ABUSI EDILIZI - legittimo ordine di demolizione anche dopo molti anni
[color=red]Consiglio di Stato, sentenza n. 4892 del 2 ottobre 2014[/color]
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N. 04892/2014REG.PROV.COLL.
N. 01123/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1123 del 2014, proposto dal signor Giovanni Cibei,
rappresentato e difeso dagli avv. Domenico Bonaiuti e Paolo Bonaiuti, con domicilio eletto presso
lo studio del primo, in Roma, via R. Grazioli Lante, n. 16;
contro
Il Comune di Città di Castello, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato - Sezione V - n. 4470/2013, resa tra le parti, concernente
l’ingiunzione di demolizione di opere edilizie abusive;
Visto il ricorso in revocazione con i relativi allegati;
Vista la memoria prodotta dalla parte ricorrente a sostegno delle proprie difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 giugno 2014 il Cons. Antonio Amicuzzi e udito per la
parte ricorrente l’avvocato Domenico Bonaiuti;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1.- Il Comune di Città di Castello, accertata la presenza, su un terreno comunale in prossimità della
Piazza Porta San Florido e sull’antistante terreno demaniale statale della sponda del Tevere, sottoposti a vincolo paesistico, di manufatti abusivi, ne ha disposto la demolizione da parte del
signor Giovanni Cibei con ordinanza n. 65 del 12 giugno 2001; successivamente, con nota prot.
20281 del 2 luglio 2001, ritenuto che l’occupazione dell’area suddetta fosse abusiva, ha imposto al
suddetto il pagamento della somma complessiva di £ 5.022.220, per canone maggiorato e sanzione
amministrativa, ai sensi degli artt. 17 e 32 del regolamento comunale per la concessione in uso di
spazi ed aree pubbliche.
Infine il Comune, accertata a seguito di un rilevamento topografico l’esatta estensione
dell’occupazione abusiva (per mq 84, anziché mq 48,90), con nota prot. 35985 del 22 novembre
2001 ha imposto al signor Cibei il pagamento della somma di £ 8.592.780.
2.- Per l’annullamento di detti provvedimenti il signor Cibei ha proposto ricorso al T.A.R. Umbria,
che è stato respinto con sentenza n. 227/2002, avverso la quale egli ha proposto ricorso in appello
presso il Consiglio di Stato, che lo ha respinto con sentenza della Sezione V n. 4470/2013.
3.- L’interessato ha quindi proposto il ricorso in esame per la revocazione della sentenza del
Consiglio di Stato, ritenendo sussistente l’ipotesi indicata dall’art. 395, n. 4, del c.p.c. e deducendo i
seguenti motivi:
a) Con la sentenza della Sezione è stata, tra l’altro, valutata infondata, al punto 4 della parte in
diritto, la censura con la quale l’appellante aveva dedotto che il decorso temporale tra la
realizzazione del manufatto abusivo ed il momento di adozione del provvedimento sanzionatorio
avrebbe dovuto trovare congrua valutazione in sede motivazionale, invocando un supplemento
istruttorio in sede d’appello, negli assunti: 1) che il lasso temporale che fa sorgere l’onere di una
motivazione rafforzata in capo all’amministrazione non è quello che intercorre tra il compimento
dell’abuso ed il provvedimento sanzionatorio, ma quello che intercorre tra la conoscenza da parte
dell’amministrazione dell’abuso ed il provvedimento sanzionatorio adottato; 2) che non vi era prova
che l’amministrazione fosse a conoscenza dell’abuso, come accertato nel sopralluogo del 2001,
prima di quella data, né era stato prodotto al riguardo un principio di prova che potesse essere
integrato attraverso un soccorso istruttorio dalla sezione.
Ha quindi dedotto l’appellante che, secondo la giurisprudenza formatasi in materia, nell’ipotesi in
cui, per essere trascorso un lungo lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio ed il
protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato, sussiste l’onere di una congrua motivazione, che, avuto riguardo alla
entità ed alla tipologia dell’abuso, indichi il pubblico interesse, diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a sacrificare l’interesse del privato.
Nel caso di specie la concessione era stata chiesta “a scopo sociale e ricreativo” per una comunità di
anziani, con atto registrato il 14 giugno 1995 era stato stipulato il disciplinare di concessione n. 116
e in data 19 giugno 1995 il Ministero dei Lavori Pubblici aveva dato in concessione l’appezzamento
con l’espressa previsione che qualsiasi opera vi fosse stata eseguita sarebbe stata devoluta, alla fine
della concessione, in proprietà all’Amministrazione senza diritto alcuno da parte del concessionario.
Ciò dimostrerebbe che, oltre all’interesse del privato, sussisteva anche un interesse pubblico di
segno contrario all’ordine di demolizione (come sarebbe comprovato dalla eccezione di
inammissibilità formulata in primo grado dal Comune di mancata notifica al Ministero dei Lavori
Pubblici).
Aggiunge l’appellante che, con riguardo alla affermazione contenuta nell’atto d’appello (a pagina 2
del ricorso), della risalenza a moltissimi anni fa della costruzione in laterizio realizzata, secondo il Comune, su territorio comunale (comprovata dalla attestazione comunale circa la stipulazione del
contratto di acquedotto dall’anno 1989, dalla certificazione dell’allacciamento alla fornitura di
energia elettrica risalente all’anno 1998, dal contratto di fornitura di gas risalente all’anno 1983 e da
certificazione di notorietà di avventori del circolo ricreativo circa l’eguaglianza dei luoghi dall’anno
1980), nella sentenza impugnata è stato affermato che “In mancanza di conoscenza dell’illecito da
parte dell’amministrazione non può consolidarsi in capo al privato alcun affidamento
giuridicamente apprezzabile” ….. “non vi è prova che l’amministrazione fosse a conoscenza
dell’abuso come accertato nel sopralluogo del 2001 prima di quella data. Né l’appellante offre un
principio di prova che possa essere integrato attraverso un soccorso istruttorio da parte
dell’odierno giudicante”.
Da quanto precede emergerebbe che, in base a quanto dedotto e documentato col ricorso, la
circostanza che il manufatto oggetto di demolizione fosse preesistente all’anno 1994 era nota non
solo agli avventori del circolo, ma anche al Comune (come da relazione del responsabile di settore
Andrea Rondoni del 7 maggio 2001, in cui è affermato che la struttura esisteva da circa 40 anni e
che era ad essa adiacente un manufatto a destinazione garage costruito da circa 30 anni con
autorizzazione di amministratori comunali e con la partecipazione del signor Ermanno Consigli).
Quindi, a fronte del diritto soggettivo di proprietà concretato dal Ministero nel citato disciplinare di
concessione, sussisterebbe l’interesse del Comune a demolire il manufatto in questione e ciò si
rifletterebbe sull’esigenza partecipativa del Ministero stesso al giudizio, al fine di tutelare il suo
interesse alla vicenda giudiziaria e ad assumere veste liti consortile, che, essendo mancata in prime
cure, si porrebbe quale violazione del diritto di difesa e del giusto processo (di cui, rispettivamente,
agli artt. 24 e 111 della Costituzione), tale da imporre il rinvio al primo giudice; inoltre dalla lettura
combinata dell’atto d’appello e della citata fonte documentale (prodotta in primo grado
dall’Amministrazione) emergerebbe che il principio di prova (peraltro oggetto di eccezione di
tardività da parte del Comune a pagina 5 della memoria difensiva in relazione a contratti in essere
negli anni ’80) sussisteva.
In conclusione non risulterebbe istruito l’accertamento relativo al secondo manufatto (cioè il
garage), che, in caso positivo, avrebbe dimostrato la conoscenza da parte del Comune, da almeno 30
anni, del manufatto in questione, “con conseguente corollario che la motivazione adottata dal
Decidente Collegio avrebbe condotto a diverso avviso anche alla luce del concorrente interesse
(rectius diritto) del Dicastero, nel mentre risulta disatteso, a priori, il principio di affidamento
proprio in ragione della reputata non utilità della prova richiesta e/o soccorribile d’ufficio”.
Peraltro l’appellante aveva evidenziato che il manufatto poteva beneficiare di sanatoria e la
circostanza sarebbe stata non contestata dal Comune ed ignorata dalla Sezione, con negazione
aprioristica del diritto a monte.
In conclusione il signor Cibei ha chiesto che in via rescindente sia ritenuta l’ammissibilità della
domanda e sia resa sentenza di revocazione della sentenza di cui trattasi, nonché che, in via
rescissoria, in riforma della sentenza de qua, siano accolte tutte le domande formulate con il ricorso
in appello.
4.- Con memoria depositata il 30 aprile 2014 il signor Cibei ha sostanzialmente ribadito tesi e
richieste ed ha evidenziato in particolare che con la sentenza impugnata del Consiglio di Stato
sarebbe stato omesso di considerare che egli non era l’autore delle opere oggetto del provvedimento
di demolizione, che il bene nel suo complesso era in essere nell’anno 1995, che esso era stato
oggetto di “negozio con il Ministero” e che emergeva l’obbligo di preservare al suo patrimonio la
struttura esistente; inoltre ha sostenuto che le opere abusive erano state poste in essere prima dell’anno 1994 e che la circostanza era nota alla cittadinanza ed ai suoi esponenti istituzionali.
Il ricorrente ha poi evidenziato che la Regione ha percepito i canoni di concessione non
limitatamente al periodo individuato dal T.A.R., ma fino all’attualità, con suo interesse alla
conservazione del bene, ed affermato che sia le spese di demolizione che quelle consequenziali alla
condanna non potrebbero ascriversi in danno del ricorrente.
5.- Alla pubblica udienza del 10 giugno 2014 il ricorso in revocazione è stato trattenuto in decisione
alla presenza dell’avvocato della parte ricorrente, come da verbale di causa agli atti del giudizio.
6.- Osserva la Sezione che con la sentenza di cui è stata chiesta la revocazione, al punto 4 del
diritto, è stata ritenuta infondata la censura con la quale l’appellante aveva dedotto che il decorso
temporale tra la realizzazione del manufatto abusivo ed il momento di adozione del provvedimento
sanzionatorio avrebbe dovuto trovare congrua valutazione in sede motivazionale, invocando un
supplemento istruttorio in sede d’appello.
6.1. La richiesta istruttoria è stata ritenuta inutile dalla Sezione perché sussiste un interesse pubbico
in re ipsa quando è emesso l’ordine di demolizione all’esito dell’accertamento dell’abuso.
Ha quindi ritenuto il Collegio che “Nella fattispecie l’appellante risulta detentore solo a partire dal
1994, pertanto, non può comunque invocare un affidamento per un periodo temporale antecedente,
mentre non vi è prova che l’amministrazione fosse a conoscenza dell’abuso come accertato nel
sopralluogo del 2001 prima di quella data. Né l’appellante offre un principio di prova che possa
essere integrato attraverso un soccorso istruttorio da parte dell’odierno giudicante”.
Sostanzialmente, ad avviso del Collegio, l’errore revocatorio che a detta del signor Cibei sarebbe
contenuto nella sentenza di cui trattasi consisterebbe innanzi tutto nell’essere basata la decisione sul
presupposto che l’amministrazione non fosse a conoscenza dell’abuso, accertato a seguito di
sopralluogo del 2011, prima di tale data, mentre in atti vi sarebbe stata la prova che (costituita dalla
attestazione comunale circa la stipulazione del contratto di acquedotto dall’anno 1989, dalla
certificazione dell’allacciamento alla fornitura di energia elettrica risalente all’anno 1998, dal
contratto di fornitura di gas risalente all’anno 1983 e da certificazione di notorietà di avventori del
circolo ricreativo circa l’eguaglianza dei luoghi dall’anno 1980) la circostanza che il manufatto
oggetto di demolizione esisteva sin dall’anno 1994 era nota, non solo agli avventori del circolo ivi
allocato, ma anche al Comune (come da relazione del responsabile di settore Andrea Rondoni del
7.5.2001 in cui è affermato che la struttura esisteva da circa 40 anni e che era ad essa adiacente un
manufatto a destinazione garage costruito da circa 30 anni con autorizzazione di amministratori
comunali e con la partecipazione del signor Ermanno Consigli).
6.2. Ritiene la Sezione che il ricorso in esame è inammissibile
La sentenza impugnata non è basata su alcun errore di fatto, dovendosi ritenere, ammesso in ipotesi
che le prove fornite dal signor Cibei fossero idonee a dimostrare la conoscenza da parte del
“Comune” dell’esistenza dei manufatti di cui trattasi, che correttamente con la sentenza di cui è
chiesta la revocazione è stato affermato che “non vi è prova che l’amministrazione fosse a
conoscenza dell’abuso come accertato nel sopralluogo del 2001 prima di quella data” dal momento
che per ‘amministrazione’ non poteva che intendere non qualsiasi organo comunale, ma il
competente ufficio.
Per ingenerare un affidamento, quanto meno sarebbe dovuto rilevare un atto dell’autorità
competente nel qualificare l’immobile come abusivo o meno, non bastando atti di soggetti genericamente appartenenti all’Amministrazione comunale né, tanto mano, la conoscenza da parte
loro dell’esistenza dell’immobile.
Solo gli organi competenti all’istruttoria e all’adozione del provvedimento repressivo sono infatti
tenuti a disporre le indagini conoscitive e l'assunzione di tutti gli elementi documentali occorrenti
per consentire una corretta ed esauriente valutazione delle iniziative edilizie poste in essere
nell'ambito del territorio di pertinenza, in esecuzione dei compiti di vigilanza sullo svolgimento
della relativa attività.
Del resto, ai sensi dell’art. 4, comma 3, della l. n. 47 del 1985, solo a seguito dell’accertamento, da
parte dei competenti uffici comunali, dell'inosservanza delle norme e modalità sull'attività
urbanistico - edilizia nel territorio comunale, nell’ambito dei poteri di vigilanza attribuitigli, può
essere emessa l’ordine di sospensione lavori e, ai sensi del successivo art. 7, può essere disposta la
demolizione delle opere eseguite in assenza o in difformità di concessione, ovvero con variazioni
essenziali.
Anche il successivo art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha esplicitamente stabilito che le misure
sanzionatorie in materia edilizia spettano al dirigente o al responsabile del competente ufficio
comunale, che esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'Ente,
la vigilanza sull'attività urbanistico - edilizia nel territorio comunale, per assicurarne la rispondenza
alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
E’ irrilevante quindi il richiamo contenuto nell’atto d’appello alla circostanza che in epoca
pregressa erano stati stipulati i contratti sopra richiamati con il “Comune” e che lo stato dei luoghi,
con la dedotta esistenza sin dalla data di presentazione della domanda di concessione del terreno
demaniale di cui trattasi e dell’accoglimento dell’istanza per la realizzazione di “una costruzione
definita in legno”, era “fatto notorio” anche per il “Comune”.
Non era stata infatti fornita adeguata e convincente prova che la situazione di fatto fosse stata posta
ad ufficiale conoscenza degli uffici comunali competenti alla repressione degli abusi edilizi, né –
tanto meno – che tali uffici abbiano considerato legittima l’avvenuta realizzazione del manufatto.
Né è idonea a dimostrare il contrario l’affermazione contenuta nella sopra citata relazione del
responsabile di settore Andrea Rondoni del 7 maggio 2001, non essendo comunque adeguatamente
provato che il settore competente fosse a conoscenza della circostanza da lunghissimo tempo ed
essendo comunque affermato nella sentenza di primo grado che il ricorrente si era limitato a
sostenere, senza riscontro probatorio, anche indiretto, che le realizzazioni dei manufatti risalivano
nel tempo a qualche decennio addietro ed a citare nel ricorso introduttivo tale signor “Migliorati (da
tempo defunto)” quale probabile costruttore del manufatto esistente su terreno statale e un tale
“Consigli”, quale partecipante alla realizzazione; invece gli unici elementi oggettivi in ordine
all’epoca di realizzazione dei manufatti consistevano nella menzione, nella domanda di concessione
del 1994, dell’esistenza di un prefabbricato in legno diverso dall’esistente sul terreno statale e del
parere favorevole all’allacciamento del metano del 2000, nonché nelle fotocopie delle utenze del
2001.
Pertanto, non è viziata da errore di fatto neanche la statuizione con cui la sentenza impugnata ha
ritenuto inutile la richiesta dell’allora appellante (che assume aver fornito sufficienti principi di
prova al riguardo) di acquisizione di documenti (contratti originari di elettricità, gas, e acquedotto),
nonché di acquisizione di testimoni e relazione della Guardia Fluviale.Infatti l'errore di fatto, che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice con il rimedio
straordinario della revocazione, è solo quello che non coinvolge l'attività valutativa dell'organo
decidente, ma tende ad eliminare un ostacolo materiale frappostosi tra la realtà del processo e la
percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una pura e semplice errata
od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, sempre che il fatto
oggetto dell'asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza
impugnata per revocazione si sia pronunciata: il giudizio revocatorio, in quanto rimedio
eccezionale, non può essere trasformato in un ulteriore grado di giudizio; di conseguenza è
inammissibile il ricorso per revocazione per errore di fatto nel caso in cui si contestino le
conclusioni alle quali il giudice è pervenuto sulla base di specifici presupposti di fatto, dal momento
che in tal caso la domanda di revocazione viene utilizzata solo come pretesto per rimettere in
discussione il tema controverso al fine di pervenire a una diversa decisione (Consiglio di Stato, sez.
V, 28 luglio 2014, n. 3979).
Ciò comporta la inammissibilità della domanda in via rescindente formulata dal signor Cimei.
6.3. Aggiungasi che detta domanda, comunque, non potrebbe essere accolta neppure in via
rescissoria.
Non è infatti condivisibile la tesi secondo la quale l'ordinanza di demolizione dell'immobile, emessa
a lunga distanza di tempo dalla costruzione del fabbricato, non potrebbe essere sorretta
esclusivamente dal richiamo al carattere abusivo dell'opera realizzata
Infatti, secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V, 11 luglio 2014, n. 3568), condivisa
dal Collegio, il lungo periodo di tempo intercorrente tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il
provvedimento sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia
in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi del comportamento
inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un
ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto,
poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere
abusivo.
Infatti, è di per sé del tutto irrilevante il tempo intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio
e l’emanazione del provvedimento di demolizione.
[color=red]Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l’amministrazione
deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere
abusive: il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla
sua rimozione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955). [/color]
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo
affidamento.
Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere del ritardo con cui l’amministrazione – a causa
del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore – abbia
emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
[color=red]La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo con cui l’Amministrazione emana l’atto
conseguente alla commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece disciplina
solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie sul condono o con la normativa sull’accertamento di
conformità.[/color]
7.- Le considerazioni in precedenza svolte rendono inutile, per carenza di interesse giuridicamente
tutelabile, la disamina della fondatezza delle tesi della parte ricorrente in revocazione secondo cui
dagli atti processuali emergeva che, oltre l’interesse del privato, sussisteva nel caso di specie anche
l’interesse pubblico di segno contrario all’ordine di demolizione (come sarebbe comprovato dalla
eccezione di inammissibilità formulata in primo grado dal Comune per mancata notifica al
Ministero dei Lavori Pubblici).
Gli assunti del ricorrente sono infatti evidentemente volti a dimostrare la sussistenza di un interesse
pubblico a non far demolire i manufatti di cui trattasi solo nell’ipotesi che fosse stata accolta la tesi
rescissoria (secondo la quale erroneamente la sezione, con la sentenza n 4470 del 2013, ha ritenuto
insussistente l’obbligo del Comune di motivare specificamente il provvedimento di demolizione in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto), sicché
l’inammissibilità della domanda di revocazione della sentenza su tale punto rende inutile la
disamina della fondatezza dei dette tesi.
8.- Poiché l'errore di fatto revocatorio è solo quello che non coinvolge l'attività valutativa
dell'organo decidente, ritenere il Collegio che siano inammissibili le deduzioni con cui il Ministero
dei Lavori pubblici dovrebbe essere considerato come parte necessaria del giudizio, con
conseguente violazione del suo diritto di difesa e del principio del giusto processo, di cui,
rispettivamente, agli artt. 24 e 111 della Costituzione, tale da imporre il rinvio al primo giudice.
La censura è priva di rilievo, perché non può il ricorrente formulare deduzioni che solo la parte non
intimata nel giudizio avrebbe potuto al più articolare.
Peraltro, la censura non era stata dedotta nell’atto d’appello, sicché in questa sede è stata proposta
una domanda nuova, che risulta con evidenza inammissibile nel corso della presente fase del
giudizio.
9.- Quanto all’assunto secondo cui l’appellante aveva evidenziato che il manufatto poteva
beneficiare di sanatoria e che la circostanza, incontestata dal Comune, sarebbe stata ignorata dalla
Sezione, con negazione aprioristica del diritto a monte, il Collegio osserva che anche tale censura è
inammissibile.
Invero nella sentenza di primo grado, riportata nell’atto d’appello, è affermato che “La necessità o
meno dell’autorizzazione paesistica potrebbe rilevare nell’ambito di un eventuale procedimento
autorizzatorio in sanatoria, procedimento che non risulta però attivato”.
Al riguardo nell’atto d’appello era solo affermato che “…non corrisponde a verità la circostanza
che non è stato attivato procedimento in sanatoria. In verità il Cibei si è interessato per
l’autorizzazione in sanatoria, ma il Comune non ha saputo indicare gli importi di spesa e quindi di
fatto si è posto il Cibei nella condizione di non poter inoltrare formalmente la richiesta. E’ da
precisare, comunque, che il manufatto è sanabile ex art. 13 L. 47/1985”
Trattasi quindi di mere contestazioni in fatto non ascrivibili al rango di motivo di ricorso, su cui la
sentenza di cui è chiesta la revocazione, in cui è peraltro citata la massima espressa da Cass., civ.,
Sez. II, 15 dicembre 2008, n. 29340, non era tenuta a pronunciarsi.Del resto, l’oggetto del giudizio deciso con la sentenza impugnata era quello costituito dal
provvedimento impugnato, sicché del tutto irrilevanti risultavano le circostanze concernenti la
proponibilità o meno di una istanza di sanatoria.
10.- Quanto alle richieste specificate nella memoria depositata in giudizio dal ricorrente, la
inammissibilità del ricorso ne esclude la necessità della disamina.
11.- Il ricorso per revocazione deve essere conclusivamente dichiarato inammissibile.
12.- Nessuna determinazione può essere assunta in ordine alle spese di giudizio, stante la mancata
costituzione del Comune intimato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente decidendo dichiara
inammissibile il ricorso per revocazione in esame n. 1123 del 2014.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 giugno 2014 con l'intervento dei
magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere
Antonio Amicuzzi, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/10/2014
IL SEGRETARIO(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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