Data: 2014-01-03 19:49:42

Illegittimi i limiti di orario dei CHIOSCHI su AAPP - sentenza

Illegittimi i limiti di orario dei CHIOSCHI su AAPP - sentenza
Tar Lombardia, Milano, sentenza n. 2886 del 19 dicembre 2013


N. 02886/2013 REG.PROV.COLL.
N. 00840/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 840 del 2013, proposto da:
Italian Cocktails Bar s.r.l., Navigli s.a.s. di Raviele Ivan & C., The Tropical Dream s.n.c., Armando Alba, Maurizio Riccelli,
Al 19 s.n.c., Il Panino El Pibe, Dwelling s.a.s. di Basile Luciano, Garzone Giuseppe & C., Durian s.r.l., Bailamme s.a.s.,
Claudio Scalzotto, Sergio & Fisio s.n.c., Maria Fiorella Terenzi, Gianluca Lombardi, rappresentati e difesi dall'avv.
Roberto Mongini, con domicilio eletto presso il suo studio in Milano, Via Colonnetta, 5
contro
Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Maria Rita Surano, Ruggero
Meroni, Irma Marinelli, Anna Maria Pavin, Donatella Silvia, Maria Sorrenti e Anna Tavano, domiciliato in Milano, Via
Andreani, 10
per l'annullamento
dell'ordinanza del Sindaco di Milano del 29.1.2013, recante la disciplina degli orari degli esercizi commerciali, pubblicata
all'albo pretorio in data 30.1.2013; di ogni provvedimento presupposto, connesso e consequenziale, nonché per la
condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni derivanti dal provvedimento impugnato.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Milano;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 dicembre 2013 il dott. Angelo Fanizza e uditi per le parti i difensori come
specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO I ricorrenti, come indicati in epigrafe, hanno impugnato, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza del Sindaco di Milano
del 29.1.2013, con cui è stata regolata la disciplina degli orari degli esercizi commerciali del Comune di Milano, e, in
particolare, l’art. 7, commi 1 e 2, nonché ogni provvedimento presupposto, connesso e consequenziale.
Gli stessi hanno, inoltre, chiesto la condanna dell’Amministrazione comunale al risarcimento dei danni subiti in
conseguenza dei provvedimenti impugnati.
A fondamento dell’impugnazione sono stati dedotti i seguenti motivi:
1°) eccesso di potere per disparità di trattamento, difetto di motivazione, illogicità manifesta e contraddittorietà; violazione
dell’art. 50, comma 7 del D.lgs. 267/2000;
2°) violazione dell’art. 3, comma 1, lett. d-bis) del D.L. 223/2006 (convertito nella legge 248/2006); degli artt. 11 e 64 del
D.lgs. 59/2010; dell’art. 3 del D.L. 138/2011; degli artt. 31 e 35 della legge 214/2011 e dell’art. 1 del D.L. 1/2012
(convertito nella legge 27/2012);
3°) violazione degli artt. 7, 8, 9, 10 e 10 bis della legge 241/1990.
La domanda cautelare, proposta anche con richiesta di misura monocratica, è stata radicata, oltre che sulla fondatezza
del ricorso in diritto, sul pregiudizio costituito dal fatto che “molti dei ricorrenti sono già stati multati dal Comune per aver
tenuto aperto il locale oltre l’orario di chiusura stabilito nell’ordinanza impugnata. La trasgressione del divieto comporta,
infatti, l’irrogazione di una sanzione pari a €. 1.000,00 per ogni infrazione”, oltre ad essere integrata dalla perdita di
clientela e dalla conseguente riduzione di personale (cfr. pag. 19).
Tale istanza è stata provvisoriamente accolta con decreto presidenziale n. 417 del 6.4.2013, sul presupposto che “pare
dubbia la legittimità dell’impugnata ordinanza alla stregua di quanto stabilito dall’art. 31, 2° comma del D.L. 22.12.2011,
n. 201, convertito nella L. 22.12.2011, n. 214, nonché dall’art. 1 del D.L. 24.1.2012, n. 1, convertito nella L. 24.3.2012, n.
27 in tema di liberalizzazione degli esercizi commerciali”; che “non sembra che i cosiddetti chioschi fissi insistenti su
aree pubbliche si sottraggano all’introdotta disciplina, apparendo assimilabili in ragione dell’attività svolta agli esercizi
pubblici” e che “sussistono in concreto gli estremi del grave pregiudizio, incidendo il nuovo orario di apertura e chiusura
sugli ordinari introiti dei ricorrenti”, rinviandosi la trattazione collegiale della domanda cautelare alla Camera di Consiglio
dell’8.5.2013.
Si è costituito, con memoria formale, il Comune di Milano (8.4.2013), che, tuttavia, nella memoria del 3.5.2013 ha
preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, in quanto la “limitazione temporale che
parte ricorrente contesta non è stata introdotta ex novo dall’ordinanza impugnata. Era, invece, già contenuta nella sua
formulazione identica (apertura dalle ore 5.00 alle ore 24.00) nelle precedenti ordinanze del 2003 e del 2008” (cfr. pag.
4); nel merito ha opposto che “le attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande esercitate su area
pubblica non sono del tutto assimilabili a quelle svolte su aree private, in quanto le prime, proprio perché su area
pubblica, soggiacciono a normativa specifica di settore e, conseguentemente, non soggiacciono in toto alla disciplina
delle c.d. liberalizzazioni” (cfr. pag. 5), richiamando la normativa nazionale (art. 27, commi 1 e 3 e art. 28, comma 13, 15
e 16 del D.lgs. 114/1998) e regionale (art. 16, comma 2 lett. a) e art. 22 della legge regionale 6/2010); che
“contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, l’apertura fino alle ore 2.00 non veniva precedentemente
consentita a tutti gli esercizi indistintamente, bensì solo ai chioschi che erano stati autorizzati ex lege 287/1991 e solo
fino alla scadenza dell’autorizzazione (2011)” (cfr. pag. 11); che la normativa sulle liberalizzazioni, inoltre, “non ha
precluso all’Amministrazione comunale di esercitare il proprio potere di inibizione per la tutela dell’ordine e/o della
sicurezza pubblica, nonché del diritto dei terzi al rispetto della quiete pubblica” (cfr. pag. 13), e che, anzi, “la
regolamentazione degli orari (…) corrisponde al preminente interesse pubblico (…) alla esigenza di viabilità e vivibilità
della città” (cfr. pag. 14).
Con ordinanza n. 504 del 9.5.2013 la Sezione ha accolto la domanda cautelare, con la seguente motivazione: “rilevato: -
che non pare fondata l’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse, motivata sull’assunto secondo cui nel
provvedimento impugnato non sarebbe stata apportata alcuna modifica rispetto ai precedenti atti di regolamentazione
(cfr. ordinanze del 2003 e 2008), dovendosi, al contrario, osservare che le censure articolate nel ricorso si fondano sulla
disciplina degli orari liberalizzata per effetto di interventi normativi successivi alle richiamate ordinanze; - che non
sembra, altresì, fondata la censura relativa al mancato avviso di avvio del procedimento, trattandosi di un provvedimento
di regolamentazione che sarebbe conseguito – come espressamente si esplicita nel preambolo – ad una preventiva
consultazione con i sindacati, le associazioni di categoria e dei consumatori; considerato: - che le Amministrazioni
comunali possono regolare l’attività degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici mediante
l’esercizio del potere previsto dall’art. 50, comma 7, del D.lgs. 267/2000, graduando, in funzione della tutela
dell’interesse pubblico prevalente, gli orari di apertura e chiusura al pubblico; - che l’ampiezza di tale potere è stata
oggetto di riforma per effetto della modifica legislativa introdotta dall’art. 31 del D.L. 201/2011, convertito nella legge
214/2011 (c.d. decreto “Salva Italia”), che ha riformato l’art. 3 del D.L. 223/2006 nel senso che “le attività commerciali,
come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte
senza i seguenti limiti e prescrizioni (…) d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio”; - che appare inoltre
infondata l’eccepita differenza tra la disciplina del commercio su aree pubbliche e private, tenuto conto che risoluzione n.
219871 del 24.10.2012 del Ministero dello Sviluppo Economico, richiamata dal Comune di Milano nelle proprie difese, ha
espressamente equiparato “le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo n. 114/1998 e di
somministrazione di alimenti e bevande”, le quali “possono svolgere la propria attività senza alcun vincolo di orario e
senza l’obbligo di chiusura domenicale e festiva”; - che il regime di liberalizzazione degli orari è applicabile agli esercizi
commerciali e a quelli di somministrazione, novero in cui va ricompresa l’attività di commercio su aree pubbliche; - che
tale regime non pare contrastare con l’art. 111, comma 1, lett. e) della legge regionale 6/2010, in cui è previsto – in
attuazione degli indirizzi regionali ex art. 28, comma 12 del D.lgs. 114/1998 – che “il Comune nello stabilire gli orari per il
commercio su aree pubbliche si attiene ai seguenti indirizzi: (…) e) limitazioni temporali possono essere stabilite nei casi
di indisponibilità dell'area commerciale per motivi di polizia stradale, di carattere igienico-sanitario e per motivi di pubblico
interesse”; - che, nel caso di specie, non può ritenersi integrato il presupposto per l’esercizio del potere di limitazione, nei
termini di cui alla disposizione sopra citata, avendo, di contro, l’Amministrazione comunale motivato l’impugnata attività
di regolamentazione sull’esigenza di “adeguare ed integrare la disciplina degli orari delle attività, a seguito della
legislazione nel frattempo intervenuta”, nonché di “adeguamento a disposizioni di legge, a modifiche già adottate con
precedenti provvedimenti speciali”; - che l’assunto difensivo dell’Amministrazione secondo cui “la regolamentazione degli
orari (…) corrisponde al preminente interesse pubblico che il Comune, quale ente esponenziale è chiamato in primis a
tutelare e in particolare alla esigenza di viabilità e vivibilità della città” (cfr. pag. 14 memoria difensiva) pare costituire
un’integrazione giudiziale della motivazione, che peraltro non sembra ricavabile, nemmeno implicitamente, dall’analisi
dell’ordinanza impugnata (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, ottobre 2012, n. 5257); - che, di conseguenza, appare di dubbia
legittimità il divieto di svolgimento dell’attività durante l’orario notturno, dovendosi inoltre considerare che: a) l’art. 3 del
D.L. 138/2011, convertito nella legge 148/2011, ha affermato, in tema di “abrogazione delle indebite restrizioni
all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche”, il principio secondo cui “l’iniziativa e l’attività
economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”, derogabile soltanto
in caso di accertata lesione di interessi pubblici tassativamente individuati (sicurezza, libertà, dignità umana, utilità
sociale, salute), che nella specie non possono, presuntivamente, ritenersi incisi; b) la liberalizzazione degli orari non
preclude all’Amministrazione comunale di esercitare il proprio potere di inibizione delle attività per comprovate esigenze
di tutela dell’ordine e/o della sicurezza pubblica, nonché del diritto dei terzi al rispetto della quiete pubblica; - che
conseguentemente devono sospendersi le previsioni contenute ai commi 1 e 2 dell’art. 7 dell’impugnata ordinanza”.
In vista dell’udienza di discussione nel merito, fissata per il 4.12.2013, soltanto il Comune di Milano ha ritualmente
depositato la propria memoria conclusiva (31.10.2013), nella quale ha soggiunto, rispetto a quanto in precedenza
opposto, che l’Amministrazione “ha voluto dare una regolamentazione omogenea ad attività di commercio che già di per
se stesse la legge non distingue nelle sue modalità di estrinsecazione (chiosco o banco). Ciò perché il suolo pubblico è
connaturato all’attività di vendita e l’orario di apertura illimitato produrrebbe una costante occupazione del suolo pubblico”
(cfr. pag. 11), infine eccependo l’infondatezza della domanda risarcitoria.
All’udienza del 4 dicembre 2013 i ricorrenti hanno depositato delle “note di udienza” (nella sostanza si tratta di una
memoria tardivamente depositata che il Collegio ha previamente deciso di non esaminare) e la causa è stata trattenuta
per la decisione.
DIRITTO
Preliminarmente, il Collegio ritiene di non dover nulla aggiungere a quanto motivatamente rilevato, in sede cautelare, in
ordine all’eccezione di inammissibilità del ricorso opposta dall’Amministrazione comunale, la quale, peraltro, nella
memoria depositata in data 31.10.2013, non ha mosso, a tal riguardo, alcun ulteriore rilievo.
Oltre che ammissibile, il ricorso è fondato nel merito e va, pertanto, accolto.
In ragione dell’interdipendenza dei profili trattati, i primi due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente.
Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto l’illegittimità del provvedimento impugnato per eccesso di potere, in quanto
l’Amministrazione comunale avrebbe introdotto una limitazione degli orari contrastante con la liberalizzazione della
disciplina concernenti le attività commerciali (più diffusamente richiamata nell’ordinanza cautelare, alla quale, pertanto,
deve ulteriormente farsi rinvio).
Con il secondo motivo hanno, conseguentemente, censurato la violazione della normativa speciale (D.L. 223/2006;
D.lgs. 59/2010; D.L. 138/2011; D.L. 1/2012) progressivamente stratificatasi sulla solida base costituita dalla direttiva
2006/123/CE (c.d. Bolkestein).
I motivi meritano entrambi di essere accolti.
Generici rivelandosi i richiami della difesa comunale alle disposizioni di cui agli artt. 16 e 22 della legge regionale 6/2010
(rispettivamente disciplinanti le “definizioni” e le “condizioni e limiti all’esercizio dell'attività”), va, anzitutto, presa in esame
la norma di cui all’art. 111 (“indirizzi in materia di orari per il commercio su aree pubbliche”), in cui si prevede, al comma 1, lett. e), che “il comune nello stabilire gli orari per il commercio su aree pubbliche si attiene ai seguenti indirizzi: (…) e)
limitazioni temporali possono essere stabilite nei casi di indisponibilità dell'area commerciale per motivi di polizia
stradale, di carattere igienico-sanitario e per motivi di pubblico interesse”.
Ciò precisato, nel corso del giudizio il Comune ha successivamente integrato le motivazioni originariamente poste a
fondamento dell’impugnata regolamentazione (“adeguamento a disposizioni di legge e a modifiche già adottate con
precedenti provvedimenti speciali”), soggiungendo che sarebbe stata perseguita:
a) la tutela “del diritto dei terzi al rispetto della quiete pubblica” (cfr. pag. 13 della memoria del 3.5.2013);
b) la tutela della “viabilità e vivibilità della città” (cfr. pag. 14 della medesima memoria);
c) la difesa contro una “costante occupazione del suolo pubblico” (cfr. pag. 11 della memoria del 31.10.2013).
Osserva il Collegio che si tratta di argomentazioni infondate.
E’, anzitutto, incontestato, ai sensi dell’art. 64, comma 4 del codice del processo amministrativo, che alla censurata
limitazione degli orari di apertura e chiusura risultano estranee ragioni di polizia stradale e di tutela igienico-sanitaria
(contemplate dal citato art. 111); occorre, poi, considerare che l’ordinanza n. 2712 del 15.7.2013 del Consiglio di Stato –
opposta dall’Amministrazione a sostegno delle proprie ragioni, quantunque relativa al diverso settore dei giochi – ha
statuito che “la liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali non si applica alle case da gioco
autorizzate ai sensi dell’art. 88 t.u.l.p.s. (art. 7, lett. d, d.lgs. n. 59/2010)”, dunque ammettendo che tale regime sia, di
contro, applicabile alle attività di somministrazione, quali quelle esercitate dai ricorrenti.
L’ambito di applicazione del citato decreto si estende, infatti, “a qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale
o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione
anche a carattere intellettuale” (art. 1, comma 1).
Non può dunque ritenersi congrua – anzi, finisce per immotivatamente comprimere la libertà di iniziativa economica dei
ricorrenti – l’esigenza (genericamente riferibile a qualsiasi attività commerciale regolata dall’ordinanza del 29.1.2013) di
provvedere ad un adeguamento normativo, espressa nel preambolo del provvedimento impugnato; né possono supplire
le postume integrazioni di motivazione addotte in corso di giudizio dalla difesa dell’Amministrazione comunale.
Oltre a ciò, va rilevata l’infondatezza del richiamo ad una sorta di collaborazione istituzionale con le Autorità di Polizia
che, ad avviso del Comune, legittimerebbe l’esercizio di una funzione amministrativa – che nella specie sarebbe
regolatoria – preordinata a garantire l’ordine e la sicurezza pubblica.
La tesi dell’Amministrazione può valere alla stregua di un mero auspicio di future riforme, ma è oggettivamente
contraddetta dalla giurisprudenza costituzionale.
Nella sentenza n. 167 del 6 maggio 2010 il Giudice delle Leggi ha, infatti, ben delineato i limiti della potestà legislativa e
amministrativa in tema di ordine e sicurezza pubblica, statuendo, tra l’altro:
a) che “questa Corte ha più volte affermato che Regioni e Province autonome non sono titolari di competenza propria
nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza, nella materia cioè relativa sia alla prevenzione dei reati, sia al
mantenimento dell’ordine pubblico (sentenze n. 237 e n. 222 del 2006), inteso quest’ultimo, in senso stretto, quale
“complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza
nella comunità nazionale” (sentenza n. 290 del 2001). Rientrano, invece, fra i compiti di polizia amministrativa, di
competenza regionale (sentenza n. 196 del 2009), le “misure dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono essere
arrecati a soggetti giuridici e alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le
competenze [...] delle Regioni e degli enti locali, purché non siano coinvolti beni o interessi specificamente tutelati in
funzione dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica” (sentenza n. 290 del 2001)”;
b) che “con la modifica del Titolo V è stata riservata allo Stato, dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., la
competenza in tema di ordine pubblico e pubblica sicurezza; ed alla competenza regionale residuale - e non più
concorrente – è stata attribuita la materia della polizia amministrativa locale. Quanto alla necessità di una collaborazione
fra forze di polizia municipale e forze di polizia di Stato, l’art. 118, terzo comma, Cost., ha provveduto espressamente a
demandare alla legge statale il compito di disciplinare eventuali forme di coordinamento nella materia dell’ordine
pubblico e della sicurezza”.
E’ pertanto evidente che il legislatore ha inteso temperare la misura e la qualità dell’intervento ausiliario delle
Amministrazioni locali, e quindi dei Comuni. Il che trova indiretta conferma nella disposizione di cui all’art. 54, comma 4 del citato TUEL, in cui si prevede che “il
sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato provvedimenti contingibili e urgenti nel rispetto dei principi
generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini
della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.
La precedente formulazione di tale norma, peraltro, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte, con
sentenza n. 115 del 7 aprile 2011, proprio, e non casualmente, nella parte in cui si premetteva l’avverbio “anche” alle
parole “contingibili e urgenti”: una chiara esplicitazione, ad avviso del Collegio, della corretta limitazione dei poteri –
perfino di quelli extra ordinem – dei Sindaci.
Quanto, infine, al terzo motivo di ricorso, concernente la violazione delle garanzie partecipative, le ragioni di opportunità
che hanno indotto il Comune di Milano ad astenersi da preventivi incombenti di carattere istruttorio non possono
integrare i presupposti per l’annullamento dell’ordinanza impugnata, tenuto conto della pluralità degli operatori del settore
e del possibile rischio di un aggravamento procedimentale.
Parimenti infondata è la domanda di risarcimento del danno, proposta in modo del tutto generico e senza dare conto del
pregiudizio finanziario che sarebbe derivato dall’adozione dell’impugnato provvedimento.
In conclusione, il ricorso è fondato, nei sensi espressi in motivazione, e va, pertanto, accolto, con conseguente
annullamento dell’art. 7, comma 1 e, per logica estensione analogica, comma 2 dell’ordinanza impugnata.
Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono quantificate – facendo applicazione dei parametri previsti dal
D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (con particolare riferimento all’attività difensiva della società ricorrente, limitata al solo ricorso
introduttivo), e del principio di determinazione omnicomprensiva elaborato dalla giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione,
sezioni unite, 12 ottobre 2012, n. 17405) – in complessivi €. 21.000,00, oltre accessori, che il Comune di Milano dovrà
corrispondere ai ricorrenti in regime di solidarietà attiva.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi espressi in motivazione.
Condanna il Comune di Milano al pagamento delle spese processuali, che liquida in complessivi €. 21.000,00, oltre
accessori, in favore dei ricorrenti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Francesco Mariuzzo, Presidente
Raffaello Gisondi, Primo Referendario
Angelo Fanizza, Referendario, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 19/12/2013 IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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