutela un differente bene giuridico.
In riferimento ai rapporti con gli altri reati, è ammissibile, inoltre, il concorso tra i reati di rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale. Può, inoltre. sussistere l’ipotesi di concorso formale(11) fra il reato di resistenza a pubblico ufficiale e quello di tentato omicidio.
5. Conclusioni.
L’affinità ontologica fra i reati di violenza a p.u. e resistenza a p.u., da tempo colta dalla giurisprudenza di legittimità che ha ravvisato la distinzione fra i predetti(12) nel fatto che “…nel primo delitto la violenza o la minaccia precedono l’inizio dell’atto del pubblico ufficiale e sono compiute con lo scopo di opporsi ad esso, nel secondo l’agente tende ad attuare lo stesso fine allorché l’atto sia già iniziato…”, si concretizza nell’identità del dinamismo psichico dell’agente nonché nella omogeneità dei fini che egli intende perseguire con la sua condotta (sia nel reato di resistenza che nel reato di violenza a p.u. - n.d.a.) ed è elemento da cui muovere per trarre le conclusioni del presente approfondimento.
Già in diverse occasioni, infatti, la Corte di Cassazione con diverse pronunzie(13) è intervenuta affermando, con sostanziale identità di accenti, che “…ad integrare il reato di cui all’art. 336 c.p. non è necessaria una minaccia diretta e personale, essendo sufficiente l’uso di una qualsiasi coazione, anche morale, od anche una minaccia indiretta, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del soggetto passivo…”, compiendo successivamente(14) un ulteriore passo nell’affermare che “…nella previsione dell’art. 336 c.p. la minaccia non necessariamente deve essere diretta potendo essere anche solo indiretta…”.
In virtù del precitato accostamento tra le due fattispecie di reato, la giurisprudenza ha ritenuto anche il reato di resistenza a p.u. configurabile allorché la violenza, anche sotto forma di intimidazione psichica, o la minaccia siano poste in essere contro soggetti diversi dal pubblico ufficiale, nel caso di specie nei confronti di soggetti diversi dai carabinieri che si erano posti all’inseguimento del reo dopo che questi non aveva rispettato l’alt intimatogli. Prosegue ancora la giurisprudenza(15) argomentando circa l’offensività oggettiva della condotta criminosa, che la violenza o la minaccia possono integrare detta condotta anche laddove siano “…dirette anche su cose o sulla stessa persona dell’agente…”
Ad avviso della Suprema Corte il requisito fondamentale che viene in considerazione è quello della “idoneità” della violenza o della minaccia che, in relazione alla ratio ed alla struttura della disposizione, si qualifica in funzione di “…una potenzialità intimidatoria della prospettazione…”; dunque, l’idoneità ad intimidire ed a costringere, deve essere verificata in relazione alla singola fattispecie, non essendo il problema suscettibile di essere risolto in un modo generale ed astratto.
Inoltre, secondo costante giurisprudenza del giudice di legittimità, non occorre che la violenza o minaccia abbiano realizzato l’effetto voluto di impedire al p.u. di portare a termine il compimento dell’atto d’ufficio o di ottenerne un atto contrario ai doveri di ufficio ovvero la omissione di un atto doveroso, ma è sufficiente che abbiano turbato la di lui attività.
Esaminare i fatti nel concreto vuol dire fare riferimento all’individuo medio della categoria sociale cui il soggetto offeso appartiene. L’indagine in concreto dovrà necessariamente svolgersi nell’ambito delle seguenti coordinate: coefficiente di gravità del male prospettato, apparenza di serietà ed eseguibilità della forma, del tempo, del luogo e delle modalità dell’azione, personalità del soggetto attivo e suoi eventuali precedenti penali, condizioni psicologiche del soggetto passivo.
La verifica suddetta della idoneità della violenza o minaccia, una volta che possa dirsi risolta in senso positivo l’indagine sulla serietà della minaccia almeno in ordine all’importanza del bene minacciato (vita o quantomeno incolumità) ed alla probabilità di esecuzione del fatto dannoso prospettato, trova il suo fulcro nella personalità del soggetto passivo (lo stato quale garante del corretto funzionamento della pubblica funzione e, in secondo luogo il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), cioè nella sua capacità (il riferimento riguarda ovviamente i soggetti passivi umani) di percepire la minaccia e di valutarne l’entità (idoneità a coartare fisicamente/moralmente il p.u. e a condizionarne la libertà di agire nell’adempimento dei fini istituzionali)(16).
Relativamente al caso di specie, se è vero che, in astratto, la fuga può non trascendere i limiti del comportamento passivo e, quindi, non integrare il delitto di resistenza, è vero anche che sicuramente lo integra laddove la stessa si estrinsechi con modalità tali da significare in concreto un pericolo per la pubblica incolumità (il percorrere ad alta velocità le strette vie di un centro storico, frequentate da molta gente) che palesa il chiaro proposito d’interdire od ostacolare al pubblico ufficiale il compimento del proprio ufficio (in quanto chiamato ad operare al fine di far cessare la situazione di pericolo imminente).
In conclusione attraverso la sentenza in commento la Suprema Corte, con un intervento che a parere di chi scrive appare equilibrato e rispettoso dei principi costituzionali fondamentali, ha cristallizzato il principio secondo il quale la materialità del delitto di resistenza viene integrata anche dalla violenza c.d. impropria, la quale, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, si riverbera negativamente nell’esplicazione della funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola; solo la resistenza passiva, in quanto negazione di qualunque forma di violenza o minaccia, rimane al di fuori della fattispecie incriminatrice.
Cap. CC Luigi Aquino
Approfondimenti
(1) - Si ha reato istantaneo quando la condotta con la quale si viola la norma (e quindi si produce l’offesa al bene o valore tutelato dalla norma penale incriminatrice) si compie in un solo momento, in una sola frazione di tempo, come accade ad esempio per il reato contravenzionale di spari in luogo pubblico.
(2) - Cass., Sez. VI, 18 dicembre 2003, n. 48541.
(3) - Cass., Sez. IV, 30 aprile 1979, in Cass. Pen. 1981, pag. 223; nel caso di specie il reato è stato ritenuto sussistente nel comportamento di un imputato che aveva minacciato di tagliarsi i polsi e di procurarsi gravi lesioni ove non fosse stato lasciato libero.
(4) - Cass., Sez. VI, 31 agosto 1994, in Mass. Uff. CED 1995, 199524.
(5) - Sotto il profilo della qualifica soggettiva è indispensabile fare riferimento alle figure delineate negli articoli 357 e 358 c.p., così come modificati dalla legge 26 aprile 1990, n. 86.
(6) - In presenza delle quali la competenza per il reato de quo si trasferisce al Tribunale collegiale in base all’articolo 33 bis c.p.p. ed il fermo di polizia, ex art. 384 c.p.p., è consentito.
(7) - Cass., Sez. IV, 15 giugno 1989/11 novembre 1989, n. 15546; ai fini della sussistenza della circostanza aggravante della violenza o minaccia commessa da più di dieci persone non rileva che alcune di esse siano rimaste non identificate.
(8) - L’autore dell’eccesso contro il quale si reagisce deve essere identificato, come detto, in relazione alle figure delineate nei cit. artt. 357 e 358 c.p., così come modificati dalla legge 26 aprile 1990, n. 86.
(9) - V. Cass., Sez. VI, 21 giugno-27 ottobre 2006, n. 36009; “…l’atteggiamento sconveniente e prepotente non può essere consentito al pubblico ufficiale e in esso deve essere individuato il consapevole travalicamento dei limiti e delle modalità entro cui le funzioni pubbliche devono essere esercitate, con l’effetto che la reazione immediata del privato a tale atteggiamento rende inapplicabile la norma incriminatrice di cui all’articolo 337 c.p. ciò ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. n. 288/44…”.
(10) - Il concorso materiale, o reale, si ha nel caso in cui l’agente ha commesso più reati con più azioni od omissioni e può essere omogeneo se è stata violata più volte la stessa norma penale oppure eterogeneo se sono state violate norme diverse. Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, è previsto il cumulo materiale delle pene temperato, così come risulta dagli artt. 71 e ss. c.p.
(11) - Il concorso formale, o ideale, si ha quando il soggetto agente ha posto in essere più reati con una sola azione od omissione. Con la riforma del D.L. n. 99 del 1974, per il caso di concorso formale si è passati dal cumulo materiale delle pene a quello giuridico consistente, secondo l’art. 81 c.p., comma 1, nell’aumento sino al triplo per la violazione più grave.
(12) - Cass., Sez. VI, 13 dicembre 1975, n. 131500.
(13) - Cass., Sez. VI, 25 gennaio 1979, n. 140908; Cass., Sez. I, 20 gennaio 1987, n. 174850.
(14) - Cass., Sez. I, 9 maggio 1987, n. 175921; minaccia di suicidio dell’agente al fine di contrastare la libertà di azione del pubblico ufficiale.
(15) - Cass., Sez. VI, 31 agosto 1994, cit.
(16) - La soluzione del problema postula l’accertamento dell’attitudine della prospettazione di un male diretto alla persona a determinare un certo comportamento del p.u. o, quantomeno, ad influire sullo stesso, ingenerando una condizione di disagio.
http://www.carabinieri.it/editoria/rassegna-dell-arma/anno-2008/n-2---aprile-giugno/legislazione-e-giurisprudenza/corte-di-cassazione