Non ricorribile in Cassazione sent. Consiglio di Stato per error in iudicando
[color=red][b]CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI – sentenza 9 febbraio 2015 n. 2361[/b][/color]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nel luglio 2011, all’esito dell’espletata procedura di gara, il comune di Lissone aggiudicò alla Serist – Servizi Ristorazione srl, il servizio di ristorazione scolastica per gli anni 2011-2012 e 2012-2013; la Sodexo Italia spa, che aveva vanamente partecipato alla gara, lamentando la mancata apertura in seduta pubblica delle buste contenenti l’offerta tecnica ed essendo stata rigettata dall’Ente locale la richiesta di annullamento in via di autotutela, propose ricorso al TAR Lombardia – Milano, onde ottenere l’annullamento degli atti di gara e la loro riedizione, ovvero, subordinatamente, il risarcimento del danno per equivalente in riferimento alla mancata aggiudicazione.
Il Giudice adito, pur avendo ritenuto la fondatezza della censura relativa alla violazione del principio di pubblicità, stante l’avvenuta apertura delle buste in seduta riservata, dichiarò improcedibile il ricorso.
Avverso la suddetta decisione, la Sodexo Italia spa propose appello innanzi al Consiglio di Stato; il Comune di Lissone, resistendo al gravame, propose a sua volta appello incidentale avverso il capo della sentenza che aveva ritenuto fondato il motivo di ricorso, deducendo la violazione del principio espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 13/2011, stante l’avvenuta entrata in vigore dell’art. 12 di n. 52/12 (convertito con modificazioni in legge n. 94/12).
Il Consiglio di Stato – Sezione quinta, con sentenza dell’11.1- 7.6.2013, rigettò l’appello incidentale e, accogliendo in parte il principale, ritenne l’inefficacia dell’aggiudicazione, ma non del contratto, stante il suo avanzato stato di esecuzione, e condannò il Comune di Lissone al risarcimento del danno.
Per ciò che qui specificamente rileva, ossia in ordine al rigetto dell’appello incidentale, il Consiglio di Stato, premesso che la decisione era stata adottata nella camera di consiglio dell’11.1.2013 e, quindi, nel quadro normativo e giurisprudenziale esistente a tale data, richiamò la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 13/2011, in base la quale la regola, già affermata da alcune sentenze amministrative, secondo cui la verifica della integrità dei plichi non esaurisce la sua funzione nella constatazione che gli stessi non hanno subito manomissioni o alterazioni, ma è destinata a garantire che il materiale documentario trovi correttamente ingresso nella procedura di gara, giacché la pubblicità delle sedute risponde all’esigenza di tutela non solo della parità di trattamento dei concorrenti, ai quali deve essere permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere così la garanzia che non siano successivamente intervenute indebite alterazioni, ma anche dell’interesse pubblico alla trasparenza ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono diffìcilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato, costituiva corretta interpretazione dei principi comunitari e dì diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti e, come tale, meritava di essere confermata e ribadita con specifico riferimento all’apertura della busta dell’offerta tecnica; osservò inoltre:
- che il suddetto principio doveva trovare applicazione anche per le gare che, alla data di pubblicazione della suddetta decisione dell’Adunanza Plenaria, avevano già superato, come nel caso di specie, la fase relativa all’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica;
- che la modifica che aveva interessato l’art. 283, comma 2, del regolamento n. 207/10 aveva avuto il solo effetto di cristallizzare nell’ordinamento preesistente pacifici principi di derivazione costituzionale e comunitaria, senza introdurre soluzione di continuità alcuna fra procedure già svolte ed ancora da svolgersi al momento dell’entrata in vigore del di n. 52/12;
- che l’introduzione della regola, in sede di conversione del predetto decreto, secondo cui la commissione, anche per la gare ancora in corso, ove i plichi contenenti le offerte tecniche non fossero stati ancora aperti alla data del 9 maggio 2012, doveva aprire in seduta pubblica i plichi contenenti le offerte tecniche al fine di procedere alla verifica della presenza dei documenti prodotti, stabiliva una chiara regola d’azione comunque desumibile dai principi legislativi e oggetto dell’interpretazione proposta nella surricordata decisione dell’Adunanza Plenaria. Avverso l’anzidetta sentenza del Consiglio di Stato, il Comune di Lissone ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi e illustrato con memoria.
L’intimata Sodexo Italia spa ha resistito con controricorso. La Serist – Servizi Ristorazione srl non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente, denunciando eccesso assoluto di potere giurisdizionale e violazione dei limiti esterni della giurisdizione, [color=red]deduce che la sentenza impugnata, ritenendo di poter declinare il principio comunitario di pubblicità e trasparenza sebbene tale compito spetti agli Stati membri e, quindi, al legislatore, come riconosciuto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2013, e reputando la sussistenza dell’obbligo della seduta pubblica per l’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica anche nel caso in cui i plichi fossero stati aperti prima del 9.5.2012, aveva creato una norma di diritto non esistente nell’ordinamento e, anzi, espressamente esclusa dal legislatore.[/color]
Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando eccesso assoluto di potere giurisdizionale, violazione dei limiti esterni della giurisdizione e diniego di tutela giurisdizionale, deduce che la sentenza impugnata, aggiungendo una regola di diritto espressamente esclusa dal legislatore e rifiutandosi di applicare quella vigente, così come scritta, aveva omesso di erogare ad esso ricorrente una tutela effettiva, in relazione alla posizione espressa nell’appello incidentale. Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando sotto diversi profili eccesso assoluto di potere giurisdizionale, violazione dei limiti esterni della giurisdizione e diniego di tutela giurisdizionale, deduce che il Consiglio di Stato, qualora avesse ritenuto l’esistenza di un contrasto tra il tenore del regime transitorio di cui all’art. 12 di n. 52/12, convertito in legge n. 94/12, e i principi di derivazione comunitaria ovvero costituzionale, avrebbe dovuto deferire la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ovvero alla Corte Costituzionale, piuttosto che creare una norma giuridica la cui esistenza il legislatore aveva espressamente escluso, arrogandosi con ciò compiti propri dei suddetti organi giurisdizionali. Con il quarto motivo il ricorrente, denunciando sotto diverso profilo eccesso assoluto di potere giurisdizionale, violazione dei limiti esterni della giurisdizione e diniego di tutela giurisdizionale, deduce che il Consiglio di Stato, ove avesse ritenuto di non condividere il principio enunciato dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8/2013, avrebbe dovuto rimettere a quest’ultima la decisione sul ricorso ai sensi dell’art. 99, comma 3, dl.vo n. 104/10, comportando, il non averlo fatto, l’invasione delle attribuzioni proprie appunto dell’Adunanza Plenaria e, indirettamente, l’omissione della garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale.
2. I primi due motivi, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è configurabile solo qualora il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, cosicché tale ipotesi non ricorre quando il Consiglio di Stato si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa abbia desunto non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico disvela, tale operazione ermeneutica potendo dare luogo, tutt’al più, ad un error in iudicando, ma non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (cfr, ex plurimis, Cass, SU, 20698/2013; 11347/2013; 22784/2012; 2068/2011; 24175/2004).
Parimenti è stato riconosciuto che un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo, rientrante fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 362 cpc, è ravvisabile ove il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda, che non possa essere pertanto da lui conosciuta, dovendo conseguentemente essere esclusa l’ammissibilità della doglianza laddove il preteso diniego di tutela risulti intervenuto non già in ragione di un ravvisato ostacolo alla conoscibilità della domanda, ma per effetto di interpretazione di norme invocate a sostegno della pretesa (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 11075/2012; 5942/2012; 22849/2013; 3037/2013).
[color=red]Nel caso di specie, la regola di diritto applicata nella sentenza impugnata è stata ricavata per effetto dell’interpretazione, svolta nei termini già diffusamente esposti nello storico di lite, dei principi comunitari e di diritto interno in materia di trasparenza e di pubblicità nelle gare per i pubblici appalti, il che può, almeno astrattamente, configurare un error in iudicando, ma non si traduce, in forza dei surricordati orientamenti ermeneutici di questa Corte, né in un eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, né in un rifiuto di tutela giurisdizionale.[/color]
Ne discende l’inaccoglibilità dei motivi all’esame.
3. Quanto al terzo motivo deve confermarsi il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, [color=red][b]essendo le decisioni del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale soggette al controllo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione soltanto per motivi attinenti alla giurisdizione, ossia all’individuazione del giudice munito del potere di decidere la controversia ovvero alla verifica dell’osservanza dei limiti esterni delle attribuzioni di detto giudice, con esclusione di ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale, esula dal potere di controllo della Cassazione ogni questione con la quale si addebiti al giudice amministrativo di avere – al fine limitato e specifico di decidere una determinata controversia – assegnato ad una norma di legge una portata precettiva che avrebbe potuto assumere solo a seguito dell’intervento interpretativo della Corte di Giustizia della Comunità Europea, ovvero di quello demolitore della Corte Costituzionale, non operando tali organi giurisdizionali come giudici del caso concreto, cosicché deve escludersi il configurarsi di una questione attinente allo sconfinamento dalla giurisdizione del giudice amministrativo, e venendo per contro in tali ipotesi denunciato un errore nell’applicazione delle norme sostanziali delle quali era stato chiesto la concreta attuazione allo stesso al giudice amministrativo (cfr, ex plurimis, Cass., SU, 16886/2013; 26228/2005; 8882/2005; 7410/1996).[/b][/color]
Ne discende quindi l’inaccoglibilità del mezzo.
4. In base a considerazioni sostanzialmente analoghe va altresì esclusa la fondatezza del quarto motivo, potendo il vizio denunciato configurare, astrattamente, soltanto un error in procedendo.
5. In definitiva il ricorso va quindi rigettato.
Le spese a favore della controricorrente, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Non è luogo a pronunciare al riguardo quanto alla parte rimasta intimata.
Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, dprn. 115/02.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese in favore della controricorrente, che liquida in euro 4.200,00 (quattromiladuecento), di cui euro 200,00 (duecento) per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge; nulla sulle spese quanto alla parte rimasta intimata.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-ib/s, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 27 gennaio 2015.
Depositata in Cancelleria in data 9 febbraio 2015.
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