Data: 2014-06-25 15:15:36

Ostruzionismo alla CONFERENZA DI SERVIZI - sentenza T.A.R.

Ostruzionismo alla CONFERENZA DI SERVIZI - sentenza

T.A.R. Marche, Sezione I, 6 marzo 2014 sent. N. 291

FATTO E DIRITTO

1. Con i ricorsi in epigrafe - che il Collegio ritiene di dover riunire ai sensi dell’art. 70 cod. proc. amm., in considerazione del fatto che essi attengono alla medesima vicenda sostanziale - la sig.ra Conigli e gli altri consorti di lite (ricorso n. 140/2013 R.G., integrato da successivi motivi aggiunti) e i Comuni di Ripe e Ostra (ricorsi nn. 379 e 380/2013 R.G.) impugnano l’autorizzazione unica (A.U.) ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003, rilasciata dalla Regione Marche alla società controinteressata per la realizzazione di un impianto per la produzione di energia elettrica ottenuta dalla digestione anaerobica della frazione organica dei rifiuti solidi urbani, degli sfalci e dei fanghi.
Va evidenziato che i ricorsi nn. 379 e 380 sono stati inizialmente proposti come ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica e sono stati trasposti in s.g. a seguito di opposizione promossa dalle controparti.
2. Oltre a resistere ai suddetti ricorsi, la società En-Ergon ha proposto altrettanti ricorsi incidentali, impugnando:
- in tutti, i pareri negativi rilasciati dal Comune di Ostra e dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio nel corso del procedimento di rilascio dell’A.U.;
- in quelli proposti nell’ambito dei giudizi incardinati dai Comuni di Ostra e Ripe, anche il parere favorevole di VIA espresso con la determinazione dirigenziale della Provincia di Ancona n. 186/2011, nella parte in cui (prescrizione n. 12) debba essere interpretata nel senso che la documentazione relativa alla normativa antisismica avrebbe dovuto essere acquisita già nel corso del procedimento ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003 e non anche prima dell’avvio dei lavori.
Con ordinanza n. 173/2013 il Tribunale, chiamato a decidere sulla domanda cautelare proposta con il ricorso n. 140/2013, ha fissato per il 6 febbraio 2014 l’udienza di trattazione del merito. Successivamente anche per la trattazione degli altri due ricorsi è stata fissata la medesima udienza pubblica.
3. Stante la gran mole di censure sollevate, il Collegio ritiene preferibile esporre i motivi dei vari ricorsi contestualmente al loro esame, accorpando ovviamente le censure analoghe sollevate nei tre ricorsi principali.
4. Iniziando, per mera comodità espositiva, la trattazione dai ricorsi incidentali, gli stessi sono inammissibili per difetto di interesse, atteso che:
- con riguardo agli impugnati pareri del Comune di Ostra e della Soprintendenza, il ricorso incidentale si appalesa strumento processuale “sovrabbondante” rispetto alla mera “difesa passiva”. In effetti, poiché non è revocabile in dubbio che sia il Comune che la Soprintendenza avessero titolo a partecipare al procedimento e ad esprimere il rispettivo parere, la questione da dirimere è solo quella della congruità dei predetti apporti procedimentali, questione che però il Tribunale deve affrontare attraverso lo “schermo” della valutazione che sugli stessi ha già operato la Regione (essendo la competenza per l’adozione dell’atto finale rimessa esclusivamente ad essa e non essendo i pareri medesimi vincolanti). In sostanza, poiché la società controinteressata ha comunque contestato nel merito i predetti pareri (o, secondo En-Ergon, “non pareri” o pareri non ostativi) e poiché la Regione ne ha prescisso in sede di adozione dell’A.U., tutto si riduce a verificare se la Regione ha ben operato sotto questo profilo;
- con riguardo al parere favorevole di VIA, l’atto va in parte qua interpretato nel senso fatto proprio dalla Regione in sede di rilascio dell’A.U., ossia nel senso che gli elaborati imposti dalla normativa antisismica vanno depositati presso l’ex Genio Civile prima dell’avvio dei lavori e non già in sede di rilascio dell’atto abilitativo. E ciò in quanto sotto questo profilo le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 387/2003 non derogano espressamente alla normativa del T.U. n. 380/2001, che a sua volta recepisce le risalenti disposizioni della L. n. 64/1974.
I ricorsi incidentali sono pertanto da dichiarare inammissibili.
5. Prima di iniziare la trattazione delle censure proposte con i ricorsi principali, è opportuno chiarire che:
- tutti e tre i ricorsi muovono dall’assunto secondo cui nella procedura di VIA e, di conseguenza, anche nell’ambito del procedimento ex art. 12 le amministrazioni procedenti (Provincia e Regione) non hanno in alcun modo valutato la potenziale pericolosità dell’impianto En-Ergon con riguardo a tutti possibili impatti che lo stesso è idoneo a produrre sui valori tutelati dalla normativa che disciplina la valutazione di impatto ambientale;
- questo assunto è però del tutto infondato, atteso che, a differenza di quanto accaduto per una serie di impianti realizzati nel vigore delle LL.RR. n. 20/2011 e 3/2012, nel caso di specie è stata svolta la procedura di VIA e, nel corso della stessa, è stato in particolare acquisito il parere dell’ARPAM;
- come è noto, proprio l’omesso coinvolgimento della suddetta Agenzia (non previsto dalle citate leggi regionali e disposto invece dalla successiva L.R. n. 30/2012) è stato uno dei principali motivi posti a base dei numerosi ricorsi proposti avverso i provvedimenti autorizzatori rilasciati dalla Regione in base alle LL.RR. n. 20/2011 e 3/2012 (legge, quest’ultima, dichiarata incostituzionale nella parte in cui escludeva dalla VIA una serie di impianti solo in ragione della loro potenza termica - sentenza della Consulta n. 93/2013);
- ma quando al contrario l’ARPAM prende parte al procedimento (e naturalmente le problematiche de quibus vanno affrontate nella naturale sede della VIA e non anche nel procedimento autorizzatorio ex art. 12, pena la inammissibile duplicazione delle procedure e il loro aggravamento) si deve dare per accertato che le problematiche relative agli impatti sulle matrici sensibili (acque, suolo, aria, etc.) sono state esaminate e ritenute non ostative al rilascio dei successivi provvedimenti autorizzatori. Naturalmente (come è accaduto, ad esempio, nella vicenda decisa dal Tribunale con le sentenze nn. 363/2011 e 9/2013) è ben possibile contestare in parte qua le valutazioni compiute dall’ARPAM, ma è per l’appunto necessario investire di specifiche censure il relativo parere;
- nei ricorsi in trattazione manca invece qualsiasi anche minimo riferimento (e men che meno contestazione) all’operato dell’ARPAM, per cui gli assunti delle parti ricorrenti in cui si enfatizzano i possibili rischi per la salute umana e per le coltivazioni circostanti derivanti dall’attivazione dell’impianto sono da qualificare come generiche lamentazioni che si possono sollevare in presenza di qualsiasi attività umana generatrice di impatti sull’ambiente;
- esistono tuttavia norme di legge che definiscono ex ante i livelli massimi delle emissioni consentite, per cui o si impugnano le norme medesime oppure si deve dimostrare che l’impianto contestato supera i limiti di legge, ma tutto ciò ovviamente sempre con l’ausilio di perizie redatte da tecnici qualificati (come per l’appunto era accaduto nella vicenda che è stata dianzi richiamata, relativa ad un impianto eolico da ubicare nel territorio della Provincia di Pesaro e Urbino). Le relative censure, ovviamente, vanno proposte nel rispetto del termine decadenziale, non essendo ammissibile che nel ricorso introduttivo si sollevino solo vizi generici e che solo in successivi scritti difensivi le doglianze vengano dettagliate. Non si tratta, in effetti, della situazione ordinaria in cui il ricorrente chiede ad esempio il risarcimento dei danni, specificandone le singole voci e riservandosi di meglio quantificarli per mezzo di successive perizie. Nel caso della contestazione afferente il mancato rispetto dei valori di emissione o immissione già nel ricorso debbono essere indicati quali sono i valori che si assumono superati, e questo anche per dare modo alle controparti di potersi difendere in maniera adeguata ed informata. Nella specie, nei ricorsi nn. 379 e 380/2013 non vi sono specifiche censure sul punto, mentre nell’ambito del ricorso n. 140/2013 vi sono solo specifiche censure riguardo le emissioni odorigene (e sul punto si tornerà nel prosieguo) e le emissioni in atmosfera (ma unicamente dirette ad evidenziare l’incremento del 5% rispetto alla situazione di fondo determinato dalle emissioni dell’impianto. Anche sul punto si tornerà nel prosieguo). In data 23/12/2013 è stata invece depositata una perizia a firma del geom. Sadori, la quale, per la verità, non aggiunge molto alle censure formulate nel ricorso introduttivo, visto che si occupa solo delle emissioni odorigene ed al limitato fine di provare la sussistenza della legittimazione attiva dei ricorrenti (legittimazione che il Tribunale ritiene sussistente, in ragione della vicinitas all’impianto e del fatto che nel SIA è stata la stessa società proponente a prendere in considerazione, fra ricettori sensibili, le abitazioni e gli opifici di alcuni dei ricorrenti);
- dal punto di vista processuale, poi, la parte ricorrente deve prendere in esame il progetto iniziale, le eventuali prescrizioni imposte nel corso del procedimento e i relativi adeguamenti progettuali presentati dal proponente, e l’atto autorizzativo finale, dando conto o della totale inattendibilità della summenzionata documentazione (ipotesi per lo più di scuola) oppure della omissione di qualche profilo essenziale o, infine, dell’omesso adeguamento del proponente ai rilievi formulati da una o più delle amministrazioni intervenute nel procedimento. Questo perché molto spesso nei ricorsi proposti avverso impianti produttivi le censure si rivolgono contro il progetto iniziale e non tengono invece conto dei successivi aggiustamenti, il che conduce ovviamente al rigetto delle relative censure.
Il discorso che precede dà conto del rigetto di tutte le censure con cui si contesta l’omessa valutazione dell’impatto ambientale del progetto per cui è causa.
Da respingere è anche la censura proposta solo nei ricorsi nn. 379 e 380, con cui si deduce l’illegittimità del parere VIA per asserita carenza della sintesi critica sugli esiti del SIA (art. 25 D.Lgs. n. 152/2006). Al riguardo, si osserva che:
- non è necessario che il parere VIA sia redatto utilizzando le medesime denominazioni normative, ciò che conta essendo il contenuto dell’atto;
- per sintesi critica si dovrebbero intendere le considerazioni conclusive che l’autorità competente è chiamata a svolgere sullo studio di impatto ambientale presentato dal proponente e sugli apporti consultivi di tutte le altre autorità che intervengono nel procedimento;
- la sintesi critica è presente naturaliter in ogni parere VIA, perché l’autorità competente deve motivare sia il rilascio del parere favorevole sia il rilascio del parere negativo. E’ normale che nel primo caso la sintesi critica sia meno rilevante nel contesto dell’atto, dovendosi ritenere che, per i profili non espressamente evidenziati, l’autorità abbia ritenuto convincenti le argomentazioni contenute nel SIA o le integrazioni che nel corso del procedimento siano state richieste al proponente. Ed è altrettanto normale che, al contrario, la sintesi critica sia più dettagliata in caso di parere negativo, perché qui l’autorità deve dare conto di tutte le criticità non superate. In generale, poi, il parere VIA presenta un contenuto tanto più articolato e complesso quanto più l’impianto ha dimensioni e impatto ambientale ragguardevoli, ma nel caso di specie si controverte di un impianto a biomasse di piccola taglia, per di più da realizzare in area già vocata urbanisticamente.
6. Altre considerazioni di ordine generale (che hanno riflessi sulla reiezione di un altro gruppo di censure) vanno fatte con riguardo alle doglianze relative alle modalità di convocazione e svolgimento della conferenza di servizi ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003.
Tutte le parti ricorrenti muovono dai seguenti assunti:
a) il preavviso di convocazione è stato troppo breve per consentire una compiuta analisi del progetto;
b) la conferenza ha proceduto ad un ritmo esageratamente veloce, tanto più che il termine di 90 giorni previsto dall’art. 12 non decorre dalla data di presentazione della domanda, ma dalla data di avvio della conferenza;
c) il parere decisivo rilasciato ai sensi dell’art. 208 D.Lgs. n. 152/2006 dal competente Settore della Provincia è stato depositato “a sorpresa” in occasione dell’ultima riunione, nel mentre esso andava reso noto agli altri partecipanti con un congruo preavviso;
d) la carenza di alcuni documenti previsti dalle Linee guida di cui al D.M. 10/9/2010 (documentazione relativa alla disponibilità dell’area e certificato di destinazione urbanistica, relazione geologica, documentazione comprovante la provenienza della biomassa) doveva dare luogo ad improcedibilità della domanda;
e) la presenza di pareri ostativi emessi da autorità preposte alla tutela di interessi qualificati (in primis, quello della Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio) rendeva obbligatorio il deferimento della pratica alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o, quantomeno, legittimava un supplemento di istruttoria;
f) non stati coinvolti i Comuni di Ripe e Senigallia (quest’ultimo non è stato coinvolto nemmeno nel procedimento di VIA).
Tali assunti, infondati nel merito, non danno luogo alle conseguenze invalidatorie pretese dai ricorrenti.
6.1.a) Il preavviso rispetta i termini di legge e, comunque, su richiesta del Comune di Ostra un differimento vi è stato. La decisione finale, che avrebbe dovuto essere assunta nella conferenza di servizi del 15 novembre, è stata in effetti differita alla seduta del successivo 23 novembre.
6.1.b) Il termine previsto dall’art. 12 del D.Lgs. n. 387/2003, il cui superamento, come statuito ad esempio dal CGA nella sentenza n. 1368/2010, dà luogo a conseguenze risarcitorie, decorre ovviamente dalla data di ricezione della domanda, non contenendo la norma alcuna specificazione che possa far presumere il contrario. Il termine di 90 giorni va considerato “al netto” solo del tempo necessario per lo svolgimento della procedura di VIA. In ogni caso non può mai costituire di per sé causa di invalidità di un procedimento il fatto che lo stesso si concluda in un tempo inferiore a quello massimo previsto dalla legge.
6.1.c.) Il meccanismo della conferenza di servizi delineato dalla L. n. 241/1990 non prevede affatto che i pareri dei vari enti partecipanti siano resi noti in anticipo agli altri (fermo restando che ciò può accadere per scelta spontanea dei soggetti coinvolti e/o su richiesta di uno o più di essi). La conferenza di servizi presuppone, invece, che i vari partecipanti rilascino in quella sede il proprio parere e che ciascuno di essi, presa visione dei pareri degli altri, esprima il proprio avviso definitivo. Non a caso l’art. 14-ter, comma 6, della L. n. 241/1990 stabilisce che ciascun ente invii un unico rappresentante (anche se nella prassi viene consentita la presenza anche di più di un rappresentante per ciascun ente) legittimato ad esprimere la volontà del delegante su tutti i profili oggetto della decisione. Ovviamente la legittimazione dovrebbe riguardare sia i profili tecnici che quelli lato sensu politici, ma con riguardo a questo aspetto l’esperienza pratica dimostra che molto spesso il rappresentante si limita ad esaminare o solo i profili tecnici (quando ad intervenire è, ad esempio, il responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale) oppure solo i profili politici (quando ad intervenire sono il Sindaco o un assessore).
In generale, poi, si deve osservare che le numerose e sempre mutevoli norme che disciplinano l’istituto della conferenza di servizi sono sovente strumentalizzate sia in sede procedimentale che in sede processuale, quando appare invece abbastanza chiaro che l’intento del legislatore della L. n. 241/1990 era quello di ridurre il più possibile la durata e la frammentazione dei procedimenti amministrativi che attengono alla medesima vicenda sostanziale (nonché di evitare la prassi dei c.d. veti incrociati), costringendo i vari enti coinvolti ad esaminare congiuntamente e, possibilmente, in un’unica riunione tutti gli aspetti progettuali e ad assumere, secondo meccanismi diversi a seconda degli interessi emersi, la decisione finale. In questo senso, è ovvio che, in linea generale, gli enti coinvolti debbono esprimere il proprio parere nel corso della riunione della c.s. e che l’eventuale “ostruzionismo” (leggasi mancata partecipazione o partecipazione non costruttiva) debba essere in qualche modo sanzionato. In più, e nell’ottica di un’incentivazione delle attività lato sensu produttive, il legislatore ha anche imposto la c.d. sfiducia costruttiva (per usare una terminologia propria del diritto costituzionale), ossia l’onere per le amministrazioni interessate di suggerire modifiche progettuali che consentano di superare l’eventuale dissenso, il che, con riguardo alle c.d. industrie insalubri, trovava già un lontano ma ancora attuale precedente nell’art. 216 T.U.L.S.
6.1.d.) Nel caso di specie il soggetto proponente ha depositato in sede procedimentale sia la documentazione relativa alla proprietà delle aree su cui deve sorgere l’impianto sia il certificato di destinazione urbanistica. Con riguardo a questo secondo documento la censura svolta nel ricorso n. 140/2013 è del tutto infondata, anche perché il Comune di Ostra, che pure ha promosso analogo ricorso, si è ben guardato dal rettificare in autotutela il suddetto certificato, come pure avrebbe potuto agevolmente fare. Ciò dimostra che in parte qua il dirigente del settore comunale competente non poteva che certificare quanto risulta dal vigente PRG. Con riguardo alla provenienza della biomassa, la normativa vigente non ne impone la specificazione dettagliata, essendo un tale onere inesigibile alla luce del diritto di libertà di iniziativa economica. Nella relazione di accompagnamento al progetto va solo indicata la provenienza (punto 13.1, let. b) sub ii., delle Linee guida statali). Quanto alla prescrizione n. 12 contenuta nella determinazione provinciale n. 186/2011, il discorso è stato già affrontato in sede di esame del ricorso incidentale proposto da En-Ergon nell’ambito dei giudizi di cui ai ricorsi nn. 379 e 380/2013, per cui de hoc satis.
6.1.e.) Il parere della Soprintendenza è immotivato e dunque non ostativo. Premesso che l’area in argomento non è soggetta ad alcun vincolo paesaggistico, architettonico o archeologico, la Soprintendenza, sul falso presupposto che dalla documentazione progettuale non era possibile comprendere la localizzazione dell’impianto, ha in sostanza rifiutato di esprimere un parere, pur avendo partecipato alla conferenza di servizi (ma, a quanto risulta dal verbale della seduta del 23/11/2012, il rappresentante dell’organismo periferico del Mi.B.A.C. non era in grado di esprimere né un parere tecnico né tantomeno un parere “politico”, essendosi limitato a fare da mero nuncius al parere pregiudizialmente negativo del Soprintendente). Né può sostenersi che la Soprintendenza non sia stata messa in condizione di comprendere i termini della vicenda, in quanto sia nella lettera di convocazione del 2/11/2012, sia nella successiva nota del 15/11/2012, il dirigente competente al rilascio dell’A.U. aveva ben chiarito che il coinvolgimento dell’organismo periferico del Mi.B.A.C. era limitato a verificare se nelle aree contermini all’impianto vi fossero problematiche di rilievo paesaggistico. Era quindi onere della Soprintendenza procedere in proprio a tale verifica, individuando, ad esempio, aree sensibili sotto questo profilo. Solo in questo caso, ossia in presenza di evenienze di tal genere, sarebbe stato legittimo richiedere un rinvio della conferenza di servizi del 23/11/2012. Ma poiché né in quella sede e neanche nell’ambito del presente giudizio la Soprintendenza ha evidenziato l’insorgenza di problematiche paesaggistiche, la decisione di non tenere conto del parere negativo (non vincolante, non essendo necessaria l’autorizzazione paesaggistica) è legittima. Va al riguardo evidenziata l’irrilevanza delle considerazioni espresse dall’Avvocatura dello Stato nella memoria di costituzione del 31/10/2013, in quanto esse originano da una nota del Comune di Ostra che è successiva anche al decreto di rettifica dell’A.U. adottato dal dirigente regionale in data 6/2/2013, per cui si tratta di documentazione che non può essere presa a riferimento per valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati.
Il parere del Comune di Ostra è invece dichiaratamente politico, perché così lo ha qualificato lo stesso Consiglio Comunale. Ma, ad ogni buon conto, l’operato del Comune di Ostra va giudicato con particolare severità sotto questo profilo, visto che le asserite esigenze di maggiore approfondimento del progetto sono del tutto pretestuose, avendo l’amministrazione avuto circa due anni di tempo per esaminare funditus il progetto, depositato presso gli uffici comunale dal maggio 2010.
Fra l’altro gli approfondimenti che il Consiglio Comunale ritiene necessari attengono tutti alla questione dell’impatto ambientale e dunque hanno trovato spazio nell’ambito della procedura di VIA, nel corso della quale il Comune non ha sollevato alcuna sostanziale obiezione.
E’ invece mancato il parere del Sindaco ex art. 216 T.U.L.S., il che è ancora più strano a fronte dei reiterati richiami che lo stesso Comune di Ostra ha operato al principio di precauzione ed ai possibili rischi per la salute umana derivanti dall’attivazione dell’impianto.
In questo senso vanno condivise le eccezioni della controinteressata circa il fatto che:
- per un verso, non doveva essere la Regione, in sede di convocazione della conferenza di servizi, a ricordare al Sindaco i poteri assegnatigli dal T.U.L.S.;
- per altro verso, non trovano applicazione le disposizioni di cui alla deliberazione della G.P. n. 388/2008 (disposizioni interne alla Provincia, che si applicano solo nel procedimento ordinario ex art. 208 D.Lgs. n. 152/2006). Va peraltro aggiunto che il Comune, nel momento in cui ha avuto visione del progetto (anno 2010), era perfettamente in grado di qualificare l’impianto in parola come industria insalubre e di individuare le prescrizioni da suggerire in sede di VIA o, al limite, nel corso del procedimento di rilascio dell’A.U.
Per chiudere sul punto, il Collegio ritiene utile indicare quale è il corretto modus procedendi che il Comune di Ostra e il suo Sindaco pro tempore avrebbero dovuto seguire (fermo restando che nel procedimento di rilascio dell’A.U., salvo evenienze particolari, non devono essere ripetute le valutazioni che afferiscono al procedimento di VIA):
- esaminare il progetto in tutti i suoi profili tecnici (e quindi con il coinvolgimento dei vari dirigenti/responsabili dei servizi interessati e, se ritenuto opportuno, anche di organismi tecnici consultivi) e indicare eventuali specifici profili di incompatibilità con la normativa di rango comunale e/o con norme di legge statale e regionale;
- con riguardo a ciascuno di tali profili di incompatibilità, evidenziare possibili modifiche atte a superare le suddette problematiche (e sul punto va osservato che anche di recente - sentenza n. 350/2014 - il Consiglio di Stato ha ribadito la necessità che i pareri negativi debbono contenere anche una critica construens);
- esprimere un motivato parere finale, anche negativo, ma che contenesse tutti i predetti elementi di valutazione (sul punto vedasi, peraltro, anche il punto 10. della recente sentenza del TAR n. 1/2014, la quale, seppure pronunciata sull’impugnazione di un’autorizzazione integrata ambientale, afferma un principio esportabile anche a controversie analoghe).
Discorso similare è a farsi per il parere ex art. 216 T.U.L.S., rimesso alla esclusiva competenza del Sindaco. Anche se per molti aspetti si tratta di norma di ardua collocazione nell’attuale contesto normativo, l’art. 216 contiene un principio valido ed attuale, ossia il fatto che il Sindaco è chiamato a valutare le soluzioni tecniche in base alle quali il soggetto proponente un intervento che rientra nel campo di applicazione della norma ritiene superabile il divieto di insediamento delle industrie insalubri nei centri abitati. L’eventuale parere finale negativo deve quindi essere debitamente motivato e, a tal uopo, è del tutto verosimile richiedere la consulenza, ad esempio, dell’ARPA o dell’ASL competenti per territorio.
Nella specie, peraltro, il parere ex art. 216 andava reso più appropriatamente nel corso della procedura di VIA, trattandosi di profilo che era già oggetto di esame in quella sede da parte della Provincia con il supporto dell’ARPAM.
6.1.f.) Quanto all’omesso coinvolgimento dei Comuni di Ripe (solo nel procedimento ex art. 12) e di Senigallia (sia nel procedimento di VIA che in quello ex art. 12), le censure sono ugualmente infondate.
Il primo era stato coinvolto nel procedimento di VIA per uno scrupolo della Provincia, che aveva rilevato il possibile impatto su una porzione del territorio di Ripe posto a confine con Ostra. Ma in sede di VIA gli impatti in questione sono risultati assenti, per cui del tutto correttamente il Comune di Ripe non è stato invitato al procedimento per il rilascio dell’A.U. Fermo restando che al Comune di Ripe non era preclusa la facoltà di fornire spontanei contributi alla conferenza di servizi, anche in questo caso va osservato che in sede di VIA il civico ente non aveva avuto alcun rilievo da muovere rispetto al progetto, per cui la censura è del tutto strumentale.
Quanto al Comune di Senigallia non è dato comprendere perché lo stesso avrebbe dovuto essere coinvolto, non essendo stato provato che il territorio del predetto ente sia interessato dagli impatti dell’impianto (impatti che, come risulta dal SIA, non sono percepibili già alla distanza di circa 450 metri).
6.2. Nel precedente paragrafo si è fatto accenno alla compatibilità dell’art. 216 T.U.L.S. con le vigenti disposizioni di natura urbanistica ed ambientale. Il discorso va approfondito, essendo ciò necessario per esaminare i motivi dei ricorsi con cui si deduce che il progetto in esame era soggetto ad AIA.
L’art. 216 T.U.L.S. (e con esso il conseguente D.M. 5/9/1994) non appare compatibile con l’attuale assetto normativo nella parte in cui la norma fa riferimento generico all’”abitato” e alle “campagne”. Una tale differenziazione era del tutto congruente con lo stadio di sviluppo urbanistico che il territorio nazionale presentava negli anni di entrata in vigore del T.U.L.S., ma non corrisponde più ad un assetto che si fonda sulla zonizzazione funzionale del territorio comunale e che nella maggior parte dei casi non permette più una netta distinzione fra centro abitato e “campagne” (e questo senza tenere conto del fatto che, nei piani urbanistici di più recente approvazione, la destinazione agricola non individua più le sole “campagne” - ossia aree destinate ad attività agricola - ma anche zone di tutela ambientale che il pianificatore vuole comunque preservare dall’edificazione). Ancora meno attuale è la classificazione delle industrie insalubri in base alla loro tipologia merceologica rispetto alla complessa normativa in materia di VIA/AIA.
Proprio con riguardo all’AIA è sufficiente notare, ad esempio, che mentre il D.M. 5/9/1994 fa riferimento semplicemente agli allevamenti di animali (elenco allegato n. 1, parte I, let. C), n. 1), l’allegato VIII al D.Lgs. n. 152/2006 stabilisce che l’AIA è necessaria solo per gli allevamenti di pollame o di suini con più di 40.000 posti pollame, 2.000 posti suini da produzione (di oltre 30 kg), o 750 posti scrofe.
Questo perché, con riguardo all’impatto ambientale, è ben diversa l’incidenza di un impianto di piccola taglia rispetto ad un rilevante insediamento industriale. Il principio di proporzionalità - di cui non si tiene conto in alcun modo nei ricorsi avverso i provvedimenti di autorizzazione ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003 - osta infatti ad una normativa che sottoponesse, ad esempio, alle medesime valutazioni di impatto ambientale un piccolo impianto di compostaggio di rifiuti e una discarica di dimensioni paragonabili al noto sito di “Malagrotta” (che è la più grande discarica d’Europa). Questo non vuol dire che un allevamento di suini in cui è ospitato un numero di capi inferiore a quello dell’allegato VIII al T.U.A. non produca emissioni odorigene di un certo rilievo per le abitazioni e gli insediamenti più vicini, ma in questo caso soccorre proprio il principio generale di cui all’art. 216 T.U.L.S., in base al quale il Sindaco, sempre nel rispetto dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, può imporre prescrizioni tali da ridurre l’inconveniente entro i limiti di ordinaria tollerabilità. Nella specie, poi, visto che l’A.U. non implica nemmeno una variante urbanistica (essendo l’area prescelta da En-Ergon già destinata ad ospitare attività produttive) le lamentele dei soggetti che hanno proposto il ricorso n. 140/2013 sono ancora meno condivisibili, essendo in parte qua corretta l’osservazione della controinteressata circa l’acquiescenza dei soggetti in questione all’assetto urbanistico ormai consolidato.
Sul punto il Tribunale ritiene di dover solo osservare come molto spesso i piani regolatori sono concepiti in maniera del tutto errata laddove consentono che le zone D siano collocate in adiacenza a zone residenziali oppure laddove consentono che all’interno delle zone D siano ubicati insediamenti residenziali, perché questo è alla base di molte controversie simili a quella che occupa il Tribunale. Nel caso in cui il problema investa invece abitazioni isolate che, per svariate ragioni, si vengono a trovare all’interno o in adiacenza a zone D, rilevano sia l’omessa impugnazione, da parte dei proprietari di tali abitazioni, del PRG nella parte in cui classifica la zona come destinata ad attività produttiva, sia il principio di prevalenza dell’interesse generale all’incentivazione delle attività produttive sull’interesse dei singoli (e in questo caso ciò che conta è solo il rispetto dei limiti di legge per le emissioni acustiche, odorigene, elettromagnetiche, etc.).
6.3. Nel merito, le censure con cui si deduce che l’impianto doveva essere soggetto ad AIA sono da respingere, per varie ragioni:
- in primo luogo è da condividere l’osservazione della difesa di En-Ergon circa l’alternatività dell’A.U. rispetto all’AIA, trattandosi di atti autorizzativi afferenti il medesimo oggetto ed essendo l’A.U. disciplinata da norma speciale rispetto a quelle del D.Lgs. n. 152/2006. Pertanto, si potrebbe al massimo sostenere che nell’ambito della VIA propedeutica al rilascio dell’A.U. debbano essere acquisiti e valutati i medesimi dati richiesti in sede di AIA (e, al riguardo, è bene ricordare che l’AIA contiene soprattutto prescrizioni in merito ai valori massimi di emissione che l’impianto può produrre). Ma a questo proposito si deve però osservare che gli impianti de quibus non sono nemmeno soggetti all’autorizzazione di cui all’art. 269 D.Lgs. n. 152/2006 (né del resto ciò viene affermato nei ricorsi in trattazione), essendo considerate non significative le emissioni prodotte, per cui sul punto sono da ritenere esaustive le indagini e le analisi condotte in sede di VIA (in terminis, vedasi la sentenza di questo TAR n. 302/2013, punto 6.2.);
- in secondo luogo, l’art. 6, comma 12, del D.Lgs. n. 152/2006, in combinato disposto con l’allegato VIII, punto 5.3., stabilisce chiaramente che l’AIA è necessaria nel caso di “Impianti per l'eliminazione dei rifiuti non pericolosi quali definiti nell'allegato II A della direttiva 75/442/CEE ai punti D 8, D 9 con capacità superiore a 50 tonnellate al giorno”. Orbene, le operazioni autorizzate nell’impianto En-Ergon non sono incluse nell’allegato II A della direttiva 75, ma nell’allegato II B (trattandosi di operazioni R3-R13), per cui non era necessaria l’AIA.
Al riguardo, non si può che ritenere irrilevante e comunque infondata la dedotta contrarietà della normativa nazionale alla direttiva 75/442/CEE. In effetti, la normativa nazionale non fa altro che richiamare le tabelle allegate alla direttiva (e dunque non si comprende in che cosa consista la violazione del diritto comunitario), le quali, a loro volta, distinguono nettamente le operazioni sui rifiuti catalogate sotto la lettera D (allegato II A) e quelle catalogate sotto la lettera R (allegato II B). Poiché l’impianto in parola è stato in parte qua autorizzato solo per le operazioni R3 e R13, le censure in esame sono infondate.
Va inoltre aggiunto che:
- l’art. 3 della direttiva (attualmente sostituito dall’art. 4 della direttiva 2008/98/CE) prevede espressamente che fra le misure da incentivare per ridurre il conferimento in discarica vi è l’uso dei rifiuti per produrre energia;
- l’art. 10 della direttiva (il cui contenuto è trasfuso attualmente nell’art. 23 della direttiva 2008/98/CE) contiene una disposizione del tutto pleonastica e, nel caso di specie, pienamente osservata, in quanto stabilisce che “Ai fini dell'applicazione dell'articolo 4, tutti gli stabilimenti o imprese che effettuano le operazioni elencate nell'allegato II B devono ottenere un'autorizzazione a tal fine”.
7. Passando invece ad uno dei punti centrali e dirimenti della vicenda (ossia il rapporto fra l’atto autorizzativo impugnato e la pianificazione regionale e provinciale del ciclo di gestione dei rifiuti), il Tribunale ritiene anzitutto di dover precisare il senso della propria sentenza n. 1441/2009, richiamata dalla sentenza del TAR Piemonte n. 987/2012 (decisione, quest’ultima, più volte citata nei ricorsi principali a sostegno della presente censura).
7.1. In quel caso la competente Provincia marchigiana, proprio sulla base di una specifica previsione del PRGR (che vietava alle sole discariche classificate di I categoria di abbancare rifiuti speciali provenienti da altre Regioni e imponeva di riservare comunque ai rifiuti prodotti nell’ambito territoriale almeno il 75% della capacità abbancativa delle discariche medesime), nonché della normativa statale sulla c.d. emergenza rifiuti in Campania, aveva negato ad una ditta che gestisce una discarica classificata di I categoria di ricevere rifiuti provenienti per l’appunto dalla Campania. Il Tribunale, previo richiamo ad alcune note sentenze della Corte Costituzionale, ha ritenuto che nel caso di specie proprio la specifica previsione del PRGR, nonché l’assenza di qualsiasi accordo con i commissari delegati per l’emergenza rifiuti in Campania (accordo imposto dal D.L. n. 263/2006, convertito in L. n. 290/2006), giustificassero il diniego. In quel caso dall’istruttoria disposta dal TAR era emerso altresì che la discarica aveva abbondantemente superato il limite del 75%, per cui la ricezione dei rifiuti dalla Campania provocava ricadute negative sul ciclo dei rifiuti prodotti nell’ambito territoriale. Ed è stato anche evidenziato che in passato la Regione Marche, espressamente richiestane dai commissari delegati pro tempore, aveva autorizzato il conferimento di rifiuti provenienti dalla Campania in altri impianti marchigiani. Ma il Tribunale ha comunque condiviso il principio generale di libera circolazione dei rifiuti speciali riaffermato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze richiamate. Tutte le affermazioni rassegnate dal Tribunale nella citata sentenza vanno dunque lette alla luce della vicenda sottostante e non generalizzate.
7.2. Anche nel caso deciso dal TAR Piemonte esistevano specifiche previsioni pianificatorie che vietavano la realizzazione di nuovi impianti di digestione dei rifiuti, sia essa aerobica che anaerobica, e ciò in ragione della saturazione del fabbisogno.
Nel caso in esame, al contrario, non esistono specifici divieti nella pianificazione regionale e provinciale, per cui riemerge il principio di libera circolazione dei rifiuti speciali.
Con riguardo alla sentenza n. 987/2012 del TAR Piemonte (gravata peraltro di appello e non ancora passata in giudicato), si deve osservare che la motivazione contiene alcune asserzioni che appaiono non pienamente condivisibili, come ad esempio al punto 1.2. della motivazione in diritto (laddove il Tribunale piemontese evidenzia che “Va dipoi considerato che l’opera di che trattasi provoca comunque un carico impiantistico ed ambientale del quale dovrà tenersi conto nella futura attività di programmazione settoriale, che ne resterà condizionata: così, per effetto della realizzazione dell’impianto di che trattasi tra qualche anno potrebbe diventare difficile, dal punto di vista della sostenibilità ambientale, autorizzare la realizzazione di nuovi impianti di cui si sentisse la necessità in ragione di un aumento della produzione dei rifiuti locali…”) oppure al successivo punto 4.3. (laddove si afferma che “…Tale statuizione non si pone in contrasto con la normativa nazionale e comunitaria sulla produzione di energia da fonti rinnovabili, la cui applicazione non può e non deve tradursi nella selvaggia proliferazione di impianti di notevole impatto ambientale e soprattutto non deve portare a pratiche idonee a compromettere la programmazione della gestione dei rifiuti ed il corretto recupero degli stessi….”).
Tali affermazioni (che si ritiene di commentare proprio perché fatte proprie nei ricorsi in trattazione) non appaiono del tutto condivisibili, atteso che:
- se il fabbisogno di impianti nell’ambito territoriale di riferimento aumenta in conseguenza dell’incremento dei quantitativi di rifiuti da avviare a recupero o smaltimento, l’autorità competente ha a disposizione due possibilità: o modifica il Piano d’ambito (prevedendo nuovi impianti) oppure deve avviare contatti con altre autorità per conferire i rifiuti negli impianti extra - ambito. Ma tutto questo, oltre a rappresentare uno scenario ipotetico e futuribile, non ha nulla a che fare con l’autorizzazione alla realizzazione di un impianto, anche perché tale realizzazione dovrebbe verosimilmente saturare il fabbisogno e dunque scongiurare la futura costruzione di impianti analoghi;
- l’applicazione della normativa sugli impianti che utilizzano f.e.r. per la produzione di energia elettrica non produce di per sé la selvaggia proliferazione degli impianti medesimi (o, meglio, di impianti che, in relazione alle operazioni che vi si svolgono, rientrano anche nel campo di applicazione della parte IV del T.U. Ambiente). In primo luogo perché i relativi progetti sono sottoposti a VIA (e quindi il “rilevante” impatto ambientale di tali impianti viene valutato nella sede a ciò naturalmente preposta), in secondo luogo perché esistono una serie di vincoli previsti dalle Linee guida approvate con D.M. 10/9/2010 e da piani paesistici, urbanistici, di assetto idrogeologico, etc., nonché derivanti da considerazioni di ordine imprenditoriale, tali per cui non sono molte le aree in cui impianti destinati al trattamento di rifiuti possono essere in concreto allocati.
7.3. Tornando al rapporto fra autorizzazione alla realizzazione del singolo impianto e pianificazione di settore, la vicenda relativa alla discarica di Cingoli (di cui questo Tribunale si è occupato nelle sentenze nn. 517/2009 e 146, 147 e 149/2012, tutte confermate dal Consiglio di Stato) insegna che:
- alla Regione compete la definizione dei criteri generali per l’individuazione delle aree idonee e non idonee all’ubicazione di impianti facenti parte a vario titolo del ciclo di gestione dei rifiuti;
- alla Provincia, in sede di pianificazione di secondo livello, compete l’individuazione dei siti idonei e non idonei (nella vicenda della suddetta discarica di Cingoli la Provincia di Macerata aveva indicato, sulla scorta di uno studio tecnico condotto dall’Università Politecnica delle Marche, una serie di siti, ponendoli in ordine di preferenza);
- l’attuazione del piano provinciale, quanto all’impiantistica, è rimessa ai soggetti attuatori, ed in primis agli A.T.O. Peraltro, laddove gli A.T.O. non siano costituiti (come era nel caso della discarica di Cingoli) oppure non riescano ad attuare il piano nei tempi previsti, soggetti attuatori possono essere anche i Consorzi di cui alla L.R. n. 28/1999 o imprenditori privati (vedasi il punto 4. della citata sentenza n. 147/2012);
- la scelta dei siti è vincolante per i soggetti pubblici (i quali dispongono peraltro anche del potere espropriativo, laddove le aree individuate dal PPGR siano di proprietà privata), mentre per i privati è sufficiente verificare se il sito prescelto è compatibile con i piani regionale e provinciale di settore, oltre che, ovviamente, con tutti gli altri piani che riguardano a vario titolo il sito prescelto.
Pertanto, ed anche a voler prescindere dalla considerazione per cui, essendo l’impianto in parola soggetto “anche” alla normativa sugli impianti ad energie rinnovabili, la pianificazione relativa al settore dei rifiuti non può prevalere ex se sul diritto di libertà di iniziativa economica, i provvedimenti impugnati sono legittimi nella parte in cui la Provincia ha proceduto a verificare la compatibilità dell’impianto En-Ergon con i criteri escludenti/penalizzanti di cui al PRGR ed al PPGR, senza che ciò dovesse passare per una modifica del Piano provinciale E va fra l’altro evidenziato che la Provincia si è posta da sé il problema agitato nei ricorsi, il che ancora una volta smentisce l’assunto delle parti ricorrenti secondo cui l’istruttoria che ha preceduto il parere VIA e l’A.U. sarebbe stata in parte qua superficiale.
Dal punto di vista formale, di modifica del PPGR sotto il profilo in esame si può parlare o quando vengono previsti nuovi impianti nominativamente indicati e che debbono sorgere in aree in precedenza escluse, oppure quando viene variata la mappa dei siti idonei e non idonei (fermo restando, ovviamente, che il Consiglio Provinciale può approvare con formali deliberazioni anche le varianti minori che ordinariamente sono invece autorizzabili con atti dirigenziali).
In base a quanto precede vanno respinti anche i motivi con cui si deduce l’omesso coinvolgimento del Consorzio obbligatorio ex L.R. n. 28/1999 e/o dell’A.T.O., non venendo in evidenza nella specie un procedimento pianificatorio di settore.
Quanto alle disposizioni di cui alla deliberazione di G.R. n. 1191/2012, va osservato che le stesse - all. 1, punto 3), let. e) - per il caso di biomasse che siano da qualificare rifiuti prevedono il solo coinvolgimento degli enti competenti per il rilascio dell’autorizzazione ex art. 208 T.U.A. e per il parere VIA (e nelle Marche per entrambi i procedimenti è competente la Provincia). Ciò rende irrilevante la dedotta violazione del principio tempus regit actum, sollevata con riferimento al fatto che la G.R. ha previsto l’inapplicabilità della delibera stessa ai procedimenti in itinere alla data della sua adozione (1/8/2012) e che, erroneamente, il dirigente del settore Energia avrebbe invece considerato in itinere il procedimento per cui è causa (che è stato invece avviato formalmente nel mese di settembre 2012, non rilevando a tal fine il fatto che la VIA fosse stata avviata nel 2010).
7.4. Quanto alla illegittimità del procedimento per omessa attivazione della VAS, la censura è infondata per due ordini di ragioni:
- in primo e assorbente luogo, in conseguenza di quanto appena detto a proposito del fatto che nella specie non si è in presenza di una variante del PPGR;
- in secondo luogo, in base ai principi ed alle norme che disciplinano la valutazione ambientale strategica.
Questo secondo aspetto merita un chiarimento più approfondito.
Nel precedente punto 6.2. si è già richiamato il principio di proporzionalità, principio che trova terreno di elezione naturale proprio nella disciplina di procedimenti che il nostro ordinamento ha mutuato dal diritto comunitario (e la VAS rientra fra questi istituti), visto che anche il principio di proporzionalità è stato enucleato nell’ordinamento comunitario.
Come è noto, la differenza sostanziale fra VAS e VIA risiede nel fatto che la prima prende in esame l’incidenza che i piani e i programmi urbanistici, paesaggistici, etc., possono avere su un’”area vasta”. Questo perché un p.r.g. o un piano delle attività estrattive o uno qualsiasi degli altri piani e programmi indicati dall’art. 6, comma 2 del D.Lgs. n. 152/2006 implicano un potenziale stravolgimento dell’intero territorio al quale il piano o programma di riferisce. Si pensi, ad esempio, all’impatto globale (diretto e indiretto) che provocherebbe su tutte le matrici sensibili la decisione del Comune di Roma, in sede di approvazione del nuovo p.r.g. o di variante di quello in vigore, di dislocare altrove le attuali stazioni ferroviarie oppure di realizzare un nuovo G.R.A. oppure di prevedere nuovi insediamenti residenziali o commerciali in aree attualmente agricole, etc. (naturalmente, facendo le debite proporzioni, il problema riguarda anche i comuni di più ridotte dimensioni). La VAS analizza quindi tutte le possibili interrelazioni che simili decisioni possono arrecare alla salute umana, al paesaggio, all’ambiente in genere, al traffico, all’economia, etc. di tutto il territorio coinvolto dal piano. L’analisi tuttavia, è condotta ad un livello più astratto, perché non è sicuro se il piano sarà effettivamente attuato nella sua integralità, se tale attuazione avverrà in un arco temporale circoscritto e/o se sarà del tutto conforme a quanto ipotizzato, e così via.
La VIA, al contrario, analizza l’impatto ambientale del singolo progetto, il che vuol dire che essa prende in esame impatti inevitabilmente più circoscritti - perché il progetto riguarda una porzione del territorio in ogni caso più ridotta rispetto a quella investita dal piano - ma maggiormente valutabili - perché il progetto, rispetto al piano, si basa su dati concreti, necessariamente definiti e più attuali rispetto a quelli avuti presenti in sede di redazione del piano e quindi di effettuazione della VAS.
Ed è per questo motivo che l’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006 stabilisce che “Per i piani e i programmi di cui al comma 2 che determinano l'uso di piccole aree a livello locale e per le modifiche minori dei piani e dei programmi di cui al comma 2, la valutazione ambientale è necessaria qualora l'autorità competente valuti che producano impatti significativi sull'ambiente, secondo le disposizioni di cui all'articolo 12 e tenuto conto del diverso livello di sensibilità ambientale dell'area oggetto di intervento”.
In ambito marchigiano, la Giunta Regionale ha recepito tale principio, prevedendo, nella deliberazione n. 1831/2010 - recante modifiche alla precedente deliberazione n. 1400/2008 - che in una serie di casi la VAS confluisce nella VIA.
Nel caso di specie non c’è dubbio che si è in presenza di un progetto e che tale progetto riguarda un’area di dimensioni circoscritte, per cui trova applicazione l’art. 6, comma 3, anche perché l’impianto in parola ricade all’interno di una zona già destinata dal p.r.g. ad insediamenti produttivi.
8. Si devono ora esaminare le censure con cui si deduce lo sviamento di potere e la contraddittorietà degli atti impugnati, nella parte in cui:
- la Provincia ha dapprima affermato che l’autorizzazione in parola, quanto alla possibilità di conferimento di rifiuti prodotti in ambito provinciale, richiedeva una previa modifica del PPGR, mentre nel procedimento di A.U. ha reso parere favorevole non subordinato alla modifica del Piano;
- la Regione ha dovuto rettificare il primigenio decreto autorizzativo, in quanto aveva omesso di riportare le prescrizioni impartite dalla Provincia nel parere reso ai sensi dell’art. 208 D.Lgs. n. 152/2006 (il che denoterebbe un chiaro difetto di istruttoria).
Con riguardo a tali doglianze, si osserva che:
- la Provincia, non potendo evidentemente ignorare la realtà (ossia il fatto che, in caso di mancata implementazione degli impianti previsti dal PPGR o di esaurimento della loro capacità abbancativa, i rifiuti prodotti nell’ambito territoriale dovrebbero essere trasferiti altrove, con inevitabile incremento dei costi a carico dell’utenza), ha voluto solo precisare che l’impianto nasce per ricevere rifiuti prodotti fuori dell’ambito territoriale, ma che non è preclusa la possibilità di ricevere anche rifiuti prodotti nel territorio provinciale, in caso di esaurimento degli impianti previsti dal Piano. Si tratta di misura che per un verso non confligge con il Piano, ma che, per altro verso, obbedisce ad elementari esigenze di riduzione degli oneri connessi con il trasporto dei rifiuti fuori provincia o fuori regione;
- in sede di rilascio dell’A.U. la Regione, pur avendo preso atto del parere della Provincia datato 23/11/2012 (il che risulta dal verbale della riunione della conferenza di servizi), non aveva ritenuto, non importa se volutamente o per mero errore di redazione dell’atto, di riportare per esteso le relative prescrizioni. La Provincia, autorità competente in materia di rifiuti, ha fatto notare tale omissione, rimarcando la possibile insorgenza, prima di tutto a carico di En-Ergon, di problemi in sede di successive verifiche circa il rispetto dei vincoli imposti con il parere. La Regione ha prontamente provveduto a rettificare l’A.U., inserendo le suddette prescrizioni. Questo non configura però una nuova A.U., visto che non vi è stata una nuova istruttoria e che le prescrizioni sono le medesime definite in sede di conferenza di servizi. Ciò è tanto vero che il decreto di rettifica non è stato censurato da En-Ergon, proprio perché in parte qua non pone a suo carico oneri aggiuntivi rispetto a quelli derivanti dal decreto autorizzativo primigenio.
9. Passando ai profili tecnici, il Tribunale osserva quanto segue.
A) Come risulta chiaramente dalla determinazione dirigenziale n. 186/2011 (parere favorevole di VIA con prescrizioni), l’area in esame:
- non è soggetta a vincolo idrogeologico ex R.D. n. 3267/1923;
- ricade, in relazione alla tutela dalle calamità, in area non censita dal PAI, e quindi in area che non può essere qualificata come esondabile;
- non è soggetta a vincolo paesaggistico;
- con riferimento alla pianificazione comunale, ricade in zona D (zona produttiva di espansione, a sua volta sotto-classificata in zona D2 e zona D3).
B) La pianificazione regionale e provinciale in materia di rifiuti non può, in parte qua, derogare alla pianificazione settoriale relativa alla tutela paesistico-ambientale, alla tutela e conservazione delle risorse idriche ed alla difesa dalla calamità naturali, ed alla pianificazione comunale, con riferimento alle definizioni ed alla individuazione dei beni oggetto di tutela. Si vuol dire, cioè, che non è possibile ad esempio ritenere una certa area esondabile se essa non è censita come tale dal Piano specifico di settore (nella specie il PAI), salvo che non vengano poste in essere le procedure volte alla modifica del Piano medesimo. Anzi, come sottolineato a più riprese anche dalla giurisprudenza (vedasi, ad esempio, TAR Lecce, III, n. 21/2009), proprio perché i Piani di Assetto Idrogeologico sono intervenuti con notevole ritardo a disciplinare un settore lasciato per decenni nel più completo abbandono, gli stessi sono stati inizialmente redatti sulla base di dati cartografici risalenti e non aggiornati (la vicenda è assimilabile a quella dei provvedimenti applicativi della c.d. legge Galasso del 1985), per cui i vincoli sono stati a volte estesi più del necessario, mentre in altri casi non hanno ricompreso aree che, a seguito di rilevanti modificazioni del territorio, hanno assunto il carattere di aree sensibili. Ma proprio per ovviare a tali inconvenienti tutti i PAI prevedono specifiche procedure di integrazione/modifica/riduzione delle aree vincolate, attivabili non solo su iniziativa pubblica ma anche su iniziativa dei privati interessati.
C) Nella specie, oltre al fatto che non risultano iniziative in tal senso intraprese dal Comune di Ostra o dai ricorrenti signori Abbrugiati (la cui proprietà è confinante con il sito in esame), sorprende il fatto che lo stesso Comune - con il parere favorevole, si deve ritenere, della Provincia, dell’Autorità di Bacino, della Regione e di altre autorità intervenute nel procedimento - abbia potuto classificare il comparto in argomento come zona produttiva di espansione. Poiché è destinata ad ospitare industrie, opifici, magazzini, depositi, etc., nonché la viabilità a servizio degli stessi, una zona D non può essere individuata in un’area esondabile ai sensi del PAI, perché ciò significherebbe, per citare versetti biblici, “costruire sulla sabbia”. E questo è ancora più strano se si pensa che nella Provincia di Ancona il rischio di esondazioni è molto elevato, come dimostrano numerosi episodi verificatisi negli ultimi anni. Si devono pertanto respingere le censure volte ad evidenziare il carattere di esondabilità del comparto edilizio nel quale sorge l’impianto En-Ergon.
Discorso in parte analogo va fatto per i criteri relativi alla tutela idrogeologica, in quanto, come risulta dalla tabella riportata a pagina 113 del PRGR, per le aree vallive con depositi alluvionali il carattere escludente ricorre solo per le discariche classificate I° R.T.Q., II° B, II° C e III (e l’impianto di En-Ergon non è una discarica).
D) Con riguardo ai profili paesaggistici, oltre a quanto detto in precedenza, va osservato che, poiché nella specie non era necessaria l’autorizzazione paesaggistica, le considerazioni espresse dalla Soprintendenza nella memoria di costituzione in giudizio sono inconferenti. Anche se l’impianto per cui è causa presenta un’altezza rilevante, l’essenziale è che esso rispetti gli indici edilizi previsti dal PRG per le zone D (profilo che non è in alcun modo oggetto di contestazione).
E) Proprio con riguardo ai divieti posti dal PRG, gli stessi, come esattamente eccepito dalla Regione e dalla controinteressata, si applicano solo a tutela dei beni specificamente indicati dagli artt. 22, 63, 65, 67, 68 e 69 delle NTA. Nella specie non è stato provato che l’impianto interferisca con uno o più di questi beni.
In generale, poi, va osservato che l’art. 22 fa riferimento alle “…industrie insalubri classificate nocive dalle vigenti leggi…”, ma i ricorrenti non indicano quale sia la norma che classifica nociva l’attività che dovrà essere svolta nell’impianto per cui è causa.
F) Con riguardo ai fattori penalizzanti ed escludenti indicati nel PRGR e nel PPGR, si osserva quanto segue, non senza premettere che la Provincia ha chiesto per ben due volte chiarimenti, onde fugare ogni possibile dubbio in proposito (vedasi le integrazioni del SIA del maggio e del luglio 2011).
Il paragrafo 13 del PPGR approvato dalla Provincia di Ancona, recependo e traducendo in pratica quanto previsto dal PRGR, ha individuato le zone non idonee alla localizzazione degli impianti per il recupero dei rifiuti, le quali risultano dalle cartografie annesse. In primo luogo, le parti ricorrenti non hanno prodotto cartografie da cui risulti che l’area in questione è da ritenere non idonea (il che sarebbe stato il modo più semplice per corroborare la doglianza con dati inconfutabili). In secondo luogo, poiché l’incompatibilità è stata determinata in base alla tipologia di impianto (salvo che per alcune aree, nelle quali non è allocabile alcun tipo di impianto), nel caso di specie i progettisti di En-Ergon avevano correttamente preso a riferimento nel SIA gli impianti I.C. (Impianti di compostaggio e di stabilizzazione della frazione organica da selezione impiantistica) e I.T.B. (Impianti di trattamento biologico). Ebbene, come si può vedere dalle tabelle di cui alle pagine 341 e ss. del PPGR, il carattere escludente (E), per gli impianti I.C. e I.T.B., è previsto solo nelle aree esondabili (e si è già detto il motivo per cui nella specie non si può parlare di area esondabile) e nelle aree soggette a colture specializzate e di pregio (e nella specie, in disparte il fatto che il divieto vale solo nel caso in cui l’impianto debba sorgere proprio su un’area che ospita colture specializzate e di pregio, le parti ricorrenti non hanno provato che nella zona vi sono colture che posseggono i predetti requisiti).
Con riguardo a tutti gli altri parametri - il discorso vale ovviamente solo per quelli richiamati nei ricorsi - il PPGR prevede solo il carattere penalizzante (PE) e quindi l’intervento era comunque assentibile.
Il discorso vale in particolare per le aree produttive miste, nelle quali, secondo i ricorrenti principali, il PRGR vieterebbe gli impianti di compostaggio della F.O.R.S.U. Ma così non è, come si evince dalla chiara precisazione riportata a pagina 120 del PRGR e dalla piana lettura della tabella C di cui al punto 4.2.3. del Piano regionale (la tabella è intitolata espressamente “Orientamenti di carattere non prescrittivo circa l’ubicazione di impianti, ad esclusione delle discariche, in aree produttive”), nonché della prescrizione di cui alla pagina 120, let. d), laddove la Regione ha stabilito che gli impianti di stabilizzazione e compostaggio della F.O.R.S.U. sono ammessi anche in aree produttive se gli stessi sono realizzati in locali coperti e tamponati (come è nel caso dell’impianto En-Ergon).
Quanto alla tutela dei centri abitati, si osserva che:
- come si evince dalla planimetria allegata al ricorso n. 140/2013, nel raggio di 0,5 km dall’impianto sorgono solo insediamenti produttivi e abitazioni singole o sparse;
- il PRGR e il PPGR fanno invece riferimento a centri urbani (vedasi tabella a pagina 115 del PRGR). Pur non essendo stata utilizzata la medesima nozioni di cui all’art. 4 del Codice della Strada (“centro abitato”), è evidente che il pianificatore regionale non ha voluto in parte qua prendere in considerazione anche le abitazioni sparse, visto che in altre parti della medesima summenzionata tabella ha invece fatto riferimento a singoli edifici/complessi insediativi.
10. Quanto alla questione delle emissioni odorigene, il Collegio rileva che:
- è abbastanza curioso che in un ordinamento che si fonda sul principio di legalità (il quale, nel campo del diritto amministrativo, si declina anche come divieto per le amministrazioni pubbliche di adottare decisioni “a sorpresa”, ossia fondate su ragioni che non sono né contemplate dalla legge attributiva del potere, né nelle norme che disciplinano il singolo procedimento), venga contestata la legittimità dell’A.U. e del parere VIA sulla base di disposizioni non applicabili ai procedimenti svolti dalla Provincia e dalla Regione. Come ammettono gli stessi soggetti proponenti del ricorso n. 140/2013, non esistono né a livello statale né a livello regionale disposizioni di legge che stabiliscano i limiti per le emissioni odorigene, tanto è vero che vengono richiamate linee guida della Regione Lombardia o, indirettamente, la normativa vigente nel Regno Unito;
- non si comprende dunque sotto quale profilo la Provincia di Ancona e la Regione Marche avrebbero potuto richiamarsi a prescrizioni che per definizione non si applicano ex se al di fuori dei confini della Lombardia (a meno che la Giunta Regionale marchigiana non le avesse fatte proprie con atto formale);
- la ditta proponente ha peraltro ritenuto di procedere ugualmente ad una stima delle emissioni odorigene, proprio sulla base delle suddette linee guida lombarde (vedasi le pagine 155 e ss. del SIA, depositato da En-Ergon in data 30/3/2013), pervenendo a stimare che il valore massimo presunto di emissioni percepite da uno dei ricettori sensibili presenti nell’intorno di 500 metri dall’impianto (R2) è comunque inferiore al valore massimo assunto (4,1 contro 5 UO/mc). La Provincia ha chiesto chiarimenti con nota prot. n. 90169 del 15/10/2010, alla quale En-Ergon ha replicato nelle integrazioni del dicembre 2010 (punto n. 2), pagine 4-8), dettagliando maggiormente i risultati degli accertamenti condotti ante operam. Successivamente il problema non è più emerso, come dimostrano le successive integrazioni del SIA del maggio e del luglio 2011 (in cui la questione non è più affrontata), per cui i chiarimenti forniti sono stati ritenuti, anche dall’ARPAM, pienamente esaustivi.
Quanto alle altre emissioni, si osserva che:
- il principio di precauzione non può essere richiamato in maniera generica, perché ciò vorrebbe dire che nessun impianto rientrante fra quelli sottoposti a VIA dovrebbe essere autorizzato, essendo sempre possibile l’alternativa zero ed essendovi quasi inevitabilmente potenziali ricadute sulla salute umana e sull’ambiente;
- la G.R., con la deliberazione n. 1600/2004, ha fissato una soglia non rigida (5% rispetto alla situazione ante operam) il cui superamento rende “significative” le emissioni di sostanze inquinanti, ma non impedisce di per sé il rilascio dei provvedimenti autorizzativi. Nella specie, dal SIA risulta che l’incremento è comunque inferiore al 5%, per cui la censura va respinta.
11. Quanto al primo motivo del ricorso n. 140/2013, si osserva che:
- nella specie il rilascio del provvedimento finale non era di competenza del Comune di Ostra, per cui non sussiste alcuna causa di incompatibilità fra l’incarico di progettista svolto dall’ing. Romagnoli e la carica di assessore comunale all’urbanistica e all’ambiente dallo stesso ricoperta nel periodo in cui si sono svolti i procedimenti di VIA e A.U. A tal proposito non rileva il fatto che l’A.U. sostituisce anche il permesso di costruire, visto che si tratta di un effetto automatico previsto dalla legge, per cui il Comune interessato, anche se esprime parere contrario in sede di conferenza di servizi (come è accaduto nella specie), “subisce” il rilascio del titolo edilizio, così come “subisce” l’eventuale variante urbanistica conseguente al rilascio dell’A.U.;
- lo stesso art. 78 T.U.E.L. non prevede poi alcuna sanzione specifica per il caso di inosservanza della disposizione di cui al comma 3, per cui tale compito spetta all’interprete. E, in analogia con quanto una giurisprudenza ormai consolidata afferma con riguardo alla disposizione del secondo comma, l’invalidità dell’atto terminale può essere affermata solo in presenza del concreto rischio che l’imparzialità dell’azione amministrativa possa essere stata anche solo messa a rischio dalla situazione di conflitto di interessi (il che accade quando, ad esempio, il sindaco o un assessore sono progettisti di un’opera che deve essere approvata dal dirigente dell’Ufficio Tecnico). Si deve peraltro evidenziare l’ingiustizia sostanziale a cui tale conclusione dà luogo nei riguardi del privato beneficiario del titolo abilitativo, il quale viene a subire incolpevolmente le conseguenze di un comportamento altrui sul quale egli non è in grado di influire (e per questo non appaiono del tutto condivisibili le radicali asserzioni rassegnate dal TAR Palermo nella richiamata sentenza n. 8269/2010). Ma quando, come nella specie, tale rischio non esiste - visto che il parere, oltretutto negativo, è stato reso dal Consiglio Comunale e non dalla Giunta di cui faceva parte l’ing. Romagnoli - l’atto autorizzativo impugnato non è illegittimo sotto questo profilo.
Anche in questo caso, seppure si tratta di argomento non decisivo, occorre infine rilevare l’assenza di un atto di sfiducia quantomeno politica nei riguardi dell’assessore Romagnoli da parte del Sindaco di Ostra, il quale, evidenziano i proponenti il ricorso n. 140/2013, nelle riunioni della conferenza di servizi si è trovato ad avere il predetto ing. Romagnoli seduto dall’altra parte del tavolo e non invece al suo fianco. Ciò dimostra che la questione dell’incompatibilità dell’assessore Romagnoli non è stata mai considerata rilevante dallo stesso Comune di Ostra in sede procedimentale e viene strumentalmente sollevata solo in questa sede.
12. La censura, rubricata al n. 1A) dell’atto di motivi aggiunti al ricorso n. 140/2013 (pag. 26 e ss.), ad onta di quanto sostenuto dai ricorrenti nelle memorie conclusionali, è palesemente tardiva, atteso che:
- dalla semplice lettura combinata del decreto regionale n. 114/EFR recante l’A.U. e del parere favorevole VIA della Provincia (provvedimenti entrambi impugnati con il mezzo introduttivo e dunque conosciuti dai ricorrenti almeno sessanta giorni prima della notifica, avvenuta il giorno 11/2/2013) emerge icto oculi che l’impianto sottoposto a VIA aveva una potenza di 1,672 Mw, mentre quello autorizzato dalla Regione ha una potenza di 999 kW (e questo a parità di capacità ricettiva);
- tale distonia non è emersa quindi nel momento in cui i ricorrenti hanno preso visione del parere favorevole dell’Area Ambiente della Provincia datato 23/11/2012 (sulla base del quale hanno poi proposto i motivi aggiunti).
13. Quanto all’asserita insufficienza della cauzione prestata da En-Ergon a garanzia della dismissione finale dell’impianto, si osserva che:
- il motivo in esame, per quanto fondato, non configura un vizio tale da implicare l’annullamento integrale dell’A.U., essendo la cauzione un mezzo e non un fine. In effetti, laddove il valore della polizza fideiussoria prodotta dal soggetto chiamato a fornire la garanzia dell’assolvimento degli obblighi nascenti da un contratto di appalto o da un provvedimento lato sensu “ampliativo” non fosse sufficiente, l’amministrazione deve concedere all’interessato un congruo termine per integrarla e, solo in caso di inottemperanza, pronunciare la decadenza dell’aggiudicazione o dell’autorizzazione. Va evidenziato inoltre che l’art. 4 della deliberazione di G.R. n. 515/2012 stabilisce che la garanzia finanziaria va prestata prima dell’avvio delle attività (come ribadito nel parere della Provincia del 23/11/2012) e dunque la controinteressata non era comunque ancora tenuta a prestarla. Naturalmente, allorquando si tratta di garanzie connesse ad obblighi nascenti da un provvedimento autorizzativo (come è nella specie), la rideterminazione della cauzione deve avvenire in contraddittorio con il destinatario dell’atto e previa acquisizione di apporti consultivi da altri enti eventualmente interessati (nel caso in esame la Provincia, a cui è attribuita la competenza in materia di impianti per il trattamento di rifiuti);
- nel merito, va preliminarmente osservato che, avendo la Regione inserito nell’A.U. tutte le prescrizioni di cui al parere della Provincia del 23/11/2012, anche l’obbligo di prestare la cauzione ex DGR n. 515/2012 dovrebbe essere stato posto a carico della controinteressata. Poiché però la società ha svolto difese sul punto, si deve ritenere che la questione non sia stata chiarita a sufficienza. La censura va dunque dichiarata fondata, in quanto, anche se è vero che il procedimento speciale ex art. 12 D.Lgs. n. 387/2003 attrae la normativa generale di cui al T.U.A., è altrettanto vero che la cauzione di cui alle Linee guida approvate con D.M. 10/9/2010 è funzionale ad assicurare solo l’effettiva dismissione finale dell’impianto che utilizza f.e.r. (dismissione che, nel caso in esame, non sarà integrale, avendo En-Ergon chiarito che alcuni dei manufatti saranno conservati in quanto utilizzabili anche per altri insediamenti industriali). La cauzione prevista dalle disposizioni attuative dell’art. 208 del D.Lgs. n. 152/2006 ha invece altre distinte finalità, indicate all’art. 2 della deliberazione di G.R. n. 515/2012 e delle quali non si può non tenere conto, essendo ben possibile che alcune di tali evenienze possano verificarsi anche negli impianti per la produzione di energia elettrica da f.e.r. (si pensi, ad esempio, a sversamenti dei liquami che si producono a seguito dei processi di digestione della F.O.R.S.U. o ad altri analoghi accadimenti che producano un danno all’ambiente). Fra l’altro, come risulta dall’art. 1, la deliberazione n. 515/2012 riguarda tutti gli impianti autorizzati per le operazioni R3-R13 e quindi anche il presente impianto.
La Regione Marche dovrà pertanto rideterminare l’importo delle garanzie finanziarie che En-Ergon è tenuta a prestare prima di avviare le attività dell’impianto che configurano operazioni R3-R13.
14. E’ infondato il motivo sub 4. dell’atto di motivi aggiunti al ricorso n. 140/2013, in quanto:
- in linea generale, il Piano di ripristino (di cui al T.U.A.) e il Piano di dismissione (di cui al D.Lgs. n. 387/2003 ed alle Linee guida approvate con D.M. 10/9/2010) nel caso di specie coincidono quanto all’oggetto, e questo proprio perché, come sostengono gli stessi ricorrenti, la fase di compostaggio dei rifiuti fa parte integrante dell’impianto (e dunque, dal punto di vista fisico, la dismissione finale riguarda i medesimi manufatti che sono oggetto del Piano di ripristino- vedasi il documento n. 36 del deposito di En-Ergon del 23/12/2013);
- il Piano di ripristino si caratterizza in particolare per le misure tese ad individuare possibili contaminazioni del sito (punti di campionamento, procedure di campionamento, metodiche analitiche, etc.) e, sotto questo profilo, rientra fra gli elaborati che riguardano la fase di gestione dell’impianto, al pari, ad esempio, del “Piano di gestione, monitoraggio e controllo” di cui al punto s) del parere provinciale trasmesso il 23/11/2012 (prescrizione che non è invece contestata dai ricorrenti). Non è pertanto illegittima la prescrizione che ne ha imposto il deposito entro 90 giorni dalla ricezione del parere provinciale, fermo restando che l’omesso assolvimento dell’onere, al pari di tutti gli altri imposti nel parere, legittima la Provincia a bloccare (o a chiedere alla Regione di bloccare) l’attività di esercizio dell’impianto.
D’altra parte, è del tutto normale che le autorizzazioni afferenti impianti lato sensu produttivi contengano numerose prescrizioni relative a profili che non possono essere oggetto di compiuta valutazione in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma non per questo tali profili possono essere ritenuti irrilevanti o pretermessi in sede di approvazione dei progetti. Anche in materia strettamente edilizia, del resto, esistono profili che, pur essendo indubbiamente rilevanti sia per il Comune che per il privato richiedente, non sono esaminati in sede di istruttoria sul rilascio del titolo abilitativo, ma condizionano comunque la concreta realizzabilità dell’intervento (si pensi, per tutti, agli oneri concessori, che ben possono essere quantificati o rideterminati dal Comune anche successivamente al rilascio del titolo e che vengono normalmente assolti dal destinatario del titolo in più tranches, di cui solo la prima va corrisposta al momento del rilascio materiale del titolo).
Nella specie, peraltro, la controinteressata ha evidenziato di avere comunque depositato il Piano di ripristino il 28 febbraio 2013 (senza che sul punto vi siano state smentite da parte dei ricorrenti e/o rilievi da parte della Provincia), per cui si tratterebbe di questione superata già al momento del deposito del ricorso n. 140/2013.
15. L’ultima censura contenuta nell’atto di motivi aggiunti al ricorso n. 140/2013 (la quale costituisce in realtà il fulcro di tutto il ragionamento sotteso all’iniziativa giudiziaria della sig.ra Conigli e degli altri consorti di lite) è anch’essa infondata.
Il Tribunale riconosce che in materia ambientale esiste una notevole confusione normativa, dovuta anche al fatto che dal momento dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152/2006 alla data di rilascio delle autorizzazioni qui impugnate si sono avuti cambiamenti frequenti e in alcuni casi traumatici alla guida politica del Paese, essendosi in particolare registrata l’alternanza fra forze politiche che, in subiecta materia, avevano ed hanno idee radicalmente diverse, per cui si è assistito a continui ripensamenti ed ondeggiamenti fra l’adozione di prescrizioni improntate all’accentuazione del rigore e dei controlli e la successiva entrata in vigore di norme che allentavano i vincoli imposti in precedenza o spostavano in avanti nel tempo gli adempimenti previsti (si pensi, per tutte, alla vicenda del SISTRI). Accanto a questi fattori politici, hanno inciso anche pronunce del giudice amministrativo e del giudice penale che, da versanti diversi, hanno affrontato la questione della classificazione di taluni materiali, ed in particolare delle biomasse, come rifiuti o come sottoprodotti. Tutto ciò, unitamente alla pressione svolta dalla c.d. sindrome NIMBY, ha creato notevole incertezza negli operatori e nelle autorità preposte al rilascio dei titoli abilitativi.
Dovendosi però mettere ordine alla materia, va osservato che:
- l’art. 2 della direttiva comunitaria n. 2001/77/CE (recepita dal D.Lgs. n. 387/2003 e attualmente sostituita dalla direttiva 2009/28/CE), stabilisce chiaramente che la frazione organica dei rifiuti solidi urbani è uno dei combustibili ammessi per gli impianti di produzione di energia elettrica da f.e.r.;
- la normativa sugli impianti che utilizzano energie rinnovabili si pone dichiaratamente, dal punto di vista procedimentale, come normativa speciale rispetto a tutte le altre disposizioni di settore, con l’unica eccezione di quella in materia di VIA. E’ previsto cioè che nell’ambito del procedimento di rilascio dell’A.U. confluiscano tutti gli altri procedimenti ordinari (ad esempio quelli previsti dal T.U. n. 380/2001, quello relativo alla prevenzione degli incendi, quello relativo ai profili più strettamente tecnici che coinvolge il Ministero dello Sviluppo Economico e l’ENEL, etc.), con la sola eccezione della VIA. Ciò è tanto vero che, come detto, il termine di 90 giorni previsto dall’art. 12 del D.Lgs. n. 387/2003 va calcolato “al netto” del periodo necessario per la conclusione della fase VIA;
- questo non vuol dire che le disposizioni di settore non abbiano rilievo sia in fase autorizzativa che in fase di gestione operativa (un impianto a biomasse può anche essere bloccato in fase operativa se, ad esempio, i Vigili del Fuoco accertano il mancato rispetto delle norme sulla prevenzione degli incendi);
- non è invece condivisibile ritenere che, siccome in un determinato impianto di produzione di energia elettrica da biomasse vengono utilizzati e stoccati rifiuti (come consente la normativa speciale di settore), il rilascio dell’autorizzazione ai sensi del D.Lgs. n. 387/2003, anziché ai sensi degli artt. 208 e ss. del D.Lgs. n. 152/2006, configuri eccesso di potere per sviamento. Il discorso investe anche la censura sollevata nei ricorsi nn. 379 e 380 a proposito della necessità che il presente impianto fosse assentito con AIA (ma di questa censura si è già detto al precedente punto 6.3., per cui non è necessario ripetersi);
- quando un impianto lato sensu industriale produce o utilizza rifiuti esso va autorizzato “anche” ai sensi della normativa di cui alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006, e questo proprio perché le autorità competenti debbono essere messe in grado di individuare ex ante tutti gli impianti esistenti nel territorio di competenza che possano creare problematiche di natura ambientale e di imporre, in sede di rilascio delle autorizzazioni, eventuali prescrizioni atte a prevenire eventuali nefaste conseguenze;
- e nella specie è accaduto proprio questo, per cui non si possono condividere le censure svolte sul punto dalle parti ricorrenti principali. Naturalmente nulla vieta al Legislatore di regolare diversamente la materia, prevedendo, ad esempio, che sia la normativa in materia di rifiuti ad attrarre quella sugli impianti che utilizzano f.e.r., ma fino a quando ciò non avverrà l’interprete non può disapplicare il D.Lgs. n. 387/2003.
16. In conclusione, i ricorsi principali (riuniti ex art. 70 cod. proc. amm.) vanno respinti, mentre i ricorsi incidentali vanno dichiarati inammissibili.
In ragione della complessità della vicenda e dell’esistenza di profili che, ad un esame ex ante (ossia al momento della proposizione dei ricorsi principali), potevano anche far ipotizzare un accoglimento dei ricorsi medesimi - vedasi, per tutte, la questione del rapporto fra l’A.U. e la pianificazione di settore - le spese dei giudizi vanno integralmente compensate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sui ricorsi, come in epigrafe proposti:
- li riunisce ai sensi dell’art. 70 cod. proc. amm.;
- dichiara inammissibili i ricorsi incidentali;
- respinge i ricorsi principali;
- compensa fra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Ancona nella camera di consiglio del giorno 6 febbraio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Gianluca Morri, Presidente FF
Tommaso Capitanio, Consigliere, Estensore
Giovanni Ruiu, Consigliere

riferimento id:20028
vuoi interagire con la community? vai al NUOVO FORUM - community.omniavis.it