TAR LAZIO - sentenza 3/10/2014 contro la liberalizzazione dei PE in centro
*************
[color=red]T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, Sent., 03-10-2014, n. 10176[/color]
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 323 del 2010, proposto da:
S.P., rappresentata e difesa dall'avv. Carlo Abbate, con domicilio eletto presso Carlo Abbate in Roma, via della Maratona, 56;
contro
Roma Capitale, rappresentata e difesa per legge dall'avv. Rosalda Rocchi, domiciliata in Roma, via Tempio di Giove, 21;
per l'annullamento del provvedimento recante rigetto della richiesta di autorizzazione amministrativa per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande nel locale di via del governo vecchio nn. 54/55 - angolo via di parione n. 27, roma.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 luglio 2014 il cons. Giuseppe Rotondo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con il ricorso in esame, la ricorrente impugna il provvedimento, prot. 87027 del 17/11/2009, con il quale il Municipio Roma Capitale le ha denegato il rilascio di nuova autorizzazione per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, ex art. 10, c. 1 della L.R. Lazio n. 21 del 29 novembre 2006, per i locali siti in via del Governo Vecchio 54-55, angolo via di Parione 27.
Il diniego è stato opposto per la seguente motivazione: "nel locale suddetto è in essere attività di vendita di prodotti alimentari tutelata ex art. 6, c. 1, lett. a/b della delibera del C.C. n. 36/2006. A tale proposito si fa presente che ai sensi dell'art. 6, c. 2 della suddetta delibera, qualora venga a cessare una delle attività tutelate, negli stessi locali è consentita l'attivazione esclusivamente di attività tutelate appartenenti al medesimo settore".
La motivazione del diniego prosegue così: "Si rappresenta, inoltre, quanto già espresso in merito all'applicazione dell'ordinanza sindacale n. 6/2007 del Dip. VIII del 22/3/2007 e dell'art. 25, c. 6 della L.R. n. 21 del 2006 che stabiliscono: "fino alla determinazione dei criteri dei Comuni di cui all'art. 5 non possono essere autorizzati nuovi esercizi di somministrazione, ad eccezione dei casi di sub ingresso e di trasferimento di sede ....".
La ricorrente espone in fatto di avere presentato in data 1 ottobre 2009, prot. 72968, istanza di rilascio dell'autorizzazione amministrativa per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande nel locale di che trattasi, da localizzarsi nella porzione del locale di circa 50 mq da tempo immemorabile adibito alla vendita di generi appartenenti al settore non alimentare.
Essa censura l'opposto diniego per i seguenti motivi-vizi:
1)violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della L.R. n. 21 del 2006 in relazione all'art. 25 della stessa legge - violazione degli artt. 41, 117 e 118 della Costituzione - eccesso di potere:
1.1)nonostante gli indirizzi regionali siano stati emanati in data 25 settembre 2007, Roma Capitale non ha ancora emanato "i criteri per lo sviluppo degli esercizi di somministrazione";
1.2)con l'ordinanza sindacale n. 6/2007 si è preteso di reiterare sine die il precedente divieto generalizzato (già dichiarato illegittimo);
2)violazione dell'art. 3 del D.L. n. 223 del 2006, conv. in L. n. 248 del 2006 - violazione degli artt. 41, 117 e 118 della Costituzione:
2.1)il provvedimento è illegittimo per insanabile contrasto con la norma di tutela della concorrenza e liberalizzazione del mercato;
3)violazione della L. n. 248 del 2006 e della L.R. n. 21 del 2006 sotto diverso profilo - eccesso di potere:
3.1)nell'impugnato provvedimento non vi è alcun puntuale riferimento all'inserimento del locale in questione in un contesto urbano di particolare pregio;
4)violazione della delibera consiliare n. 36 del 200, come modificata con Delibera. n. 86 del 2009 - eccesso di potere:
4.1)l'intimata Amministrazione afferma che il suddetto locale risulterebbe tutelato ai sensi dell'art. 6, c. 1, lett. A) della Delibera. di C.C. n. 36 del 2006; sennonché, la ricorrente intende attivare l'esercizio di somministrazione esattamente nella porzione di locale "non tutelato" ove da sempre è in essere la "non tutelata" attività di vendita di generi appartenenti al settore non alimentare.
Si è costituita in giudizio Roma Capitale depositando documenti e memoria difensiva con la quale chiede il rigetto del ricorso.
Con ordinanza collegiale n. 662/2010 è stata respinta l'istanza incidentale di sospensione del provvedimento impugnato.
All'udienza dell'8 luglio 2014, la causa è stata trattenuta per la decisione.
Il ricorso è infondato.
La ricorrente ha presentato istanza di autorizzazione alla somministrazione di alimenti e bevande nel locale sito in via del Governo Vecchio 54-55, angolo via di Parione 27, intendendo localizzare detta attività nella porzione del locale di circa 50 mq adibito, a suo dire da tempo immemorabile, alla vendita di generi appartenenti al settore non alimentare.
L'intimata Amministrazione le ha denegato il rilascio dell'autorizzazione opponendo la disciplina relativa alla tutela ed alla riqualificazione delle attività commerciali ed artigianali nel perimetro della Città Storica.
La controversia in esame involge, dunque, la questione concernente il settore delle attività tutelate ai sensi dell'art. 6, c. 1, lett. a) e b) della deliberazione del C.C. di Roma Capitale n. 36/2006.
Giova premettere una breve illustrazione della disciplina che funge da presupposto della gravata determinazione.
La questione, invero, ha già formato oggetto di esame da parte della Sezione che, con sentenza n. 7685/2013, ha proceduto ad una compiuta ricostruzione della normativa comunale in materia.
Viene, innanzi tutto, in considerazione la deliberazione consiliare n. 187 del 29 settembre 2003; la quale, all'art. 6 dell'Allegato A, ha stabilito che:
- "sono attività tutelate quelle insediate presso i locali siti nei tessuti T1, T2, T3, T4, T5 ovunque localizzati e T6 localizzati all'interno del Municipio Roma I, nonché nelle aree interessate da Piani di riqualificazione del commercio e dell'artigianato (PRCA) e da Progetti di strada (PDS)", in cui si svolga una delle attività dalla stessa disposizione dettagliate (tra le quali, alla lett. a), la vendita di "alimentari in forma tradizionale - solo esercizi di vicinato");
- "qualora venga a cessare una delle attività tutelate, negli stessi locali è consentita l'attivazione esclusivamente di una o più delle medesime attività appartenente al medesimo settore alimentare o non alimentare";
- "tale vincolo decade nei seguenti casi:
- a) nei locali con destinazione commerciale che siano rimasti inutilizzati da almeno cinque anni in conseguenza dell'espulsione dell'esercente dell'attività tutelata;
- b) nei locali con destinazione commerciale in caso di cessazione, cessione o trasferimento volontari da parte dell'esercente dell'attività tutelata, a condizione che sussista la concomitanza della proprietà dell'azienda e dell'immobile ove l'azienda stessa è situata;
- c) nei locali in cui la o le suddette attività siano esercitate da meno di due anni continuativi, sempre che in precedenza non sia stata svolta un'altra attività tutelata per un periodo che, sommato a quello di attività del nuovo esercizio, non superi complessivamente i due anni".
Tale deliberato è stato successivamente modificato ad opera della deliberazione consiliare n. 36 del 6 febbraio 2006 (nel senso che la riportata lett. a) del comma 2 dell'art. 6 è stata "riscritta" sopprimendo la locuzione "in forma tradizionale (solo esercizi di vicinato)" ed aggiungendo "fino a mq. 250, in deroga al limite previsto per gli esercizi di vicinato dalla deliberazione del Consiglio Comunale n. 66 del 27 luglio 2001 e successive modificazioni").
La riportata disposizione ha, poi, formato oggetto di ulteriore intervento manipolativo per effetto della deliberazione di Consiglio Comunale n. 86 del 7-8 ottobre 2009, la quale (sempre con riferimento alla previsione di cui all'art. 6 sopra riportato) ha stabilito che:
- "Sono attività tutelate quelle insediate presso i locali siti nei tessuti T1, T2, T3, T4, T5, ovunque localizzati e T6 localizzati all'interno del Municipio Roma 1 in cui si svolga una delle seguenti attività:
- a) alimentari fino a mq. 150 nelle zone di rispetto di cui all'art. 11 e nei Rioni Pigna, Colonna, Campo Marzio e Santangelo e fino a mq. 250, in forme di esercizio di vicinato, con esclusione di vendita di gelati non confezionati, nel restante territorio della Città Storica, in deroga al limite previsto per gli esercizi di vicinato dalla deliberazione del Consiglio Comunale n. 66 del 27 luglio 2001 e successive modificazioni;
- omissis;
- Qualora venga a cessare una delle attività tutelate, negli stessi locali è consentita l'attivazione esclusivamente di uno o più delle medesime attività appartenente al medesimo settore alimentare o non alimentare.
- Tale vincolo decade nei seguenti casi:
- a) nei locali con destinazione commerciale che siano rimasti inutilizzati da almeno cinque anni;
- b) nei locali in cui la o le suddette attività siano esercitate da meno di due anni continuativi, sempre che in precedenza non sia stata svolta un'altra attività tutelata per un periodo che, sommato a quello di attività del nuovo esercizio, non superi complessivamente i due anni".
Non può omettere il Collegio di esaminare il fondamentale nucleo assertivo esposto dalla ricorrente, incentrato sull'affermata incompatibilità della illustrata normativa regolamentare comunale con la normazione primaria che, a far tempo dall'ultimo semestre del 2011, ha puntualizzato l'ambito applicativo del principio (di evidente promanazione costituzionale) della libertà dell'iniziativa economica e di esercizio dell'attività commerciale.
La Sezione, con sentenza 7 luglio 2009 n. 6571, ha avuto modo di rilevare, quanto alla delibera consiliare 6 febbraio 2006 n. 36, che tale normativa regolamentare (cor)rispondeva agli indirizzi della Regione Lazio stabiliti nella Delib. 6 novembre 2002, n. 131 del Consiglio Regionale, il cui art. 8 prevedeva che i Comuni potessero introdurre, nei centri storici, limitazioni all'insediamento di attività non tradizionali e/o qualitativamente rapportabili ai caratteri storici, architettonici e urbanistici dei centri medesimi; nonché "ai principi generali e di programmazione di cui alle delibere C.C. 29 settembre 2003 n. 187 e 27 marzo 2002 n. 41".
Tali disposizioni - viene condivisibilmente osservato nella sentenza ora in rassegna - "si pongono in una linea logica di salvaguardia dei centri storici, nelle connotazioni attive di tradizione, onde evitarne l'abbandono e il conseguente degrado e snaturamento. A monte vi sono le previsioni legislative di massima per la tutela dei centri storici del Lazio mediante localizzazioni di strutture di vendita tradizionali (L.R. Lazio n. 33 del 1999, art. 20), del centro di Roma in particolare (L.R. n. 22 del 2001) e, a livello statuale con richiamo alle competenze delle regioni, per la tutela dei centri storici attraverso la salvaguardia e la riqualificazione delle attività commerciali e artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato (artt. 6 e 10 del D.Lgs. n. 114 del 1998)".
Nell'osservare come "la delibera consiliare n. 36/2006 ... non consente un indiscriminato divieto di installazione di nuove strutture di vendita nei centri storici, ... ma è intesa alla preservazione delle attività di tradizione, artigianali e commerciali, ad esse riservando i locali ove dette attività sono state svolte per lungo tempo", la pronunzia di che trattasi si è data carico di valutare la compatibilità delle relative disposizioni con le previsioni legislative introdotte dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito, con modificazioni, in L. 4 agosto 2006, n. 248), recante - fra l'altro - norme per la liberalizzazione del commercio con esclusione della apponibilità di limitazioni quantitative e qualitative di vendita delle merci per gli esercizi autorizzati.
Se la normazione statale del 2006 non ha introdotto previsioni ostative alla tutela delle attività tradizionali nei centri storici (non potendo, conseguentemente, essere invocata per affermare l'illegittimità di disposizioni regolamentari che non escludono l'esercizio nei centri storici di attività diverse da quelle tradizionali, pur riservando a queste ultime i locali in cui erano svolte in precedenza), la Sezione ha poi ritenuto di puntualizzare che a tali fini non rivela valenza ostativa neppure "il principio costituzionale di libertà nell'iniziativa economica privata, la quale deve comunque essere coordinata e indirizzata alle utilità e alle finalità sociali, non potendo svolgersi in contrasto con esse".
Le riportate considerazioni - che meritano convinta conferma - hanno incontrato omogeneo riscontro anche da parte del Giudice d'appello.
[color=red]Con sentenza 10 maggio 2010 n. 2758, la Sezione V del Consiglio di Stato, sempre a proposito della consentita attivazione, nel caso di cessazione delle attività tutelate nelle zone localizzate nel Municipio Roma I - Centro Storico e per un arco temporale quinquennale, di una o più delle medesime attività appartenenti al medesimo settore alimentare o non alimentare, ha ritenuto che il deliberato consiliare n. 36/2006 sia indenne da mende quanto alla presenza "di una base normativa di legittimazione", nonché con riferimento al "contrasto con i principi, nazionali e comunitari, in materia di liberalizzazione degli esercizi commerciali"; e ciò in quanto:[/color]
- "nel perseguire la finalità istituzionale di salvaguardia dei caratteri tradizionali dei centri storici contrastando il rischio di degrado e snaturamento, il Comune ha esercitato una sua competenza che trova alimento nelle previsioni legislative regionali di massima per la tutela dei centri storici del Lazio mediante localizzazioni di strutture di vendita tradizionali (L.R. Lazio n. 33 del 1999, art. 20) e del centro di Roma in particolare (L.R. n. 22 del 2001); nonché, sul piano statale, nelle disposizioni che richiamano le competenze delle regioni per la tutela dei centri storici attraverso la salvaguardia e la riqualificazione delle attività commerciali e artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato (artt. 6 e 10 del D.Lgs. n. 114 del 1998)";
- "gli stessi principi costituzionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa economica e di tutela della concorrenza non escludono che esigenze di tutela di valori sociali di rango parimenti primario possano suggerire condizionamenti e temperamenti al dispiegarsi dei diritti individuali. Detti limiti sono vieppiù costituzionalmente compatibili, oltre che in ragione dei confini temporali che li perimetrano, anche in virtù della considerazione che al titolare dell'esercizio dell'attività cessata non è imposto un puntuale sbarramento merceologico in quanto gli è consentito di intraprendere da subito qualsiasi attività appartenente al medesimo genere, alimentare o non alimentare, di quella venuta meno";
ulteriormente soggiungendosi che "le misure in esame, senza imporre limitazioni quantitative e qualitative incompatibili con la disciplina nazionale, perseguono la concorrente finalità di tutelare il consumatore garantendo la permanenza, negli ambiti territoriali tutelatiti, di un'offerta variegata di beni e servizi che non sia depauperata di attività tradizionali altrimenti a rischio di estinzione".
Se il nucleo assertivo delle pronunzie precedentemente riportate consente, laddove vengano in gioco premianti e preminenti interessi pubblici (rappresentati dalla tutela della caratterizzazione dei centri storici e dalla connesse esigenza di salvaguardarne il tradizionale tessuto sociale ed economico), di validare la compatibilità di una disciplina di regolamentazione delle modalità autorizzative per gli esercizi commerciali con i principi di liberalizzata esercitabilità dell'attività imprenditoriale, omogenee considerazioni assistono l'introduzione del complesso di disposizioni dipanatosi dal D.L. n. 138 del 2011, fino al decreto "Cresci-Italia" 1/2012.
In tal senso, la Corte Costituzionale, investita della verifica di legittimità in ordine alla disposizione di cui all'art. 3, comma 3, del D.L. n. 138 del 2011 (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 148 del 2011), ha rilevato (sentenza 20 luglio 2012 n. 200) che "il Legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all'interno della cornice delineata dai principi costituzionali. Così, dopo l'affermazione di principio secondo cui in ambito economico "è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge", segue l'indicazione che il legislatore statale o regionale può e deve mantenere forme di regolazione dell'attività economica volte a garantire, tra l'altro - oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell'ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica - in particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana, a presidio dell'utilità sociale di ogni attività economica, come l'art. 41 Cost. richiede. La disposizione impugnata afferma il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore statale ha elencato all'art. 3, comma 1".
Con considerazione che si dimostra pienamente espandibile anche alle previsioni di cui ai decreti L. n. 201 del 2011 e 1/2012, il Giudice delle leggi ha osservato che "il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall'altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale".
L'esclusa presenza di profili di inconciliabilità della regolamentazione comunale all'esame rispetto al quadro normativo di rango primario evocato dalla parte ricorrente induce il Collegio ad escludere che le censure al riguardo dedotte evidenzino elementi di condivisibile fondatezza.
Va, al riguardo, preliminarmente osservato come le disposizioni di cui agli artt. 31 del D.L. n. 201 del 2011 e 1 del D.L. n. 1 del 2012 non abbiano immediata attitudine conformativa, atteso che:
- il comma 2 dell'art. 31 stabilisce che "Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012";
- il comma 4 dell'art. 1 del decreto 1/2012 ha previsto che "I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni si adeguano ai principi e alle regole di cui ai commi 1, 2 e 3 entro il 31 dicembre 2012, fermi restando i poteri sostituitivi dello Stato ai sensi dell'articolo 120 della Costituzione. A decorrere dall'anno 2013, il predetto adeguamento costituisce elemento di valutazione della virtuosità degli stessi enti ...".
Se, quindi, va esclusa -ratione temporis - la consistenza di una condotta inosservante da parte della resistente Amministrazione comunale quanto alla (eventuale) rimodulazione della disciplina regolamentare riguardante la materia all'esame, va - ancora una volta - ribadita la piena esercitabilità di un potere di regolamentazione, in ragione della tutela degli interessi precedentemente illustrati, delle caratteristiche e/o tipologie delle attività commerciali nell'ambito del Centro storico, anche a fronte della liberalizzata esercitabilità del commercio: dovendo escludersi, da ultimo, che riveli profili ostativi alla persistente vigenza della normazione comunale di che trattasi il principio costituzionale di libertà nell'iniziativa economica privata, la quale - come è noto - deve comunque essere coordinata e indirizzata al perseguimento delle utilità e finalità sociali, non potendo svolgersi in contrasto con esse (art. 41, commi 2 e 3, Cost.).
[color=red]Nel dare atto, alla stregua dei ribaditi principi in materia elaborati dagli orientamenti giurisprudenziali dei quali si è data contezza, della piena congruità e logicità delle indicazioni promananti dalla regolamentazione in proposito adottata dal Comune di Roma (ora: Roma Capitale), va ulteriormente escluso che la disciplina all'esame evidenzi ricadute distorsive in ragione della (pure sostenuta) sproporzione tra mezzi e finalità perseguite: piuttosto dovendosi confermare la corretta commisurazione delle prescrizioni riguardanti la delimitata esercitabilità delle attività commerciali a fronte della più volte ripetuta esigenza di salvaguardia delle attività "tradizionali" (già) insediate nel Centro Storico di Roma (e, con esse, del tessuto socio-economico di tale area urbana).[/color]
[color=red]Deve, pertanto, escludersi, sulla base delle argomentazioni precedentemente esposte, che la formulazione comunale riveli profili di confliggenza con la legislazione statale in tema di "liberalizzazione" (dello svolgimento) delle attività commerciali, in ragione del necessario contemperamento di tale principio con interessi di tutela che rivelano preminente attenzione, sì da indurre profili di recessività dello stesso.[/color]
Così ricostruito il quadro normativo e l'interpretazione che di esso è stato fornito dalla giurisprudenza, ne consegue l'infondatezza delle censure con le quali è stata dedotto il contrasto dell'atto impugnato con le norme sulla liberalizzazione delle attività economiche.
Senza considerare, in proposito, la (dirimente) circostanza in ordine alla mancata impugnazione, in parte qua, della Delibera. di C.C. n. 36 del 2006 che funge da presupposto del provvedimento gravato.
Passando all'esame degli altri motivi di ricorso, il Collegio osserva che l'impugnato provvedimento reca una duplice, autonoma motivazione.
Con la prima, si oppone il diniego a cagione dell'attività di vendita di prodotti alimentari tutelata ex art. 6, c. 1, lett. a/b della delibera del C.C. n. 36/2006.
Parte ricorrente sostiene che nel locale in questione già nel 1996 era esercitata attività di vendita oltre che nel settore alimentare per mq 50 (ex tabelle merceologiche I bis, I) anche in quello non alimentare per mq 51 (ex tabella merceologica XIV-drogheria non alimentare), "così come comprovato da ultimo con C.I.A. prot. 39217 del 2008". Essa afferma di voler attivare il proprio esercizio di somministrazione esattamente nella porzione di locale "non tutelata", ove cioè era da sempre in essere la "non tutelata" attività di vendita di generi appartenenti al settore non alimentare.
Le censure non hanno pregio.
Dalla versata documentazione si è potuto evincere che all'interno dei locali in questione è stata sempre esercitata attività prevalente di vendita di prodotti alimentari, risultando la vendita di prodotti non alimentari ristretta ad un ambito di superficie pari a mq 5 (cinque).
Tale circostanza si ricava, peraltro, anche dalle stesse comunicazioni di sub ingresso con le quali la ricorrente imputa la superficie complessiva dell'immobile per soli 5 mq al settore non alimentare, per il resto adibendola alla vendita di generi alimentari per mq 50 ed a laboratorio di gastronomia fredda per la differenza (quest'ultima rientrante pur sempre nel settore dei generi alimentari).
L'intenzione della ricorrente di localizzare la somministrazione nella porzione di locale adibito alla vendita di generi appartenenti al settore non alimentare (attività c.d. "non tutelata") non trova, pertanto, obiettivo riscontro negli atti.
L'attività prevalente, se non esclusiva, esercitata nei locali de quibus è stata, infatti, sempre quella della vendita di generi alimentari.
Orbene, se nel locale di che trattasi l'attività prevalentemente esercitata è stata quella (tutelata) appartenente al settore alimentare - che non risulta nemmeno mai cessata - la conclusione logica, prima ancora che giuridica, che se ne trae è che mancano i presupposti stessi per sottrarsi all'applicazione della divisata disciplina comunale.
[color=red]Ed invero, la vendita di prodotti alimentari è tutelata - ratione temporis - ai sensi dell'art. 6 della Delib. di C.C. n. 36 del 2006, modificato dalla Delib. C.C. n. 86 del 2009 (il cui contenuto prescrittivo è stato sopra riportato).[/color]
Recita la citata disposizione comunale che "Qualora venga a cessare una delle attività tutelate, negli stessi locali è consentita l'attivazione esclusivamente di uno o più delle medesime attività appartenente al medesimo settore alimentare o non alimentare ...".
Sennonché, l'attività di somministrazione che l'interessata vorrebbe avviare nella porzione di locale andrebbe a sostituire l'attività precedentemente esercitata e tutelata ai sensi della menzionata disciplina comunale, incorrendo nella violazione del regime di tutela apprestato dalla delibera consiliare n. 36 del 2006..
[color=red]Appare poco serio e credibile, infatti, che possa essere esercitata un'attività di somministrazione in soli 5 mq di superficie.[/color]
Il diniego opposto dall'Amministrazione s'appalesa, pertanto, legittimo in parte qua.
Esso altro non è che lo scontato e non altrimenti variabile esito della corretta applicazione al caso di specie della disciplina comunale in tema di attività tutelate.
Acclarata l'infondatezza delle censure dedotte avverso tale parte dell'impugnata determinazione e trattandosi di atto plurimotivato, la ricorrente non palesa interesse a contestare i residui motivi ostativi all'accoglimento della sua istanza in quanto, anche nell'eventualità di riconoscimento della fondatezza di tali censure, non risulterebbe intaccata la validità dell'ulteriore, autonoma causa giustificatrice che regge la legittimità del provvedimento.
Per quanto sopra argomentato, il ricorso è infondato nei sensi di cui sopra e va, perciò, respinto.
Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore di Roma Capitale che si liquidano in Euro 2.000,00 oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Maddalena Filippi, Presidente
Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore
Salvatore Gatto Costantino, Consigliere
[img width=300 height=200]http://dsaleggimialcontrario.altervista.org/wp-content/uploads/2014/05/lazio.jpg[/img]